Rivista Anarchica Online


intolleranza

Consapevolezza e libertà
di Francesco Ranci

 

La consapevolezza delle proprie scelte come risultato di operazioni mentali e non come dato ontologico.


Facendo riferimento ai cortei di Beirut contro il governo libanese e alle elezioni irachene, egiziane e saudite, Magdi Allam sostiene, sul “Corriere della Sera” del 1° marzo 2005 (in prima pagina), che “nel mondo arabo è in atto una vera rivoluzione democratica” e ci esorta a “dare una mano, ai popoli che ambiscono a riscattare la propria libertà, troppo a lungo negata”. Ma, nel frattempo, pare che dopo l’omicidio di Theo Van Gogh ad Amsterdam il numero degli olandesi che intendono trasferirsi, il più lontano possibile dalla sfera d’influenza della cultura islamica, sia in vertiginoso aumento (lo scrive sullo stesso “Corriere”, in fondo a pagina 16, Mario Porqueddu). Uno potrebbe ben chiedersi se la “libertà” cui aspirano i popoli arabi sia o meno la stessa “libertà” cui credeva di poter godere l’autore del cortometraggio Submission, dedicato alla violenza contro le donne nell’Islam.

 

Elias Canetti sostiene che ogni essere umano “si oppone, entro di sé, al comando”. Ognuno avverte la pressione cui è sottoposto, riservandosi, in cuor suo, un “diritto di sovvertimento o di ribellione” (1). L’imperativo permarrebbe come una sorta di corpo estraneo, metaforicamente un “spina” conficcata nel corpo, che attenderebbe solo di essere espulsa dall’organismo che se la porta con sé – di solito, purtroppo, mediante un drammatico rovesciamento della situazione in cui, chi prima subiva un’imposizione, la può adesso, a sua volta, imporre ad altri (soddisfazione del boia).
Il che spiegherebbe abbastanza, fra l’altro, la mancanza di senso di responsabilità, e anche di memoria, tipica di coloro che si mettono nell’atteggiamento di eseguire ordini ricevuti da altri.
Si tratta di una situazione comunicativa, dove i soggetti produttori di attività mentale e relativo linguaggio sono già almeno due: chi comanda e chi ubbidisce. Non è impossibile dare ordini a se stessi, ma si tratta pur sempre di uno sdoppiamento, che deve essere operato attraverso la memoria (o altro, ad esempio, “metto la sveglia alle 7.00”).
Nessun mio comportamento, voglio dire, che si tratti di alzarsi alle 7.00 o altro, in quanto tale è “libero” o “determinato” (2). Per considerarlo tale dobbiamo aggiungere delle ulteriori operazioni mentali, e lo facciamo, di solito, per spiegare la differenza di quel comportamento da un paradigma di “normalità”. Se mi sveglio tutti i giorni alle 7.00, non avrò il problema di considerare questo comportamento come libero o determinato, a meno che non lo metta in rapporto, per esempio, a un desiderio insoddisfatto di dormire più a lungo (e allora troverò un vincolo e un comportamento determinato) o, al contrario, al piacere di respirare l’aria del mattino (ed ecco che diventerà una libera scelta).

“Scelta” o “tic”

