Rivista Anarchica Online


anarchismo

L’araba fenice
di Christian Ferrer

 

A un secolo e mezzo di distanza non è stata ancora inventata una critica al potere di qualità migliore di quella anarchica.


Fra tutte le ideologie nate nel XIX secolo, l’anarchismo era la più improbabile. Questo secolo fu prodigo e prolifico nell’invenzione di idee e di organizzazione comunitaria: dal socialismo al nazionalismo e dal sindacalismo al suffragio femminista, le sue successive dimostrazioni non sono altro che germogli barocchi sbocciati da questi semi originali.
E furono tutti storicamente necessari, rifugi dalla tormenta industriale o piuttosto muscoli disposti ad abbattere i resti dell’antico regime, o del nuovo. Ma l’anarchismo no.
Fu un’apparizione impressionante, o piuttosto l’annuncio di un problema insolubile tanto nel contesto culturale dei regimi liberali e conservatori moderni quanto in quello del prossimo “mondo egualitario” del comunismo. Gli anarchici proposero alla considerazione pubblica la questione del potere separato, ossia, dell’ordine gerarchico, presentandosi a sua volta in società come la sua corrispettiva antipode.
Si potrebbe parlare di un’anomalia politica spaventosa o una nostalgia del paradiso perduto, della cui efficacia si possono avere alcuni dubbi. Un ideale di distruzione di stati, carceri, polizie, eserciti, tutele religiose, matrimonio borghese, consumo della proteina animale, e del lucro. A pochi anni dalla prima apparizione europea dell’anarchismo, verso la fine del XIX secolo, era facile prevedere la sua difficile instaurazione pubblica, la sua crescita demografica con il contagocce e la sua successiva traversata del deserto. All’anarchismo venne diagnosticata una morte prematura, e anche se l’ultimatum non si verificò nella data prevista, è sicuro che la sua fertilità e la sua potenza calarono sensibilmente fin da poco prima della seconda Guerra Mondiale.
Di modo che la sopravvivenza dei suoi obiettivi e la rinascita occasionale del suo nome di guerra risultano essere – per la filosofia o per la polizia politica – poco meno che un miracolo. “L’Idea” – in questo modo veniva chiamata – caduta in combattimento durante la guerra civile spagnola riapparve sotto altre vesti nelle giornate del maggio del 1968, osmotica ai bordi del femminismo o dell’ecologismo, condensata nella rabbia punk, spolverata tra i situazionisti e i profughi del marxismo, recuperata infine da bande migratorie di adolescenti.
In politica si dice che i morti non contano, anche nelle occasioni in cui sono ugualmente riusciti a votare, e che le voci di testimonianza non sono altro che la poesia degli sconfitti. È allora una remora del passato, una scheggia incrostata e impossibile da togliere o un difetto di nascita delle democrazie moderne?

