Rivista Anarchica Online


tortura

L’assuefazione all’orrore
di Maria Matteo

 

Dalla pioggia di immagini raccapriccianti alla sostanziale complicità: il ruolo dei mass-media.


Hanno cominciato con le foto di Abu Graib. Orrende ed oscene, non per le povere nudità delle vittime ma per l’indecente ghigno dei carnefici in posa. Tante foto, forse troppe per un semplice “incidente di percorso” dovuto alla gaglioffa disattenzione dei secondini in divisa con foto ricordo da mostrare agli amici. Come il cervo impagliato in salotto, le improbabili tette di qualche esotica bellezza agganciata in vacanza, lo sguardo malandrino della squadra di commilitoni in libera uscita. Quante foto così ci sono nei nostri album. Ricordo quelle di mio padre in Africa: stretto con gli altri in posa accanto ad una mitragliatrice, oppure spavaldo con la sigaretta, gli stivali e il fez. Le foto di chi pensa che la guerra sia un tutt’uno con la vita e la gioventù… peccato che non ci siano foto del “poi”. Nessuna immagine dopo El Alamein, la lunga prigionia, la fame, le privazioni, i pidocchi, le malattie. Il tramonto della gioventù. Chi uscì da quell’inferno neppure lo voleva raccontare e quando pensava alla guerra non vi vedeva che l’immagine di un tempo perduto, bruciato nel vento del deserto, nella follia.
Chi sa se il sorriso sprezzante del soldato Graner, l’unico sinora condannato per le gesta nel carcere iracheno, si è spento quando le telecamere si sono allontanate dall’aula dove si era svolto il processo? Chi sa se la tranquilla arroganza di chi si sente nel giusto è venuta meno quando la porta della cella si è chiusa alle sue spalle? Difficile. In fondo la vera colpa di James Graner non è l’aver umiliato, torturato, massacrato i prigionieri del carcere dove lavorava, ma di aver fatto e mostrato le foto agli amici. Certe cose si fanno ma non si raccontano. E, soprattutto, non si fotografano.
Però.
Però, stranamente, dopo quelle prime foto ne sono arrivate altre ed altre ancora. Ultime quelle dei soldati inglesi che tormentano i “ladri” affidati alla loro custodia.
Ed ancor prima delle foto c’erano state le lettere delle prigioniere che chiedevano aiuto per i continui stupri cui erano sottoposte in carcere.
E le foto non sono che la punta del gigantesco iceberg emerso nel golfo, dove il Tigri e l’Eufrate, concludono insieme la loro corsa al mare dando vita allo Shat el arab.
Il pezzo forte dell’iceberg sono le armi di distruzioni di massa, quelle per le quali è stata scatenata la guerra, sono morti decine di migliaia di iracheni. Centomila, secondo l’autorevole “The Lancet - Il bisturi” – le vittime di questo conflitto feroce. Queste armi non esistevano, ormai lo dicono senza mezzi termini le stesse autorità statunitensi, e gli fanno eco i prodi scudieri anglosassoni di Tony Blair.
Addirittura sono arrivati ad ammettere che già nel ‘91 Saddam avesse rinunciato all’arsenale chimico, quello usato con efficacia contro i villaggi curdi nell’88, anno in cui la ribellione della gente del nord venne placata ammazzando gli abitanti di Halabja. Lo stesso arsenale adoperato nel conflitto di otto anni e un milione di morti scatenato contro i diavoli khomeinisti. Ma, questa, è un’altra storia. Allora Hussein era un buon alleato, non il feroce Saladino dipinto all’epoca dell’invasione del Kuwait. L’ignoranza profonda dei portatori di civiltà innesca l’ironia tragica di identificare Saddam, il massacratore di curdi, con Salah ed Din (Saladino), noto condottiero curdo sotto i vessilli ottomani. Ma, si sa, gli statunitensi sono gli stessi che lanciavano volantini di propaganda in Afganistan scritti in arabo, lingua che da quelle parti è compresa non più che dalle nostre.
Eppure tra volgare insipienza, arroganza senza limiti, foto ricordo di immonda ferocia, ammissioni fatte senza aver l’aria di farle, viene il dubbio che i nostri cow boy siano sì rozzi e crudeli, sì incolti e razzisti ma del tutto scemi no. Proprio no.