Posso considerare l’accensione, ad esempio, di una sigaretta come una “scelta” – o come, invece, un “tic” – solo inquadrando l’evento in uno schema. Un conto è lo sdoppiamento dell’evento in un comando ed un’esecuzione – sia poi l’accendersi la sigaretta dovuto a carenza di nicotina del sangue, reazione all’accensione di una sigaretta da parte di altri o abitudine a una certa ora sono varianti dello schema deterministico. Tutt’altro conto è se, invece, vediamo la cosa in termini di evento fra altri parimenti realizzabili (accendo la televisione, mi verso un whisky, vado a letto, continuo a scrivere, etc.).
Se penso che ho promesso l’articolo per il giorno tale e manca poco, mi sento obbligato a scrivere e scrivo (brontolando fra me e me contro l’editore). Se invece penso di poter benissimo concedermi una pausa, o continuo a scrivere con un senso di libertà addosso, che altrimenti non avrei, o smetto.
Detto questo, sarebbe del tutto auto-contradittorio ritenere che siamo “liberi di”, o “costretti a” se è per questo, considerarci “liberi” o “determinati” – come ha fatto notare Felice Accade (3).
Si tratta di due schemi mentali alternativi che, come per tutto ciò che facciamo con la nostra testa e con il nostro corpo, usiamo perlopiù inconsapevolmente. Il fatto di rendersene consapevoli non ci mette di per sé in grado di controllarne poi l’uso a piacere in qualsiasi contesto possibile. Ci mette in grado di provarci (e non è poco), salvo fare i conti con la situazione comunicativa di cui sopra.
Canetti, come altri prima di lui, ricorda che l’Islam è una religione di guerra (“Uccidete gli infedeli” Corano, sura 9 v. 5). Tanto basterebbe a giustificare tutto lo scetticismo possibile da parte del movimento anarchico nei confronti di questa religione – scetticismo che, tuttavia, stranamente non sembra poi così diffuso (4).
Forse bisogna tenere presente, a questo proposito, la propaganda di regime – da suddividere in “di destra” e “di sinistra”.
Secondo la scrittrice Oriana Fallaci, in arabo non esisterebbe il termine adatto per tradurre il vocabolo “libertà” (5). Fermo restando che questo genere di argomentazione solleva non pochi problemi (basterebbe citare il caso della lingua degli Hopi che secondo Sapir era priva delle nozioni di “spazio” e “tempo”) (6); ho l’impressione che la Fallaci estremizzi notevolmente l’argomento arrivando a suggerire implicitamente che nella cultura islamica non sarebbe riconosciuta alcuna forma di libertà.

L’Italia legata agli Arabi

Un autorevole storico inglese (ecco la “sinistra”) come John M. Hobson, oppone alla Fallaci (nella mia ricostruzione, ovviamente) che lo stesso Profeta Maometto fu un mercante a “commenda”. La forma contrattuale secondo cui un investitore finanziava il viaggio di un mercante era chiamata, appunto, “commenda” nelle città italiane del secolo XI – città che, secondo molti storici “euro-centrici”, l’avrebbero inventata. Secondo Hobson “difficilmente può sorprendere che gli italiani adottarono questa istituzione dato che l’Italia era strettamente legata al sistema commerciale degli Arabi”, che rivendevano in Europa i sofisticati prodotti provenienti da India e Cina, e che lo applicavano, già dal secolo VIII, anche alla manifattura e al credito in generale, con un sistema capitalistico in tutto e per tutto (7).
L’Islam avrebbe anticipato di 150 anni le teorie di Copernico e quelle di Lutero, e, insomma, andrebbero riviste praticamente tutte le narrazioni cruciali per il mito dell’Occidente. Compresa la presunzione di aver creato la “libertà”. Presunzione che si regge sulle pretese di un sistema di rappresentanza parlamentare che solo dal 1913, in Norvegia, dal 1946 in Francia e Italia, e dal 1965 in America, ha potuto avvalersi del suffragio universale – peraltro, dico io, entro i limiti che le ultime elezioni statunitensi hanno messo in evidenza.
Un sistema che non ha mai entusiasmato né gli anarchici né, ad esempio, i bolscevichi di Bogdanov (8), né, tanto meno, gli amanti della libertà in genere – essendo abbastanza evidenti i limiti intrinseci del concetto di “rappresentanza” adottato.
Nel film “Farenheit 9/11”, ad esempio, il regista Michael Moore mostra che nessun senatore, compresi i canditati democratici alla Presidenza e Vicepresidenza degli Stati Uniti nelle elezioni del 2004, John Kerry e John Edwards, ebbe il coraggio di appoggiare formalmente il reclamo dei comitati degli elettori della Florida che non avevano potuto votare per la Presidenza nel 2000, impedendo così l’avvio di un’istruttoria formale da parte del Senato – i cui 100 membri sono praticamente tutti bianchi, milionari, cristiani e maschi a differenza del corpo elettorale che “rappresentano” (nel caso della Florida si trattava soprattutto di neri, poveri rispetto ai senatori milionari e non collocabili in una categoria sola dal punto di vista religioso né dal punto di vista sessuale).
Alla ricerca di tesi meno “destrorse” rispetto alla Fallaci, lo studioso Bernard Lewis ricorda che esiste un versetto “molto citato” del Corano secondo cui “non c’è costrizione nella religione” (2,256) (9). Il versetto, dimenticato da Canetti, è stato, in effetti, citato anche recentemente dall’Iman di Torino, intervenuto a “Porta a porta” (Rai uno).
Lewis, tuttavia, non rinuncia ad avanzare delle pretese di sua differenza dall’Islam, in nome del Cristianesimo. Lungi dal contrapporre il monito “uccidete gli infedeli”, ricordato da Canetti, all’evangelico invito a “porgere l’altra guancia”, tuttavia, egli sostiene che distinguere le Chiese dagli Stati sarebbe, “in senso profondo, un’idea cristiana” (10), figlia dell’evangelico “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Matteo, 22,21 – molto probabilmente, peraltro, un falso della Chiesa), dimenticando i Romani e tanti altri popoli non cristiani – compresi i musulmani che, anche loro, come sappiamo possono benissimo farsi la guerra pur rimanendo “fratelli” nell’Islam.
Lewis deve ammettere, ma lo fa solo a denti stretti, e a modo tutto suo, che, nel mondo cristiano, “di tanto in tanto i preti esercitarono il potere temporale” e “i re invocarono il diritto divino”, ma riesce a concludere affermando che “queste erano deviazioni dalle norme cristiane, giudicate tali e denunciate dai portavoce della monarchia e della chiesa” (11).