Un mondo acefalo

I segni d’identità divulgati corrispondono tra loro in modo mostruoso: la violenza, il radicalismo, l’attentato, il gesto anticlericale, le esigenze smisurate. E anche se qualcuno di questi attributi non gli è alieno, la storia degli anarchici non si riassume unicamente in un artiglio nervoso ma in molteplici opere e attività costruttive, e non poche di indole culturale.
Erano spinti da un’ansia di redenzione e di urgenza, e questo mutuo incontro conferì loro un’aurea di giacobinismo intransigente. Si sommi a tutto ciò, inoltre, la pretesa di un mondo libero da ogni forma politica piramidale.
Un mondo acefalo. Sorprende che le proposte anarchiche abbiano trovato dei lettori, dei simpatizzanti e perfino un attecchimento popolare, dato che un tale programma di trasformazione di simboli e istituzioni millenarie sembra essere carente di plausibilità fin dall’inizio.
Ma a volte le sette religiose o politiche riescono a coronare la loro dama e altre volte una sola pietra in un burrone riesce a ostruire lo scorrere del torrente. L’anarchismo non fu il frutto più aspro maturato sull’albero del socialismo, non fu semplicemente un “massimalismo” o una setta purista, o piuttosto un’importante pietra miliare della storia della dissidenza umana.
Era l’apodo di una speranza, quella della fine dell’oppressione e dell’indegnità, che fece vedere all’uomo moderno i limiti imposti alle sue possibilità antropologiche. La rivoluzione sociale che annunciavano presupponeva previamente una metamorfosi culturale, un sovvertimento del carattere, lo sprofondamento dell’io precedente per la conquistare dell’autarchia personale. E sempre per questo l’anarchico ha usato sempre il volto bifronte di Lazzaro risuscitato e quello di Spartaco.
Il modello usuale della rappresentazione politica è inconciliabile con le ambizioni politiche, perché l’obiettivo anarchico è la critica e la distruzione del potere separato, in qualsiasi sua forma. Tale è il primo comandamento della sua filosofia politica e della sua filosofia pratica.
E non furono solamente i suoi atti impulsivi e le sue personalità irriducibili la causa dell’alone infernale che gli venne affibbiato; lo fu anche l’aver voluto abbattere il fossilizzato dio della gerarchia, che molte società hanno subito o a cui hanno resistito per molto tempo ma che non furono comunque mai capaci di immaginare acefalo, eccezion fatta per le utopie felici.
Dove altri gettavano fondamenta per costruire verticalmente, gli anarchici scavavano sotto terra. In questo modo, sradicarono l’uso del denaro in Aragona, nel 1937, o abbatterono le carceri femminili di Barcellona a furia di picconate e mazzate, nel 1936, o si rifiutarono di rilasciare testimonianza durante i processi o disertarono di fronte alla chiamata alle armi o rifiutarono la fiscalizzazione centrale e religiosa in questioni emotive o rifiutarono di entrare a ingrossare le fila di partiti, anche quando non esitarono a schierarsi dalla parte degli oppressi e dei perseguitati.
Non sono decisioni semplici da assumere e da portare a termine. È possibile intravedere uno slancio puritano nell’anarchismo, che lo portò tanto a ricacciare il potere quanto a mantenere una relazione distante con il denaro. Costanti sentieri storici risultavano essere equivalenti a Barcellona e a Babele, ossia, creazioni umane sbagliate e corruttive.
Il loro contrario era il gruppo di affinità che, insieme all’associazione sindacale, fu la sua invenzione organizzativa specifica e durevole, uno spazio politico ed emotivo in cui venivano calibrate adeguatamente le relazioni tra mezzi e fini. Le loro organizzazioni non erano strumentali, centralizzate o univoche. Erano nidi di fratellanza.
All’inizio non erano più di un pugno di persone sparse in giro per l’Europa attorno a vari padri fondatori le cui opere avrebbero nutrito la sua patristica: Bakunin, Kropotkin, Malatesta; poi diventeranno centinaia gli “apostoli dell’ideale” che l’avrebbero disperso oltremare, incluse Cina e Giappone: pubblicisti, conferenzieri, simpatizzanti e perseguitati; parallelamente erano migliaia gli anarcoindividualisti che osservavano un modo irriducibile di vivere le idee anarchiche; più tardi arrivarono gli organizzatori dei sindacati e degli scioperi: uomini della CNT, della FORA, wobblies; e insieme a loro gli indomiti e gli “indisciplinati”, quasi sempre al di fuori della legge ed attenti solo al cristo delle proprie convinzioni: le bande di espropriatori, i falsificatori di denaro, le milizie libertarie riluttanti a cedere la propria indipendenza a uno stato maggiore dell’esercito durante la guerra civile spagnola; e ci sarebbero, per continuare, le centinaia di guerriglieri antifranchisti e i partigiani già provati che si unirono alla macchia e alla resistenza contro il nazismo; c’erano degli acrati anche tra le migliaia di uomini delle Brigate Internazionali che andarono in Spagna; e infine c’erano le inflorescenze spinose o impreviste a cui diede vita l’anarchismo: i regicidi, le “mujeres libres”, i crotos; e più tardi gli anarcosituazionisti, i punk, gli squatters, e altri.
Eppure furono sempre pochi, una specie in pericolo d’estinzione, l’araba fenice. La flora e la fauna anarchiche sono il frutto e il risultato di un’evoluzione plastica, i cui cambiamenti si combinarono tra di loro o si arroccarono con altre idee e pratiche tra il 1850 e i giorni d’oggi. L’emigrazione anarchica fu un processo capriccioso ma di successo, come le mosse di un cavallo su una scacchiera.

