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Un’agra vita

Maremma 1954. Nella miniera di Ribolla un’esplosione provoca la morte di quarantatré minatori. Come tante, troppe altre volte, causa della tragedia è il mancato rispetto delle misure di sicurezza, sacrificate dalla proprietà alle ragioni del profitto. Di fronte alle responsabilità morali e alle inadempienze materiali dei padroni, un giovane del luogo, un intellettuale socialista fortemente segnato dalle tensioni libertarie presenti nella sua terra, si reca a Milano per vendicare le vittime del grisou.
Nelle sue intenzioni, distruggere con un ordigno, anch’esso al grisou, il Torracchione, l’imponente grattacielo della Montecatini, nel quale siedono, disponendo delle vite altrui, i proprietari della miniera. Impiegatosi prima ad un giornale, poi come correttore di bozze e infine come apprezzato traduttore dall’inglese, il protagonista, giorno dopo giorno, lascia però sfumare nelle brume del capoluogo lombardo i motivi e le tensioni che lo hanno spinto a cambiare vita e città.
Infatti la metropoli, così diversa, così alienante e caotica rispetto ai ritmi della provincia toscana, lo avvolge nel suo scorrere quotidiano, e gradualmente, ma inesorabilmente, ne avviluppa corpo e volontà, fino a fargli dimenticare i propositi di vendetta e di palingenesi sociale che lo avevano spinto al nord.
La sua diventa così una vita appiattita sul tran tran quotidiano, sostanzialmente estraniata rispetto alla realtà circostante, ma al tempo stesso pienamente integrata in quel processo di trasformazione epocale che, attraverso il tumultuoso miracolo economico, il famoso boom, trasformò uomini e cose, il paese e la società, in modo irreversibile. Quella che era un’esistenza segnata dalla tensione politica e sociale, si trasforma così in una vita agra, dura e sempre più povera di slanci e afflati etici, trascorsa pigramente alla giornata ma attenta ad afferrare le opportunità materiali che si aprono: la macchina, la lavatrice, un dignitoso appartamento in affitto.
E come è per lui, è così anche per Anna, la sensibile militante della locale sezione del PCI, conosciuta a una manifestazione caricata dalla polizia, ma ormai sempre più propensa a sganciarsi dalla disciplina di partito, dall’impegno e dal lavoro politico: attenta a non farsi travolgere, ma al tempo stesso ad approfittare delle mille opportunità che offre a loro, come a tutti gli italiani, il travolgente sviluppo economico.
La Vita Agra (Rizzoli, 1962), è il romanzo che lanciò e fece conoscere al grande pubblico Luciano Bianciardi, già apprezzato e scomodo giornalista, protagonista, con l’amico Carlo Cassola, di una straordinaria avventura giornalistica sfociata nella pubblicazione, nel 1956 del libro-inchiesta I minatori della Maremma.
Dopo la pubblicazione de L’Integrazione e Da Quarto a Torino. Breve storia della spedizione dei Mille, quest’ultimo romanzo fortemente autobiografico fu subito salutato come il romanzo-simbolo del tumultuoso processo di integrazione nel miracolo economico di quegli anni: la descrizione più attenta e pertinente, proprio perchè così autobiografica, dello svanire delle antiche velleità ribellistiche a fronte delle opportunità che la grande città, concreta metafora della nuova struttura sociale, veniva offrendo a vite ancora segnate dalla difficoltà a far quadrare, mese per mese, i conti di casa. Ed è anche la narrazione di come, quando queste opportunità si trasformano nel principale obiettivo di una esistenza vissuta giorno per giorno, la vita agra cominci a trasformarsi in un alienante processo involutivo, per diventare sempre meno amara e sempre più “dolce”, nonostante le aspre contraddizioni che questo processo comporta.
Le prime difficoltà economiche si stemperano gradualmente con l’affermarsi di una professionalità che trova, nella Milano dalle mille occasioni, continue possibilità di esprimersi. E parallelamente si stemperano le asprezze di una vita fino allora caratterizzata dai vecchi valori ora messi in disparte con l’emergere di nuovi “valori” e nuove “qualità” tipiche del boom e della comunicazione di massa.
I valori della comunità, piccola e chiusa, cedono infatti il passo ai modelli di vita che nascono e si riproducono in una metropoli sintesi emblematica del miracolo italiano: modelli capaci di trasformare la precedente umanità del protagonista, come quella degli italiani, in un grumo di atteggiamenti sempre più indifferenti e parcellizzati.
