Rivista Anarchica Online


Francia

Lotta dura nei fast food
Intervista di Sébastien Dubost e Gilles Lucas a due membri di uno dei “collettivi di solidarietà”

 

... e non solo. Le recenti esperienze francesi, al di fuori dei soli schemi.


Scioperi dei dipendenti di McDonald’s, Pizza Hut, Arcade, dei Frog Pubs, Quick, passando per la FNAC e Virgin... In tutte queste lotte sono intervenuti dei comitati di sostegno, animati da sconosciuti che non cercano né di parlare al posto degli scioperanti, né di prendere il potere.

Che cos’è che ha messo insieme i membri di questi collettivi di solidarietà?

Jeanne: Non è l’appartenenza ad una stessa “condizione sociale”, penso, anche se molti di noi hanno un’esperienza diretta del precariato.
Non è l’affinità politica, dato che in questi collettivi c’è stato di tutto – nel primo collettivo di appoggio agli scioperanti di McDonald’s, era quasi una caricatura, si andava dai giovani Chevenementisti (1) fino ai membri del coordinamento dei sans-papiers, passando per tutti i gruppi dell’estrema sinistra più o meno sindacalista, e perfino degli antisindacalisti veri e propri (bisogna dire però che si era in periodo pre-elettorale...).
No, quello che ci ha messo insieme è semplicemente il fatto di essere disponibili e di aver voglia di mobilitarsi. Ci siamo detti: “Non sappiamo bene da che parte prendere il problema, ma se c’è gente che si batte, bisogna dargli una mano”.

Nicolas: La nostra preoccupazione principale è di modificare, sul campo, rapporti di forza che sono strutturalmente sfavorevoli ai salariati. La questione che ci ha messi insieme è: come fare per far vincere gli scioperanti? Non siamo un sindacato, non ne abbiamo la struttura. E nemmeno la voglia: non vogliamo creare un’ennesima struttura burocratica. D’altro canto non siamo lì per durare oltre la lotta che sosteniamo.
Non abbiamo gli strumenti per la contrattazione o l’accompagnamento giuridico, anche se ci è successo di dare una mano anche su questo terreno.
Facciamo delle cose piccole, all’altezza delle nostre forze, avendo come armi principali la nostra fantasia e una certa esperienza accumulata in vari anni di attività militante in senso lato.
Ogni sciopero ha problemi specifici, a cui occorre fornire risposte appropriate, favorendo, ogni volta che è possibile, il mutuo appoggio tra le varie lotte in corso.

Situazione imputridita

Che vuol dire, in pratica, “modificare i rapporti di forza?”

Nicolas: Bisogna cercare di capire quali sono i punti deboli, le faglie dell’impresa. Quando i dipendenti di McDonald’s Strasbourg-St-Denis sono entrati in sciopero, si sono ritrovati senza un soldo di fronte ad una multinazionale che lasciava imputridire la situazione. La prima cosa da fare era colpire un punto doloroso per McDonald’s: i ristoranti piazzati sulle grandi arterie frequentate da turisti. Abbiamo quindi organizzato dei blocchi di ristoranti facendo di tutto perché fossero visibili, cosa che in più ha stimolato l’inizio di altri scioperi. Tutti i sabati ricominciavamo. Non solo questo faceva perdere soldi a McDonald’s, ma soprattutto metteva in luce le sue pratiche sociali schifose. Durante lo sciopero di Arcade, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sul gruppo Accor, il subappaltatore, andando a “visitare” i suoi alberghi per informare i clienti ed indurli a manifestare la loro solidarietà. E dopo il licenziamento di Faty, si è trovata una forma d’azione più conviviale, ma che gli rompe altrettanto le scatole: si fa un pic-nic tutte le settimane in un hotel diverso. Questo ci permette di entrare in relazione con i clienti ed i dipendenti in modo disteso e di portare avanti la nostra inchiesta sui subappalti delle pulizie, che non abbiamo smesso di denunciare, e che persiste, checché ne dica la direttrice del personale... In fondo, si tratta di rendere visibile quello che, in tempi normali, resta accuratamente nascosto.

