Rivista Anarchica Online


globalizzazione

La democrazia degli ipocriti
di Andrea Papi

 

Forse non sarebbe del tutto assurdo provare a tentare la strada di un sano caos anarchico.


La nostra missione: mai più tirannide nel mondo. Con queste parole Bush a Riga, capitale della Lettonia, uno dei paesi baltici che in seguito alla spartizione di Yalta furono costretti a subire la dittatura bolscevica per circa mezzo secolo, ha di fatto chiarito al mondo quale sia la sua intenzione per la da lui auspicata strategia planetaria americana. Era sabato 7 maggio, vigilia del viaggio del presidente USA a Mosca, dove il giorno dopo sulla piazza Rossa avrebbe assistito alle celebrazioni della “grande guerra patriottica” contro Hitler, che nel secolo scorso vide l’America alleata di Stalin sul fronte della seconda guerra mondiale. Nello stesso discorso ha bollato come errori il famigerato patto Molotov-Ribbentrop e lo stesso patto di Yalta con cui i vincitori si spartirono il mondo, oltre a ricordare i misfatti del passato schiavismo americano e della mentalità razzista che ne è seguita. Ha terminato promettendo ovunque la fine delle tirannidi e il trionfo della libertà.
Parole all’apparenza nobili, sembra pronunciate addirittura con un certo pathos. I commentatori e i media di tutto l’occidente, sia della carta stampata sia televisivi, si sono da subito sbizzarriti cercando di sezionare il discorso e puntando un occhio privilegiato alle conseguenze che avrebbe potuto provocare nei rapporti bilaterali con Putin, l’attuale zar politico della nuova Russia, il quale ha immediatamente dimostrato di non gradire. Tutto è poi mediaticamente rientrato, ad onor dello spettacolo. In questa teatralizzata riconciliazione si è poi divertito il premier di casa nostra che, con la solita vis comica strizzando l’occhiolino alle telecamere puntate, se ne è pari pari attribuito il merito senza neanche limitarsi a farlo intendere. Poca roba invece sui contenuti espressi.
Al contrario, mentre ci trova del tutto indifferenti il teatrino sui rapporti diplomatici e bilaterali dei capi di stato in questione, a noi interessano proprio i contenuti, forse perché ci pervengono con un tetro suono sinistro e perché li captiamo falsi nella profondità del senso che pretenderebbero di esprimere. Con un efficace eufemismo preso in prestito da uno stereotipo sugli indiani d’America, ci viene spontaneo di dire con forza: “Il grande capo bianco ha la lingua biforcuta”.

Guerra preventiva

Da quando si è insediato alla Casa Bianca, Bush si è mosso sul piano internazionale seguendo e propagandando due direttive di fondo che caratterizzano in modo inequivocabile la sua politica e la sua visione del mondo: la guerra preventiva e l’esportazione
con ogni mezzo della democrazia. Entrambe sono l’una connessa all’altra da un indissolubile legame simbiotico ed esprimono la preoccupazione della difesa, della conservazione e dell’espansione dello status quo americano, considerato in modo esplicito il modello e il modus vivendi per eccellenza, cui il resto del mondo dovrebbe guardare con rispetto, devozione, riconoscenza e inchinarsi davanti alla sua presunta grandezza, al suo presunto splendore.
Rappresentano l’arroganza di una visione del mondo diafana, autoproclamatasi superiore e disposta ad accettare le altre solo se in stato d’inferiorità o sottoposte, se non addirittura sottomesse.
Le due cose sono strettamente connesse, anche se a uno sguardo immediato possono essere colte come indipendenti.
La guerra preventiva fu annunciata e dichiarata immediatamente dopo il massacro delle Twin Towers, presentata al mondo dalla Casa Bianca come una reazione di difesa contro la dichiarazione di guerra che Bin Laden aveva fatto al “demone” americano. Subito apparve quasi una strategia squisitamente militare, adatta a prevenire e nullificare i probabili annunciati attacchi del terrorismo internazionale che, ispirandosi nel caso specifico ad una lettura arbitraria dei sacri dettati del Corano, annunciava la guerra santa dell’Islam come ispiratrice di una lotta suprema per far trionfare la volontà di Dio sulla terra.
L’establishment statunitense annunciò subito che l’America non poteva limitarsi a subire, rimanendo passiva in attesa di volta in volta di devastanti attentati che ne avrebbero fiaccato il morale e le forze. Così, non potendo fare i conti con un nemico schierato su un fronte contrapposto, bensì avendo a che fare con un nemico invisibile che colpiva a tradimento e all’improvviso, scelse di colpire per prima là dove suggerivano le sue informazioni di intelligence, sorretta dalla potenza di fuoco del proprio insuperabile apparato militare.