E il drammatico episodio del barbone alcolizzato, lasciato morire, rantolante e sofferente, nella solitudine di un marciapiede fra l’indifferenza di una folla che passa oltre, sembra racchiudere, nella sua cruda banalità, tutta l’angoscia del protagonista. Quel ribellismo, dunque, che non era solo tensione etica, ma anche il portato di condizioni di vita che esigevano un cambiamento, viene dapprima a scontrarsi con il “pacchetto” di opportunità che offre la città, per poi estinguersi negli ingranaggi della produzione, dell’efficienza e della ricerca dei danè. Ingranaggi che chiedono, e pretendono, che alla solidarietà si sostituisca l’estraniazione, il duro pedaggio per partecipare al nuovo benessere.
La vicenda narrata da Bianciardi richiama, a mio parere, un’altra vicenda collettiva che interessò, nei primi anni sessanta, altri compagni, non solo anarchici ma, più in generale, di tutto lo schieramento di sinistra.
La storia di esistenze militanti che, dopo aver partecipato alle dure lotte di anni segnati non solo dai morti, dalle tragedie e dalle infamie del processo di accumulazione capitalista che avrebbe portato al boom, ma anche da tensioni e ricchezze morali irriproducibili, vennero poi ad adagiarsi sul piano di una rassegnata e inevitabile accettazione dell’esistente. Un esistente che, anche se non del tutto assimilato – perché sopravviveva un po’ dell’antico spirito critico e non si erano abbandonate del tutto le armi – riuscì comunque a mettere in secondo piano il primitivo spirito ribelle.
E nonostante il protagonista cerchi disperatamente di mantenersi estraneo a questa realtà per riafferrare la vera ragione della venuta a Milano, la vendetta contro l’industria mineraria, tuttavia le sue motivazioni si trasformano per poter cogliere le opportunità, economiche ed esistenziali, che la città offre. Non è un arrendersi completo quello del protagonista, come non fu resa totale quella di una generazione di proletari e popolani che finalmente poterono mandare i figli a scuola e godersi una settimana di ferie. Ma se anche permane, e si fa sentire, la lucidità che permette di capire i mutamenti in atto, al tempo stesso si concretizza un progressivo avvicinarsi alle ragioni del “nemico”, un progressivo arrendersi alle opportunità di vita che queste ragioni offrono.
Fu forte, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, il rifluire di tanti militanti dall’impegno politico. Anarchici, comunisti, socialisti, proletari e operai che non trovando più gli strumenti e le motivazioni per agire sui processi in corso, furono spinti a cogliere, e far proprie, le opportunità che si aprivano per condurre vite meno agre e stentate.
Furono anni che videro una potente offensiva del capitalismo e del padronato più aperto e intelligente, condotta sia sul piano della diffusione generalizzata di un benessere materiale mai visto in precedenza, che su quello dell’offerta di nuovi stimoli intellettuali. Un’offensiva sancita, sul piano sociale, da una inedita fase di pace e di collaborazione fra le classi, finalmente raggiunte con la tormentata nascita del centro sinistra, con quell’epocale avvicinamento alla fatidica stanza dei bottoni, come la definì il leader socialista Nenni, di un partito proletario che ancora si riteneva di classe.
E per effetto di questa apparente e incruenta “presa del potere” proletaria, con il suo carico di riforme sociali lungamente attese, si aprirono momenti estremamente difficili per un movimento genuinamente rivoluzionario come quello anarchico.
Tanti dei suoi uomini, soprattutto quelli avvicinatisi negli anni dell’immediato dopoguerra e non temprati dalla lotta antifascista, si allontanarono dall’impegno e dalle sedi, sfiduciati sulla possibilità di aperture rivoluzionarie e incapaci di opporsi ai prezzi morali e materiali che questo nuovo e attraente benessere, con le sue luci e le sue merci, pretendeva. I gruppi si svuotavano, sul posto di lavoro la nostra parola era sempre meno presente ed ascoltata, fra i compagni l’unica vitalità sembrava essere quella delle feroci polemiche interne.
È per questo che la vicenda di vita di Bianciardi, partito per distruggere la Montecatini e disordinatamente morto, nel 1971, nella Milano tanto amata ed odiata, sembra riprodurre, nelle sue linee essenziali, quella di tanti militanti, continuamente sospesi fra le ragioni di un’etica nonostante tutto mai rinnegata e le chimere dell’integrazione e del disimpegno. Compagni non più estranei alla società, come prima li rendeva “estranei” il rifiuto all’integrazione, ma neppure partecipi e complici di un processo sociale che avrebbe voluto annullare, con il trionfo delle merci, l’eterno conflitto fra capitale e lavoro
Figure che ancora brancolavano per trovare una ragione di vita che fosse la loro e non quella che gli si voleva imporre, e che soltanto con il ciclo di lotte che si aprì alla fine degli anni sessanta poterono ritrovare, rivivere e riaffermare quella tensione alla libertà che qualcuno avrebbe voluto far loro identificare con la Cinquecento comprata a rate.