Esistono differenze evidenti tra gli scioperanti e le persone che partecipano a questi collettivi di solidarietà?

Jeanne: All’inizio c’è ovviamente una differenza di esperienze. Dopo vari anni di sostegno agli scioperi, si finisce per avere un’idea più precisa di quello che si può fare. Tuttavia, anche noi, in uno sciopero, abbiamo tutto da scoprire. Quando si è cominciato a dare una mano alle donne delle pulizie scioperanti di Arcade, io non sapevo assolutamente niente delle loro condizioni di lavoro né del funzionamento delle imprese di pulizia: sono loro che ci hanno insegnato. In compenso loro parlavano male il francese e conoscevano poco le regole essenziali della società francese; in questo senso noi abbiamo più strumenti di loro per muoverci nella società.

Nicolas: Sulla questione del funzionamento e dell’organizzazione, tutto si fa insieme. I salariati impegnati nel conflitto ed il collettivo di solidarietà si trovano intorno allo stesso tavolo, con riunioni settimanali. Il modo di funzionamento è chiaro: si discute insieme sulla base delle informazioni che arrivano, e a partire da qui, si decide insieme cosa fare e lo si fa insieme. In compenso, sono gli scioperanti che decidono gli obiettivi dello sciopero e in quale momento vogliono chiudere, in funzione degli elementi della contrattazione che contano di più per loro. Si fa di tutto perché conservino il controllo del loro movimento, anche in rapporto ai loro sindacati ed ai loro avvocati.

Si può immaginare che questi “collettivi di solidarietà” siano stati accusati di tutte le nefandezze possibili: manipolatori, riformisti, ideologi, ecc.

Jeanne: Non troppo. Siamo stati soprattutto ignorati. Ma è vero che alcuni di quelli che si pretendono radicali ci rimproverano di fare del “sindacalismo”. Non lasciare le briciole alla fine dei nostri pic-nic per non dare più lavoro alle donne delle pulizie, è probabilmente troppo sindacale e non abbastanza radicale...

Nicolas: Il collettivo non è Zorro. Dà una mano a gente che è già entrata in lotta, che ha già preso le proprie decisioni. Dà una piccola spinta a quello che già esiste. Non si tratta di far partire un movimento. Non ci si trova in un rapporto del tipo “siamo quelli che sanno tutto e vi diamo la ricetta”. Se qualcuno prende delle iniziative, gli diamo una mano. Se delle persone ci aspettano per prendere delle iniziative, non se ne parla nemmeno. È una questione di principio.

In pratica, fate un collegamento con la memoria e la storia del movimento operaio?

Jeanne: La cultura militante non è senza importanza, ovviamente, per quello che ci spinge ad andare avanti. Molti di noi hanno probabilmente l’impressione di riallacciarsi alla tradizione libertaria delle origini. Ma si tratta soprattutto di scoprire delle forme di azione adeguate per batterci nel mondo di oggi. Saper cogliere l’occasione anche, e reagire rapidamente. Tuttavia quello che facciamo è molto semplice e resta alla portata di tutti, presuppone soprattutto motivazione e ostinazione.

Azione sul campo e azione giuridica

Quali sono i rapporti fra i collettivi di solidarietà con avvocati e sindacati?

Nicolas: Non abbiamo mai cercato di mettere gli scioperanti contro i loro avvocati o contro i loro sindacati, malgrado l’idea che possiamo avere della burocrazia sindacale ed a volte anche della sua corruzione. Cerchiamo di essere pragmatici e la nostra linea di condotta è di fare tutto il possibile per aiutare gli scioperanti a vincere. È vero che, dato che privilegiamo l’azione sul campo, ci siamo trovati in disaccordo con la strategia del sindacato e dei suoi avvocati, che di solito tendono a privilegiare l’azione giuridica. Abbiamo allora tentato di spiegare il nostro punto di vista agli scioperanti, ma in fin dei conti sono sempre loro a decidere. Lo sciopero delle dipendenti di Arcade, per esempio, si è chiuso con un accordo confidenziale tra gli avvocati del sindacato e quelli del padrone. Ma le scioperanti erano spossate, era un anno che durava lo sciopero, e loro lo hanno accettato.