Attacchi senza precedenti

Ne nacquero prima la guerra in Afghanistan poi quella in Iraq. Al momento non possiamo sapere quali altre allucinanti guerre seguiranno per rispettare il cammino di marcia della prevenzione bellica americana.
Presumiamo soltanto di sapere, e siamo fermamente convinti di non trovarci in errore, che, almeno fino a quando durerà l’amministrazione Bush, altre aggressioni militari sono lì pronte ad essere brutalmente consumate contro nemici scomodi in nome della difesa dei “sacri” interessi statunitensi.
Ciò che c’interessa sottolineare rispetto alla questione in esame è che sotto la voce della necessità di difesa sono stati organizzati attacchi senza precedenti, che con eccessiva frequenza colpiscono in modo indiscriminato popolazioni inermi e indifese, mentre al contempo con la prepotenza delle armi vengono cambiati regimi politici che, in un modo o nell’altro, debbono essere favorevoli alle scelte politiche degli aggressori.
Con questo non vogliamo affermare che siamo in qualche modo favorevoli ai regimi che sono stati detronizzati, nel caso specifico Saddam Hussein in Iraq e i talebani in Afghanistan, entrambi tra i più dittatoriali e sanguinari che la storia umana ricordi. Con grande chiarezza sosteniamo invece che questi odiosi regimi non sono stati affatto abbattuti per ragioni di moralità politica, come a gran voce tentano di sostenere gli aggressori USA, cioè perché erano odiosi e contrari ai più elementari diritti umani. Bensì sono stati demoliti con la forza militare perché a un certo punto della storia delle relazioni internazionali sono stati giudicati non più funzionali agli interessi economici e politici della superpotenza nordamericana.
A riprova di quello che stiamo asserendo il fatto che a suo tempo lo stesso Saddam è stato considerato un alleato fedele, cui tranquillamente sono state fornite armi di distruzione di massa, perché per motivi regionali era nemico del comune nemico iraniano. In modo equivalente a suo tempo lo stesso Bin Laden ed i talebani furono addestrati a combattere dai servizi statunitensi, poi portati conseguentemente al potere, perché in Afghanistan conducevano la guerra di resistenza contro l’armata rossa sovietica, allora ancora superpotenza antagonista. Ad ulteriore riprova il fatto che il Pakistan diventò improvvisamente un alleato fedele soltanto quando, forse inaspettatamente e con un opportunismo sorprendente, offrì il proprio territorio come base logistica per combattere il regime talebano, mentre fino a quel momento era stato tranquillamente annoverato tra gli stati canaglia per la dittatura ferrea che lo distingue e per esser stato base d’appoggio di vari terrorismi internazionali, tra cui gli stessi talebani.
È proprio rispetto alle motivazioni che avrebbero dovuto giustificare la volontà delle aggressioni belliche americane che salta fuori con forza lo slogan politico di esportazione della democrazia.
E non a caso fu proposto con determinazione e insistenza per il caso Iraq, mentre era stato appena abbozzato, quasi solo sussurrato, rispetto al precedente dell’Afghanistan. Nel primo caso, infatti, non è stato difficile creare una coalizione d’intervento militare internazionale, benedetta dall’ONU, che aveva la motivazione evidente che il regime talebano proteggeva il criminale Bin Laden e non lo voleva consegnare. Nel secondo caso, al contrario, di evidente fin dall’inizio c’è stato soltanto che Saddam non possedeva armi di distruzione di massa (infatti non sono mai state trovate), ragione ufficialmente addotta per giustificare l’aggressione. A differenza del primo caso non si è formata un’alleanza bellica internazionale benedetta dall’ONU, mentre il fronte dei vari stati si è spaccato e la guerra santa dei valori occidentali di Bush è stata condotta col solo Blair, quale alleato forte però fortemente contrastato in patria per questa sua scelta, e qualche altro alleato di facciata, tra cui il rampante Berlusconi di casa nostra.
Ecco allora prendere forza e teorica consistenza di tentato impatto mediatico globale l’“ideale universale” dell’esportazione della democrazia, che a un certo punto è diventato prevalente rispetto a quello iniziale della difensivista guerra preventiva.
Era troppo smascherata la falsa motivazione della difesa preventiva per dare un senso alla volontà di aggredire il regime di Saddam ad ogni costo. Essendo insufficiente il bisogno della difesa, si è d’incanto inventata un’America spinta da ideali universali, capace di sacrificare i “propri ragazzi” per “regalare al mondo la libertà”.

