Rivista Anarchica Online


Irak

Le elezioni inattendibili
di Antonio Cardella

 

Ma siamo certi che siano state il trionfo della democrazia?

Gli ultimi giorni dell’appena trascorso mese di gennaio sono stati doverosamente dedicati in tutta Europa alla commemorazione dell’Olocausto.
Ho visitato i posti in cui si è consumato appena qualche anno dopo la conclusione del conflitto mondiale e le immagini che mi si sono mostrate nei campi di Auschwitz di Treblinka di Belzec, con le baracche di legno corrose dall’umidità, i tavolacci disposti a castello lungo le pareti, i cortili fangosi, i forni crematori ancora intatti con le ciminiere annerite credo che me le porterò dentro sino alla fine dei miei giorni. So bene che quel terribile genocidio non fu il primo né, purtroppo, l’ultimo: basta ricordare quello degli Armeni che lo ha preceduto e l’altro dei Curdi che lo ha seguito, per citarne soltanto due, Ma l’olocausto, scientificamente organizzato contro ben sei milioni di ebrei ha questo di veramente inedito e tragico: che ha inaugurato una stagione di stermini motivati non più da conflitti religiosi o di potere, bensì da un radicale, feroce odio per il diverso, per chi ha una visione del mondo diversa e non crede nei valori assoluti della giustizia e degli ordinamenti socio-politici che si intendono imporre con la brutale violenza delle armi e delle torture. Inoltre è la prima volta nella storia che le inenarrabili vicissitudini di un popolo avviato all’estinzione sono puntualmente documentate da registri, mappe, modalità operative, archivi fotografici e filmati, realizzati con agghiacciante puntigliosità dalla follia omicida della Germania nazista. Nessuno, quindi può far finta di non sapere o di esorcizzare l’orrore illudendosi che si tratti di forzature dei vincitori a discapito dei vinti, come vergognosamente una certa storiografia d’accatto ha tentato (e tuttora tenta) di far credere.

La polveriera mediorientale

Questa tragedia, inscritta nell’immane tragedia della guerra, generò nei vincitori, ma io direi in vasti settori dell’opinione pubblica mondiale, l’esigenza di risarcire in qualche modo il popolo ebraico delle sofferenze patite e sembrò che il modo più opportuno per farlo fosse quello di porre fine alla millenaria diaspora, consentendo agli scampati dei campi di sterminio e agli altri ebrei sparsi per il mondo di insediarsi in un territorio tutto loro, nel quale costruirsi uno stato autonomo. La decisione dell’ONU del maggio del 1948 di dividere la Palestina, liberando un ampio territorio da destinare allo Stato ebraico indipendente pose fine alla questione ma acuì l’ostilità degli arabi che, con un atto d’imperio, si videro privati di uno spazio vitale e, per di più, senza che anche a loro fosse riconosciuto il diritto di uno stato sovrano, cessato il protettorato inglese della regione.
Potenza delle democrazie occidentali che in assoluto arbitrio risolvono in emergenza questioni spinose, scaricandone i costi sui paesi più deboli che non possono reagire, incuranti delle conseguenze a medio e lungo termine. Così, anche in questa circostanza, rimarginata una ferita, si apre una piaga di dimensioni epocali: il Medio Oriente diventerà la polveriera del mondo, così come i Balcani lo erano stati per il continente europeo alla fine dell’Ottocento.
Come era prevedibile, considerato lo spirito dei primi insediamenti ebraici conseguenti agli esiti del Congresso sionista di Basilea del 1917, concessa una mano, Israele non tardò a prendersi il braccio, le spalle ed anche qualche costola del territorio palestinese, giungendo a minacciare da presso la stessa Beirut in Libano dopo avere allargato i propri confini con la guerra lampo del 1967.
Non mi pare che possano esserci dubbi sull’esito detonante che il conflitto israelo-palestinese ha avuto e continua ad avere sulla destabilizzazione dell’intera area mediorientale, nel quale conflitto si innestano poi interessi incrociati di altra natura, primo fra tutti il petrolio. Nel caso specifico l’America – che sulle varie vicende che abbiamo tracciato forzatamente a grandi linee ha sempre avuto un ruolo determinante – ha colto quest’ulteriore occasione per giocare la partita sia per salvaguardare i propri approvvigionamenti energetici, sia, in funzione antieuropea, per avvertire i paesi del Vecchio Continente che avrebbe potuto, se necessario, condizionarne lo sviluppo.
Arriviamo così alla guerra preventiva ed all’invasione dell’Iraq, un’operazione maldestra – lo abbiamo più volte sostenuto – aggravata dalla presunzione di potere fare tutto da sé, con l’aiuto di qualche servo sciocco e senza valutare le reazioni di un mondo arabo già assai prevenuto nei riguardi dell’Occidente per i trascorsi storici e che correttamente legge l’intervento in Afganistan prima e in Iraq poi come un ulteriore tentativo di sottrarre sovranità ai popoli della regione.