Voi vi occupate soprattutto del problema del lavoro?

Nicolas: È la relazione salariale che è la relazione fondamentale in questa società. In questi ultimi anni si tende troppo a dimenticarlo, a beneficio di grandi raduni anti o “alter-mondisti”, che partoriscono dei movimenti “fuori-terra”, senza radici nella vita quotidiana degli sfruttati.

Jeanne: Il lavoro è il nodo in cui ti confronti con il vero potere, con quelli che ti tengono per la collottola. E malgrado tutto è un “legame” sociale. Aiutare gli scioperanti a battersi contro lo sfruttamento nella loro ditta, è indirettamente un modo di battersi contro il proprio sfruttamento. In quel che facciamo, si tratta di mutuo appoggio, non di compassione. La lotta dei sans-papiers avrebbe per esempio tutto da guadagnare a prendersela con i padroni negrieri; secondo me questo gli permetterebbe di costruire un’unità più larga intorno ad essa e le darebbe dei mezzi di pressione che attualmente non possiede.

Praticare l’azione diretta

A che cosa potreste paragonare l’attività di questi collettivi di solidarietà?

Jeanne: Se si devono cercare delle somiglianze, penso che si possa guardare verso gli Stati Uniti. Là ci sono varie esperienze di intervento della “società civile” in appoggio alle lotte contro lo sfruttamento del lavoro, anche se la cultura politica ed i metodi non sono gli stessi. In Florida, per esempio, dei raccoglitori di pomodori, sud-americani, che lavorano in condizioni spaventose e per salari miserabili, hanno ottenuto dopo tre anni di lotta che la multinazionale Taco Bell, il principale subappaltatore, paghi un po’ di più i suoi pomodori e che l’aumento si rifletta sui salari. Questo grazie ad una larga campagna di boicottaggio organizzata da una “coalition” in cui si trovavano tanto le chiese protestanti che l’estrema sinistra. Ci sono anche altri raggruppamenti che hanno giocato un ruolo importante al momento del grande sciopero delle pulizie di Los Angeles (i “janitors” di cui parla Ken Loach nel film Bread and roses), che in seguito si è esteso a New York ed a Boston. I loro metodi sono perfettamente collaudati: invitano un sacco di gente ad entrare nella loro rete e ad impegnarsi per essere disponibili al momento opportuno. La sinistra di Boston si è mobilitata in questo modo per bloccare le strade e fare dei picchetti di solidarietà con lo sciopero, in un momento politicamente cruciale per il comune. Ed ha pagato. Credo che questi metodi siano destinati a prendere consistenza...

Nicolas: È una forma di americanizzazione di cui si parla poco …

Jeanne: Ma è vero che questi metodi sono a volte ambigui. A Boston l’iniziativa non è venuta dagli stessi scioperanti ma dal sindacato, che aveva messo a punto questa strategia: i membri della rete di solidarietà non conoscono gli scioperanti e non hanno modo di incontrarli. È un problema reale.

Nicolas: Su un piano storico, se c’è un’esperienza a cui ci si può rifare, è probabilmente quella degli Industrial Workers of the World (IWW). All’inizio del XX secolo i membri degli IWW si spostavano attraverso gli Stati Uniti, incitando gli operai, senza distinzione di razza, sesso, religione o nazionalità d’origine, a praticare l’azione diretta. Cioè a condurre degli scioperi decisi e controllati dai lavoratori direttamente interessati, cosa che definivano “democrazia operaia”. Potevano mobilitare migliaia di persone in un posto ed in un momento preciso, e questo dava loro una forza incommensurabile rispetto al loro numero reale. Gli IWW facevano dei giornali in diciotto lingue (noi, con i nostri modesti mezzi, abbiamo fatto dei volantini in quattro, cinque, sei lingue). Ai loro tempi, sono stati capaci di contrastare la strategia dei padroni e dello stato che consisteva nel giocare sulla divisione tra le diverse nazionalità. Si sono appoggiati su degli elementi di appartenenza nazionale per servirsene come fattore di coesione nella lotta. Hanno mostrato che era possibile trasformare un fattore di debolezza in elemento di forza. È una questione che oggi rimane centrale, allo stato attuale dei rapporti di forza.