Seri dubbi

Detto fra i denti, in questa strategia di politica internazionale americana non riusciamo a trovar altro che una retorica idealista di sonore balle. Da una parte è del tutto vero che siano costretti a difendersi sia gli apparati di comando statunitensi sia, data la strategia degli attentati indiscriminati, gli stessi cittadini americani. Dall’altra parte invece è del tutto inaccettabile che lo facciano a discapito e contro le popolazioni inermi sottoposte ai regimi che vengono identificati quali nemici da sconfiggere, mentre il nemico vero è oculatamente nascosto e difficilmente prendibile, dal momento che i terroristi non si dispongono su un classico visibile fronte contrapposto.
I risultati del resto ottenuti non sembrano dimostrare l’efficacia della scelta, dal momento che Bin Laden e quasi tutti i suoi colonnelli, il mullah Omar e quasi tutti i capi talebani al momento non sono ancora stati catturati, mentre continuano bellamente ad arruolare neofiti ed a perpetrare orrende stragi proprio in Iraq e in Afghanistan ed ogni tanto anche nei paesi dell’odiato Occidente.
Chiediamoci inoltre che cosa in realtà vogliono veramente esportare: un’idea di democrazia, contrabbandata come l’unica vera autentica realizzazione della libertà, nei fatti ben poco democratica e che lascia seri dubbi sulle autentiche realizzazioni di libertà.
Appositamente ho detto idea di democrazia e non democrazia, perché a tutti gli effetti si tratta di un’interpretazione della stessa, la quale nel suo significato originario è qualcosa di ben più ampio della ristretta e monca visione che viene offerta dall’establishment dell’attuale Casa Bianca. Secondo i suoi desiderosi esportatori a suon di bombe essa si riduce e di fatto si esaurisce in una mera procedura elettoralistica finalizzata a designare le leadership legittimate a gestire il Government, cioè il potere statuale.
In democrazia il potere dovrebbe essere nelle mani del popolo sovrano, mentre nelle loro si trasforma in quello di un’oligarchia, designata appunto a comandare da libere elezioni.
A riprova il fatto che, una volta designati, lor signori decidono ciò che vogliono attraverso giochi politici più o meno abili, che si svolgono esclusivamente dentro il palazzo senza dover più rendere conto a chi li ha eletti fino alla successiva tornata elettorale.
Così l’oligarchia designata riesce ad imporre guerre, controlli polizieschi, dazi, tasse, comportamenti, obblighi, divieti, restrizioni, fino a delimitare a suo piacimento gli ambiti di movimento dei liberi cittadini, ai quali non resta altra possibilità che di subire, perché se tentano di opporsi al di fuori degli ambiti stabiliti vengono sanzionati, puniti, incarcerati.
Dov’è finita la famosa partecipazione del popolo alle decisioni che lo riguardano, vanto ed essenza della democrazia, nata dalla rivoluzione proprio per superare le imposizioni monocratiche ed istituire il potere della sovranità popolare?
C’è poi da considerare che la concezione democratica, al di là del riduzionismo istituzionale a cui è stata arbitrariamente sottoposta, è la risultante di un lungo processo di riflessione e di eventi storicamente determinatisi. È entrata a far parte del patrimonio occidentale attraverso un lungo travaglio ed alterne vicende, fino a diventare parte integrante ed ineliminabile del suo DNA.
Trasportarla con la forza delle armi, quindi imporla senza farla assimilare come processo di acquisizione collettiva consapevole, in contesti che hanno vissuto esperienze storiche e processi culturali qualitativamente diversi, al punto che difficilmente ne possono comprendere il valore, contiene il serio rischio di mistificarne la qualità e il senso.