Massimo Ortalli

La missione
di Luciano Bianciardi

L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendi a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita. La mattina del giorno dopo, alle sette, la miniera esplose.
Rimasi quattro giorni nella piana sotto Montemassi, dallo scoppio fino ai funerali, e li vidi tirare su quarantatré morti, tanti fagotti dentro una coperta militare. Li portavano all’autorimessa per ricomporli e incassarli, mentre il procuratore della repubblica accertava che fossero morti davvero, in caso di contestazione, poi, da parte della sede centrale. Alla sala del cinema, ora per ora, cresceva la fila delle bare sotto il palcoscenico, ciascuna con sopra l’elmetto di materia plastica, e in fondo le bandiere rosse. Venivano a vederli da tutte le parti d’Italia, giornalisti con la camicia a scacchi, il berrettino e la pipetta, critici d’arte, sindacalisti, monsignor vescovo, un paio di ministri che però furono buttati fuori in malo modo.
Venne il povero Di Vittorio a raccomandare la calma e la moderazione. Non venne la celere e anche i carabinieri del servizio d’ordine si tennero accosto al cancello della direzione. Ai funerali ci saranno state cinquantamila persone, tutte in fila con le bandiere, le corone dei fiori, il vescovo con la mitra e il pastorale. E quando le bare furono sotto terra, alla spicciolata se ne andarono via tutti, col caldo e col polverone di tante macchine sugli sterrati.
Io mi ritrovai solo sugli scalini dello spaccio, che aveva già chiuso, e mi sembrò impossibile che fosse finita, che non ci fosse più niente da fare.
Nella bacheca al cancello stava scritto che alle famiglie delle vittime il ministero offriva contribuzioni straordinarie e immediate varianti dalle 60 alle 100 mila lire, oltre il normale trattamento previdenziale previsto dall’Inail. La direzione offriva assegni assistenziali di 500 mila lire e di un milione, secondo i relativi carichi familiari. A conti fatti ci scapitava una ventina di milioni. Ma in compenso poteva chiudere subito la miniera.

Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale di Femia, di Calabrò, di tutti e quarantatré i morti del quattro maggio. Chiedendomi dove in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzioni fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi.
La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente. Veramente nessuno venne a dirmi che questa era la mia missione, che dovevo fare così e così, ma era pacifico; toccava a me. Del resto bastava come mi guardarono, gli altri, salutandomi prima della partenza. “Fai la persona seria, mi raccomando. Ora sei in prima linea, lo sai?” E non era un rimprovero – che fino a quel momento fossi stato persona poco seria. No, era come quando una pattuglia scola il gavettino di cognac ed esce a notte dal camminamento coi tubi della gelatina e le pinze tagliafili. Al caporale che sta in testa dicono “in gamba, non fare il fesso”, ma è un modo di dire. Che cos’altro, se no?

 


“… un deviazionista, un opportunista”
di Luciano Bianciardi

La Viganò si divertiva a sentire i miei discorsi, ma quando poi capì che dicevo sul serio, che veramente pensavo a uno scoppio di grisù, e in linea subordinata a una occupazione forzosa dell’edificio, con grande pazienza si mise a spiegarmi che questo era un atteggiamento opportunistico.
“Come opportunistico? C’è da lasciarci la pelle.”
“E che vuol dire la pelle? Opportunista è chiunque abbandona la linea del partito per sostituirvi il proprio tornaconto individuale.”
“Tornaconto? Ma che cosa me ne viene in tasca, a me, da un’esplosione di grisù? Se salta per aria il torracchione io non ci guadagno proprio un bel niente, lo sai?”
“Materialmente non ci guadagni nulla, lo so, ma se lo fai tu affermi una tua linea individuale, una tua ideologia personale, contro quella del partito, e sei un deviazionista, un opportunista.”
“E allora cosa dobbiamo fare?”
“Come, lo chiedi a me? Mi sembra chiaro: condurre insieme la lotta comune, giorno per giorno. Eh, se tutto si risolvesse con uno scoppio, sarebbe comodo. L’epoca degli anarchici è finita, tu lo sai meglio di me, storicamente superata. Del resto i colpi di mano isolati non hanno mai dato nessun frutto. Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto.”