Il nome di una solitudine

Verso la fine del XX secolo, la caduta del mondo comunista sembrò dare ragione agli anarchici come sembrò anche aprirgli la porta dell’esilio politico in cui erano rimasti confinati, a volte per propria impotenza o per stupidità.
Avevano messo in guardia, molto prima della rivoluzione russa, sulle tendenze autocratiche dei partiti bolscevichi; avevano denunciato instancabilmente gli opportunismi e i crimini degli stati socialisti; non avevano creduto al castrismo e avevano rifiutato le sue prigioni tropicali; non provarono mai entusiasmo per la buona novella del fochismo, e i nuovi governi impiantati negli enclavi decolonizzati dell’Asia e dell’Africa gli sembravano abietti, quando non bande di delinquenti.
Avevano profetizzato il disastro giacobino, da cui non erano completamente scollegati. Ma il loro giusto pronostico non gli concitò rivendicazioni per la loro causa ne tanto meno attrasse a loro reclute liberate dalle loro personalità autoritarie. L’anarchismo continua a essere il nome di una solitudine, forse perché il suo futuro dipende meno dall’essere un lascito immacolato del socialismo quanto piuttosto dall’evidenziare di volta in volta il ritorno del represso in politica.
Altrimenti non si capirebbe come dopo tante sconfitte, assassini, incarceramenti, fratture intestine e perdite sopravvivano ancora – e perfino in ottima forma – tanti nicchi anarchici in tutto il mondo.
“Vivi ora nel modo in cui vuoi che si viva nel futuro”. Questo era il motto di un angolo dell’anarchismo che è stato appena studiato, quello in cui andarono a sfociare l’individualismo anarchico e l’élite culturale influenzata dal vitalismo e dalla psicoanalisi. Nella storia delle idee, i nomi di Max Stirner, Emile Armand, Otto Gross e María Lacerda de Moura sono solitamente menzionati – sempre nel caso in cui avvenga – come una nota a piè di pagina.
Ciò nonostante, la corrente anarchica che postulava “il diritto naturale al piacere” godette di influenza durevole sulle idee che allora erano state chiamate “avanzate”, oltre ad aver promosso diverse esperienze comunitarie o sperimentali.
Amore libero, rispetto del criterio individuale, libertà sulle questioni sessuali, promozione della pianificazione familiare o “procreazione cosciente”, denuncia delle repressioni emozionali e dei tradizionalismi, anticlericalismo, femminismo. Mettendo a disposizione dell’opinione pubblica temi fino allora considerati dei tabù, gli anarchici anticiparono di molto l’irruzione delle domande di trasformazione di costume proprie degli anni Sessanta, che ora è nota come epoca della “rivoluzione sessuale”.
Gli anarchici non pensarono mai che questi dovessero essere degli argomenti da posticipare, e una sorta di furia per la sincerità che sempre concesse un tono alto alle sue pubblicazioni rese sempre possibile che promuoverle in un piano prioritario. Insistendo sui drammi associabili all’alienazione esistenziale l’anarchismo seppe tastare l’insoddisfazione dell’uomo moderno.
Modernamente, l’anarchismo è stato un elemento di fertile disordine sparso tanto ai bordi dell’esperienza sociale umana quanto sui centri di gravità dei drammi popolari. La fame e l’autocrazia erano le sue bestie grame, e non hanno smesso di esserlo, come nemmeno tutti quelli che raccomandano la forca di fronte a un mero dolore di ossa e che preferiscono i satrapi ai demagoghi e viceversa, dato che il principio orientativo dell’anarchismo in politica si condensa in questa frase: “non comanderai nessuno e non permetterai che altri comandino te”. È un motto impossibile, considerando che non è incorretto il comandamento ma la forma del mondo.
Ed è per questo che gli epiteti scagliati sull’anarchismo quando riappare insolitamente e insolentemente sono sovente allarmisti. I suoi confutatori sanno che dietro a questi fuochi d’artificio battono pulsioni urgenti di malessere sociale con il potere separato, che né le democrazie né i comunismi hanno potuto scongiurare completamente.
L’anarchia non è il nome di una testimonianza archeologica né quello di un’itterizia inoffensiva, ma piuttosto quello di un enigma irrisolto della politica. A un secolo e mezzo dalla sua nascita non è stata ancora inventata una critica al potere di qualità migliore.

Christian Ferrer
(traduzione dal castigliano di Arianna Fiore)