Contatti (in italiano, inglese e ovviamente francese): fatysolidarite@hotmail.com.

Sébastien Dubost
Gilles Lucas

Titolo originale: “Solidarité sans larmes ni curès”, CQFD (“Ce qu’il Faut Dire, Détruire, Développer…”), n° 25, luglio-agosto 2005.

Traduzione dal francese di G. Soriano
Si ringrazia per la collaborazione Gianni Carrozza

1. Jean-Pierre Chevènement, ex ministro degli Interni e della Pubblica Istruzione, ex membro del partito socialista, abbandona il partito all’epoca della guerra del Golfo, su posizioni nazionaliste e anti-americane. Alla PI ha ristabilito il canto della «Marsigliese» nelle scuole, mentre agli Interni si è reso famoso per le massicce espulsioni di sans-papiers.

Amérika! Amérika!

«L’importante non è che la gente si organizzi sindacalmente. L’importante è disorganizzare il potere» È in questo modo che Ray Rogers aveva presentato, all’inizio degli anni ’80, il suo bizness nel serissimo Wall Street Journal. Il suo mestiere: «specialista dell’attivismo sociale». Scioperanti o sindacati indipendenti lo pagano per le sue competenze in materia di agitazione sociale. Su richiesta di salariati in lotta, Rogers ed il suo team arrivano sui luoghi del conflitto, li spingono ad allargare il loro movimento ad altre fabbriche del gruppo ed a portare l’agitazione davanti alle banche collegate all’impresa. Rogers «vende» una vecchia idea: rompere l’isolamento, uscire dal quadro del posto di lavoro, aggredire i centri di potere che controllano le imprese (banche, azionisti). Si implica in maniera totale, partecipa alle azioni, vive con e dagli scioperanti. È stato arrestato più volte con l’accusa di «propaganda sindacale criminale». A volte la semplice minaccia della sua presenza basta a far cedere i padroni. Il suo metodo: sviluppare una forte solidarietà, avere un’idea chiara degli scopi da raggiungere, fare in modo che i salariati pensino in termini strategici e sappiano che non possono contare altro che sulle loro forze, costruire degli appoggi esterni, mettere in piedi delle reti. Al suo attivo: l’insediamento imposto di un sindacato in una grande impresa del settore tessile nel 1980; l’aiuto dato nel 1984 agli scioperanti di Hormel Co (Austin-Minnesota), uno dei grandi nomi dell’industria alimentare; il “nuovo slancio” fornito – su richiesta della direzione nazionale del sindacato degli operai della carta – allo sciopero dei salariati di quattro fabbriche della multinazionale International Paper, ecc.
«Quello che faccio è un vero rompicapo e mi dà giusto di che tirare avanti. Non è certo per i soldi che lo faccio». Ma i princìpi che guidano questo agitatore professionista, emerso dall’ambiente operaio, tendono paradossalmente a mettere in pericolo la sua attività: che i salariati prendano in mano la loro lotta e «agiscano per conto loro e per i loro interessi» e subito diventa inutile. «Un buon organizzatore è quello che lavora per perdere il proprio lavoro … Detto fra noi, io farei volentieri a meno di tutta questa agitazione; mi piacerebbe tanto occuparmi delle stelle, degli animali e delle piante. Ma forse mi annoierei...».

Estratto da: Voyageurs au bord d’une Amérique en crise, di Sylvie Deneuve et Charle Reeve, Traffic Editions, 1992.