Retorica d’immagine

Per mettere in piedi una situazione democratica non è affatto sufficiente indurre una popolazione a svolgere anche correttamente procedure elettorali al fine di eleggere propri rappresentanti parlamentari. Paradossalmente, ma molto meno improbabile di quanto si possa supporre, una popolazione religiosamente coinvolta e fideisticamente convinta senza esitazione, attraverso regolari elezioni, potrebbe scegliere di essere governata da un regime teocratico, che col suo consenso eserciterebbe su di lei un autentico totalitarismo. Che cosa ci sarebbe di democratico in una simile evenienza se non unicamente l’esile e risibile fatto che il tutto sarebbe avvenuto attraverso una consultazione elettorale? La procedura elettiva non garantisce di per sé l’auspicabile ed essenziale partecipazione né l’istituzione di relazioni politiche e sociali che realizzino e garantiscano stati di libertà.
Da tempo le istituzioni occidentali hanno messo da parte la possibilità di realizzare politiche che in qualche maniera sappiano di autentica democrazia, né tanto meno di autentica libertà. Forse hanno anche, più o meno consapevolmente, smarrito il senso che ne sottende.
Continuano a barricarsi dietro una retorica d’immagine che salvaguarda i privilegi, mentre con pertinace cocciutaggine, in nome della sicurezza e delle sempre più impellenti necessità economiche, con leggi e leggine si ostinano ad aumentare le restrizioni di movimento per i cittadini ed a limitarne il godimento dei diritti, a volte anche di quelli fondamentali. Il fatto che vengano designati attraverso il voto elettorale fa sentire gli eletti autorizzati a garantire il mantenimento di uno stato di cose che si fonda sulla finzione e sulla conservazione di una condizione sociale di libertà limitata.
Gli USA, unica superpotenza economica e militare rimasta in seguito alla fine della guerra fredda, avendo la presunzione autoreferenziale di essere i principi della libertà, nell’illusione di conservarne il primato la limitano continuamente e ne mettono in pericolo la veracità e il senso. Una volta sentitisi concretamente minacciati hanno deciso di ribaltare a proprio favore l’attacco subito trasformandolo in un’occasione di estensione della propria influenza internazionale militare, politica ed economica. Con grande tempestività hanno coniato ad hoc i due slogan della guerra preventiva e dell’esportazione della democrazia, col fine precipuo d’inventare e propagandare una giustificazione mediatica. Così, continuando con le loro abituali spensierate alleanze, hanno tentato di dare un’accelerazione alla mai abbandonata politica neocoloniale di gestione del mondo.
Appare scontato che non ci riferiamo ad un colonialismo classico. Non assistiamo più ormai da tempo all’annessione di territori, le colonie appunto, sui quali veniva imposta di prepotenza un’oppressiva gabbia militare ed il governatorato politico.

Terrificanti scadenze quotidiane

Ora gli eserciti conquistatori non tendono più a rimanere per imporre il proprio diretto comando. Appena la situazione è sotto controllo se ne vanno e lasciano governi locali o fantoccio o sicuramente amici sotto la propria diretta influenza, i quali hanno il compito di assicurare ai vincitori, non presenti corporalmente, la gestione oculata dei loro interessi e dei mercati. Se riesce costa molto meno e, se funziona, è molto più redditizio.
Purtroppo per l’impero americano, di conseguenza anche per tutti noi, le cose non stanno andando come aveva pronosticato e sperato. Per ora, sia in Afghanistan sia in Iraq la guerra è ufficialmente vinta ma niente affatto finita. Gli stati preesistenti sono stati polverizzati, mentre il nemico vero che si voleva disgregare non appare per niente debellato. Anzi! sembra più vivo che mai e, con terrificanti scadenze quotidiane, mina sistematicamente la sicurezza di un’apparente fin troppo facile vittoria, in realtà mai raggiunta. Purtroppo per le popolazioni coinvolte le azioni del nemico non debellato sono speculari a quelle dei vincitori e, allo stesso modo dei bombardamenti ufficiali, massacrano le popolazioni inermi e falcidiano vittime con un’impudenza sconcertante. Tale situazione comporta di conseguenza che, per ragioni di difesa sul posto, viga uno stato di vigilanza militare e poliziesca che sa tanto di permanente stato da coprifuoco.
I risultati di questa strategia sono presto detti: la guerra continua ad essere alimentata e sembra fortificarsi, la democrazia imposta è ridotta a un fantasma di se stessa, della libertà neanche l’ombra. In compenso si sono svolte “libere” elezioni militarmente protette, che hanno regalato a quei paesi governi provvisori, non proprio del tutto amati da chi ci abita, ma amici dei vincitori, i quali hanno il compito di preparare le nuove carte costituzionali per poi eleggere i veri futuri governi democraticamente legittimati, che magari daranno mandato a dei teocrati benvoluti i quali, sempre in nome della democrazia, gestiranno teocraticamente uno stato di soggezione a leggi il cui unico scopo è quello d’imporre la sacralità, indiscussa e indiscutibile, della fede religiosa in loco.
Il famoso “trionfo della libertà”, annunciato con enfasi a Riga da Bush, sembra proprio destinato a dissolversi in situazioni imposte che nulla hanno a che fare con la libertà e ben poco con la democrazia.
Non viene il dubbio che questa strategia di ricerca ossessiva dell’ordine mondiale porti progressivamente all’istituzionalizzazione di un disordine permanente ingestibile dagli stessi poteri vigenti? Forse non sarebbe del tutto assurdo provare a tentare la strada di un sano caos anarchico, nell’illusione, a nostro avviso sempre più realistica, di riuscire a mettere in piedi modi di convivenza non più ordinati dall’alto di poteri sempre più forti, ma autogestiti da un basso capace di trovare un equilibrio non “ordinato” in cui ogni individuo possa riconoscersi.

Andrea Papi