Roghi e massacri cancellati

Ci sono vari modi, insomma, per affermare la supremazia culturale dell’Occidente cristiano e barcamenarsi fra le pressioni religiose e ideologiche dei vari centri di potere, cancellando dalla Storia roghi e massacri perpetrati dalla Chiesa Cattolica come dalla borghesia “illuminata” e dall’Islam. Lewis, per concludere, afferma che le idee della Rivoluzione Francese “fornirono la principale ispirazione ideologica di molti dei movimenti modernizzatori e riformatori del mondo islamico” (12).
Ma, d’altra parte, quando le guerre successive alla Rivoluzione Francese coinvolsero l’Impero Ottomano e Napoleone invase l’Egitto, protettorato turco (già nel 1798, ancora da semplice generale), le vicende dei profughi delle guerre di quel periodo dimostrerebbero che l’Impero Ottomano “offriva un grado di tolleranza senza pari nell’Europa cristiana”.
Nel senso che, “ogni comunità religiosa, era autorizzata a praticare liberamente”. Poteva persino “applicare le proprie leggi” nell’ambito dell’educazione e della regolazione della vita sociale in genere – purché esse non fossero in contrasto con le leggi fondamentali dell’Impero (13). Quasi a dire che l’Islam avrebbe “appreso l’intolleranza” dall’Occidente.
Francesco Codello, sul numero 303 di “A”, pone il problema dell’Islam, e in generale del “relativismo culturale”, dal punto di vista degli anarchici. Sono d’accordo nel rifiutare la scelta fra difendere i propri valori come “assoluti” e accettare di subire nel nome del “relativismo” i valori di qualsivoglia residente, per esempio, ad Amsterdam (caso Theo Van Gogh, ucciso per aver osato criticare l’Islam).
Si tratta, piuttosto, di consapevolezza delle proprie scelte, esplicitazione dei criteri che ci guidano e apertura al dialogo fra chi condivide esigenze di consapevolezza e di libertà, considerata come risultato di operazioni mentali e non come dato ontologico.

Francesco Ranci

Note

  1. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi-Bompiani, Milano 1988, p. 370. (ed. or. 1960).
  2. AAVV, Scritti in memoria di Silvio Ceccato, “Quaderni di Metodologia” n. 7, Società Stampa Sportiva – Divisione Cultura e Scienze, Roma, 1999, p. 8.
  3. Felice Accame, La costituzione del determinato, del casuale e del probabile, in “Hortus Musicus”, 20, 2004.
  4. Vedi ad esempio il dibattito sulla conversione di Leda Rafanelli, promosso da Felice Accame su questa rivista nel febbraio 2001.
  5. Articolo apparso sul “Corriere della Sera”, dopo l’attentato dell’11/9/2001.
  6. Caso discusso da Giuseppe Vaccarino, in “Scienza e semantica costruttivista”, Clup, Milano, 1989.
  7. John M. Hobson, The Eastern Origins of Western Civilization, Cambridge, 2004, p. 120.
  8. A.A.Bogdanov, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, Odradek, Roma, 2004.
  9. Bernard Lewis, Il suicidio dell’Islam. In che cosa ha sbagliato la civiltà mediorentale, Mondadori, Milano, 2002, p. 123 (ed. or. What Went Wrong?, Oxford University Press, 2002).
  10. Lewis, cit., p. 103.
  11. Sempre a pagina 103.
  12. Lewis, cit., p. 112.
  13. Lewis, cit., p. 36.