“… è un locale per bene…”
di Luciano Bianciardi

L’uomo per terra aveva i capelli bianchi e adesso guardava me con un sorriso ebete.
“Come va?” gli chiesi. “Vuoi una mano?”
Brontolò qualcosa in dialetto, di gola, si tirò su a sedere e mi tese la mano. Avevo capito che intendeva dirmi aiutami a rialzarmi in piedi, e infatti lo aiutai. Per un poco anzi lo sostenni sotto le ascelle, ma appena l’ebbi lasciato, e lui tentò di andarsene con le gambe sue, barcollò e cadde all’indietro.
Ci rimase secco, e mi guardava ancora, ma senza più il sorriso ebete, anzi con occhi di vetro, e quando mi chinai a vedere meglio scorsi un filo di sangue che gli usciva dalla nuca e si spandeva nero sul selciato. Al bar lì accanto avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano a carte, e così andai là, a dire che c’era un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo in piedi, e che anzi provandoci m’era caduto battendo la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente.
“Be’” fece poi uno, visto che io non me ne andavo.
“C’è un ubriaco là per terra.”
“E allora?”
“Datemi una mano a rialzarlo.”
“Si rialzerà da sé.”
“Non ce la fa. L’ho aiutato io, ma m’è ricaduto e perde sangue.”
“E noi cosa ci entriamo? È successo a lei, no? Se la veda lei.” E riattaccarono a giocare a carte.
“La croce rossa” mi disse allora una donna che stava lì vicino seduta davanti a un bicchiere. “Telefoni alla croce rossa.”
Andai al banco e chiesi dov’era il telefono.
“Non è a gettone” mi disse l’uomo.
“Mi faccia telefonare lo stesso.”
“Non è a gettone” ripeté. “Là davanti, vada. Quello è a gettone.”
Là davanti mi rivolsi alla cassiera: “C’è un ferito per strada, mi dia il numero della croce rossa, per favore ”.
“Vuol telefonare da qui?”
“Sì, non è un telefono pubblico?”
“Sì, ma mi raccomando, non faccia il nome del locale, questo è un locale per bene e non vogliamo storie con la croce rossa.”
“Va bene, non faccio nomi. Mi dia il numero.”
“Se lo cerchi sulla guida.” E mi indicò il mobiletto sotto il telefono. Cercai il numero, poi chiesi il gettone.
“La moneta” fece la donna.
“Cosa?”
“Le venti lire.”
Gliele diedi ed ebbi il gettone. La croce rossa prima risultò occupata, poi mi dissero che l’autoambulanza era fuori, ma che avrebbero provveduto subito: chiesero la strada, e io gliela indicai. Rimasi là fuori sul marciapiede, con le mani in tasca, e di fronte vedevo la figura del vecchio sempre stesa sul selciato. Qualche larva, rincasando, quasi ci inciampò. Venne una coppia, scartarono per non pestarlo, e tirarono diritto.
Io restavo lì, fermo, e non potevo farci nulla: non muovere l’ubriaco, perché aveva battuto il capo e io sapevo che può essere molto pericoloso. Non chiedere aiuto a qualcuno, perché tutti badavano ai fatti loro. Solo attendere che arrivasse l’ambulanza. Dopo un po’ decisi di tornare a casa, anche per raccontarlo ad Anna, ma lei era sempre rabbiosa contro di me, e se ne stava curva al tavolino, a far finta di leggere. Mi stesi sul letto senza spegnere la luce, e sentivo quanto era ostile, Anna, dietro l’armadio, perciò non le dissi nulla. Stavo così, zitto e teso, a occhi aperti. Passò un’ora prima della sirena dell’ambulanza. Il giorno dopo, in tram, cercai nella cronaca e ci lessi appunto che un ubriaco sessantacinquenne, non identificato sinora, era morto per frattura della base cranica, in seguito a una caduta da ritenersi accidentale.
Del resto succedeva ogni giorno, mi spiegarono i colleghi in ufficio quando glielo raccontai: un malato d’infarto che muore sul marciapiede davanti all’ingresso dell’ospedale, senza poterci entrare perché non ha pronti i soldi del deposito o in regola le marchette della mutua; intere famiglie falciate da un camion con rimorchio, vecchiette stritolate dalle ruote del tram perché non hanno saputo salire a tempo, e sono rimaste con un piede impigliato nelle porte automatiche.
Ingenuo ero io a meravigliarmene. A New York, per esempio, altro che qui! Centinaia di morti ogni giorno in incidenti del genere. E anche a Londra. E a Calcutta migliaia di morti di fame, ogni giorno. Il mondo è fatto in questo modo, non l’avevo ancora capito?