Tutto svanisce

Viviamo un’epoca in cui i media svolgono, tra gli altri, il ruolo di rendere opaca la realtà, mescolando continuamente i messaggi e le immagini, anestetizzando nel magma indistinto dello spettacolo le nostre sensibilità. Tutto corre in fretta ed in fretta si consuma. Tutto svanisce nel corso di una serata, quando tra un detersivo ed un’auto da corsa e appena prima del profumo di marca, appare un signore dal tono grave che parla, con la dovuta pudicizia, delle foto di Abu Graib.
L’orrore rappresentato più e più volte non colpisce più, non riesce a suscitare l’indignazione, la rivolta morale. Le foto scattate 60 anni or sono ad Auschwitz sono scolpite nella nostra memoria, inchiodate nelle nostre coscienze a monito affinché quell’orrore irripetibile non faccia la sua ricomparsa tra di noi.
Ne nasce uno iato: da un lato l’orrore irripetibile, dall’altro l’orrore moltiplicato all’infinito dagli scatti della macchina digitale di Abu Graib. Capita così che Auschwitz si cristallizzi nella memoria sino a divenire non un monumento alla ferocia del nazismo ma un’autocelebrazione della perenne vittoria della libertà. Tanto perenne che non può essere offuscata da nulla, neppure dal lezzo della carneficina irachena, neppure da quello, semisepolto del genocidio in Ruanda, attuato con il beneplacito dei signori di ieri, la Francia, pacifista in Iraq, ma assai meno disponibile a cedere il cortile di casa propria.
Mentre Auschwitz, rammentandoci la tremenda ferocia razzista del nazismo, rende inossidabile il mito delle democrazie buone, sempre all’erta contro il manifestarsi dell’intolleranza, dall’altra il maestoso iceberg emerso tra le acque del Golfo rende quasi “normali” gli orrori odierni.
Al punto che un criminale di guerra come Rumsfeld può permettersi di annunciare pubblicamente un’operazione coperta in Iraq, che ispirandosi alle gesta compiute in Centro America negli anni ’80 dall’attuale ambasciatore statunitense a Baghdad, John Negroponte, si chiamerebbe “Salvador”.

Come l’indiano delle praterie

Questa continua “fuga di notizie” sugli orrori compiuti in nome della libertà e della democrazia appare quindi consona ad una strategia di assuefazione alle infamie, più che un segnale di capacità reattiva da parte del sistema stesso. O, meglio, gli stessi anticorpi che le democrazie ancora mantengono sembrano atti più ad abituare alla normalità della malattia che a debellarla.
Così un giornalista investigativo come Arkin fa uscire un libro “Code names”, in cui si elencano i numerosi accordi bellici segreti che gli USA hanno in corso ai quattro angoli del pianeta, come se fosse del tutto normale. Uno, Stone Ax, riguarda il nostro paese e le strategie Usa in caso di attacco nucleare: nessuno degli abitanti della penisola ne sa nulla ma, evidentemente, l’operazione funziona e nessuno si indigna né protesta.
Parimenti Rumsfeld (sempre lui) ha la propria CIA parallela, ufficialmente inesistente, in pratica di pubblico dominio. Una roba da sceriffo di frontiera, un cavallo, una stella ed una colt, non certo da ministro. Ma che fa? Poco a poco l’eccesso diviene la regola, non scritta e non scrivibile della guerra permanente per il controllo delle frontiere planetarie. La partita si gioca come nel west: il nemico è cattivo, bene armato e ogni mediazione è impossibile, perché, come l’indiano delle praterie, è costitutivamente al di là dell’umano e, quindi, oggettivamente pericoloso. Per un simile nemico non valgono le regole del gioco perché da sempre è fuori dal campo, nella giungla dove hanno dimora le belve. Belve che vanno intimorite, incatenate umiliate, uccise. Come ad Abu Graib, come a Guantanamo. Hic sunt leones.
Bush, il cristiano rinato che guida gli USA, nel suo annuale discorso sullo stato dell’Unione, esultando per le elezioni irachene, ha dichiarato: “adesso bisogna addestrare gli iracheni”. Addestrarli come i cani. Il bastone e l’osso, la carezza e la pedata. Mentre i macellai continuano il loro lavoro in fondo a celle anonime dove languono non uomini.
Ci sbattono in faccia le immagini dell’orrore ogni giorno, a poco a poco, arriva l’assuefazione e, con essa, la complicità.
Che nessuno dica un giorno di non aver saputo, di non aver visto, di non aver immaginato.

Maria Matteo