Le nuove urne di Bagdad

Bisogna quindi essere totalmente sprovveduti o in perfetta malafede per interpretare le elezioni irachene del 27 di gennaio come la volontà di quel popolo di accedere al modello democratico che si intendeva esportare dall’amministrazione americana, un modello democratico che era rappresentato in loco dalle facce assai poco raccomandabili di un Allawi, ex (forse ex) agente della CIA e dall’ambasciatore Negroponte entusiasta organizzatore ed esecutore delle più liberticide e sanguinarie operazioni in America Latina.
È obiettivamente difficile che sia comprensibile per un popolo di normale intelligenza che un esercito che uccide in un anno e mezzo oltre diciassettemila civili con azioni militari indiscriminate possa essere portatore di valori essenziali per la normale convivenza e per l’esercizio delle più elementari libertà. Ed è poi altrettanto difficile ritenere che tutto quanto è accaduto in Iraq non costituisca motivo di forte preoccupazione per gli altri paesi dell’area, che, temendo non infondatamente che quanto è capitato agli iracheni prima o poi possa capitare anche a loro, giustamente tentano di dotarsi di deterrenti adeguati, riesumando i propri programmi nucleari. Intendiamoci; sono anch’io, come tutte le persone che non hanno perso l’uso della ragione, contrario a tutte le armi, figuriamoci a quelle di distruzione di massa, all’unica condizione che siano deposte da tutti.
Ma per tornare alle elezioni di gennaio non mi pare che esse possano essere attendibili, intanto per le condizioni ambientali in cui si è voluto pervicacemente farle tenere da una coalizione occupante, ansiosa di avere un’occasione formale per accelerare il suo disimpegno da un’avventura che è già costata un prezzo enorme sia in termini di vite umane (i soli americani hanno perduto sino ad oggi ufficialmente 1.500 uomini ma c’è il sospetto che siano molti di più), sia in termini economici. È ufficiale il dato che in alcune regioni del Paese, per ragioni logistiche o per cattiva organizzazione, si è votato con molte difficoltà o non si è votato affatto. Poi – e anche questo è un dato esplicitamente ammesso oltre che constatato da tutta la stampa internazionale – non c’è stata alcuna campagna elettorale e, quindi, gli elettori, lungi dall’esprimere un loro convincimento, o hanno seguito le indicazioni dei capi religiosi o qualcuno ha condotto la loro mano a segnare il nome di un candidato sconosciuto.
Non mi pare che il tasso di democrazia di un voto espresso in queste condizioni sia particolarmente alto, ammesso e niente affatto concesso che basti una tornata elettorale per parlare di libera espressione popolare, se, come nel caso di cui parliamo, è mancata assolutamente una sia pur minima circolazione delle idee ed era persino impedita la libertà di movimento del cosiddetto corpo elettorale.
Mentre scrivo non sono ancora noti i dati della farsa, ma già circolano insistentemente voci di brogli elettorali, che sono il normale corollario di rappresentazioni di questa natura.

Eserciti stranieri

Tuttavia il fatto che donne e uomini di quell’infelice Paese siano scesi in strada per raggiungere i seggi elettorali nelle condizioni che abbiamo tentato di descrivere, con in più il pericolo di essere falciati dai minacciati cecchini di Abu Musab al-Zarqawi o dalle autobombe dei kamikaze, una spiegazione deve pure averla. Fatta eccezione per i curdi (il 17% della popolazione irachena), che votavano per consolidare la propria autonomia dall’eventuale governo centrale, autonomia di fatto già ottenuta e garantita dagli stessi occupanti; e per i sunniti, che in gran numero si sono astenuti dal partecipare al voto, per non ratificare una prevedibile vittoria della componente sciita, resta da capire cosa sia passato per la testa di quanti – e sono la maggioranza degli iracheni – sono lontani dalle politiche di potere dei veri contendenti, non sanno niente, per ovvie ragioni storiche e culturali, di cosa sia una Costituzione e di quale mandato reale debbano essere investiti gli uomini chiamati a compilarla: ebbene, io credo che nella testa di quegli iracheni inermi e vessati sia maturata l’idea che il voto espresso in favore di propri concittadini, poco importa di che pasta fossero fatti e di quali valori fossero portatori, servisse a cacciare dai propri territori gli eserciti stranieri e a recuperare finalmente una vita da vivere e non da bestemmiare.
Se davvero a questo servisse quel voto, senza esitazione aggiungerei il mio al loro.

Antonio Cardella