Purché tutti lavorino
di Luciano Bianciardi

I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano, a quest’altro miracolo balordo: quelli che lo dicono già compiuto e anche gli altri, quelli che affermano non è vero, ma lasciate fare a noi e il miracolo ve lo montiamo sul serio, noi.
È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale dei circolanti su detto mezzo, il consumo del pollame, il tasso di sconto, l’età media, la statura media, la valetudinarietà media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia.
Tutto quello che c’è di medio è aumentato, dicono contenti. E quelli che lo negano propongono però anche loro di fare aumentare, e non a chiacchiere, le medie; il prelievo fiscale medio, la scuola media e i ceti medi. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due televisori, due frigoriferi, due lavatrici automatiche, tre apparecchi radio, il rasoio elettrico, la bilancina da bagno, l’asciugacapelli, il bidet e l’acqua calda.
A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera.
Io mi oppongo.
Quassù io ero venuto non per far crescere le medie e i bisogni, ma per distruggere il torracchione di vetro e cemento, con tutte le umane relazioni che ci stanno dentro. Mi ci aveva mandato Tacconi Otello, oggi stradino per conto della provincia, con una missione ben precisa, tanto precisa che non occorse nemmeno dirmela.
E se ora ritorno al mio paese, e ci incontro Tacconi Otello, che cosa gli dico? Sono certo che nemmeno stavolta lui dirà niente, ma quel che gli leggerò negli occhi lo so fin da ora. E io che cosa posso rispondergli? Posso dirgli, guarda, Tacconi, lassù mi hanno ridotto che a fatica mi difendo, lassù se caschi per terra nessuno ti raccatta, e la forza che ho mi basta appena per non farmi mangiare dalle formiche, e se riesco a campare, credi pure che la vita è agra, lassù.
Almeno avessi trovato gente come te. Ma la gente come te non me la fanno vedere, non gli danno il modo di dormire a sazietà, la tengono distante, staccata, la fanno venire tutte le mattine presto col treno, e io ho appena fatto in tempo a intravederli, senza capirci nulla, senza nemmeno potergli dire una parola.
Lo so, potrei andare in sezione, dici tu, ma qui dove mi hanno chiuso, ai piani alti di via Meneghino 2, come si fa? Non lo sa nessuno dov’è la sezione, se lo domandi per strada ti guardano come se tu fossi matto. E se anche la trovassi, che cosa credi che dicano, là dentro? Parlano del ventiduesimo, lo sai anche tu. Del torracchione intatto non parlano, e se mi ci azzardo dicono che è una notizia superata, stravecchia, che ci vorrebbe un altro scoppio per ritirarla fuori e sfruttarla politicamente, denunciare all’opinione pubblica e portare avanti un’azione di massa.
Dicevano così, te lo ricordi? E se poi fosse soltanto una questione politica, io saprei il da fare. Se si trattasse soltanto di aprire un vuoto politico, dirigenziale, in Italia, con pochi mezzi ci riuscirei. Il progetto l’ho già esposto altrove, ed è semplice. Mi basta da un massimo di duecento a un minimo di cinque specialisti preparati e volenterosi, e un mese di tempo, poi in Italia ci sarebbe il vuoto. E nemmeno con troppe perdite: diciamo una trentina, e nessuno dei nostri. Con trenta omicidi ben pianificati io ti prometto che farei il vuoto, in Italia.
Ma il guaio è dopo, perché in quel vuoto si ficcherebbero automaticamente altri specialisti della dirigenza. Non puoi scacciarli perché questo è il loro mestiere, e si sono specializzati sugli stessi libri di quelli che dirigono adesso, ragionano con lo stesso cervello di quelli di ora, e farebbero le stesse cose. Lo so, sarebbero più onesti, dici tu, più seri, ma per ciò appunto più pericolosi. Farebbero crescere le medie, sul serio, la produttività, i bisogni mai visti prima. E la gente continuerebbe a scarpinare, a tafanarsi, più di prima, a dannarsi l’anima.
No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine.

Brani tratti da: Luciano Bianciardi, La vita agra, Rizzoli, Milano, 1964.