Rivista Anarchica Online


anniversari

Racconto d’inverno
di Olga Foti

 

A 35 anni dalla defenestrazione di Giuseppe Pinelli, un breve racconto ne ricorda la tragica fine.

 

Dicembre 2004

Sembra che a Milano, in questura, si aggiri un fantasma.
Un mio conoscente, il signor B., mi ha rivelato un episodio accadutogli non molti giorni fa.
Venendo di notte dalla stazione centrale si trovò a passare da via Fatebenefratelli dove, appunto, ha sede la questura. Guidava lentamente in quella calma notturna senza traffico quando, staccando gli occhi dalla strada: ”Toh, guarda, si disse, come si agita al vento quel lenzuolo!”
Ma non c’era vento.
C’era la nebbia. Poca. Una luce fredda priva di colore, e quella figura bianca sul davanzale della finestra che, a dire il vero, non dava l’idea di un semplice lenzuolo.
… che fosse un fantasma?
Ma i fantasmi bazzicano gli antichi castelli e le case scricchiolanti nelle brughiere, i quartieri abbandonati anche, ma in pieno centro cittadino, in questura poi… Mai sentito!
Per non dire che gli spettri attendono i rintocchi della mezzanotte prima di venir fuori, è cosa risaputa, e alla mezzanotte mancava ancora un buon quarto d’ora, l’orologio parlava chiaro.
Gli venne in mente persino una poesia di Trilussa dove un vecchio, lui solo fra tanta gente spaventata, pensa:

Io senza dubbio vedo che è un lenzuolo
ma più che dir la verità da solo
preferisco sbajamme in compagnia.
Dunque è un fantasma, senza discussioni.

Ma… altra storia questa.
Provò a darsi una spiegazione sensata: la stanchezza, il sonno che avanza… Qualche volta la notte proietta film girati senza cinepresa e per farli dileguare basterebbe bagnarsi il viso con l’acqua fredda delle fontanelle.
A trovarne una però! E di bar aperti a quell’ora neanche l’ombra.
I palazzi erano bui e quieti, perfino troppo, come se gli abitanti fossero andati via chissà per quale ragione misteriosa. Insomma, pareva esserci solo il fantasma.
Ed eccolo staccarsi dal davanzale, rimanere sospeso, precipitare nella strada. Lungo disteso sul selciato, come morto.
Poi si era alzato, era sparito, era riapparso alla finestra e si era lasciato cader giù di nuovo. Una volta, due volte, più volte.
Un fantasma che si suicidava.
Il signor B. lasciò che il motore si spegnesse e rimase lì con le mani sul volante, immobile, come marmorizzato.
Si sa di morti che restano nel luogo dove sono morti, di luci che si accendono e inspiegabilmente si spengono, di passi e voci in case disabitate, anche di spettri affacciati alle finestre.
Il signor B. sentiva un brivido percorrergli la schiena.
Nel palazzo di fronte un balcone si aprì e si richiuse con sbatacchiare frettoloso, ma nella strada nemmeno un passante, solo la nebbia e il fantasma. Pareva guardare verso di lui, ora, verso la macchina. La fissava. Poi si mosse lentamente, la raggiunse, fece segno di voler salire.
Come dire di no a un fantasma?
E aprì la portiera, mise in moto.
“Dove vuole che andiamo ?” ed era stupito di avere ancora un fil di voce.
Non ebbe risposta. Ma improvvisamente, inspiegabilmente, il signor B. seppe il percorso che doveva fare: piazza della Repubblica, via Manzoni, il Duomo con la Madonnina, piazza Castello…
Una corsa nella notte attraverso la città illuminata, le statue come sentinelle, la luce cruda dei lampioni, quella violenta delle insegne. Lui e il fantasma, in macchina.
Roba da non crederci. Che storia, che storia! Guarda cosa doveva capitarmi stasera!
Ma poi di colpo: in una sera come questa, molti anni fa, in questura, non era successo un fatto strano?
Sicuro, ma sicuro, ne avevano parlato tivù e giornali!

dicembre 1969

In quella stanza dell’ufficio politico della questura, in via Fatebenefratelli, al quarto piano, c’erano il commissario, un ufficiale dei carabinieri, un sottufficiale, e l’uomo da interrogare.
Come aveva trascorso le ultime ventiquattro ore, volevano sapere.
Era scoppiata una bomba alla banca dell’Agricoltura, una strage con decine di morti, feriti, e un ragazzo condannato alla sedia a rotelle per tutta la vita.
L’uomo rispondeva calmo, tranquillo: dove aveva trascorso la giornata potevano testimoniarlo in tanti…
“Quel giorno, a quell’ora, Pino era al bar.” Così il barista.
E il fornaio e il vigile urbano del quartiere: “Abbiamo giocato a carte, gli abbiamo vinto anche dei soldi.”
Ma dopo quel volo dal quarto piano il questore dichiara alla stampa:
“Il suo alibi non reggeva, non c’erano riscontri, e l’abbiamo visto alzarsi all’improvviso, aprire la finestra e buttarsi sotto.”
“Si è avvicinato alla finestra che era aperta e inavvertitamente è scivolato giù” così invece il commissario.
Un cronista però gli aveva fatto notare che la finestra era alta e l’uomo non avrebbe nemmeno potuto scavalcarla con il suo metro e sessantasette di statura.
Di sicuro l’uomo era morto, l’omicidio veniva escluso, e il suicidio (era stato dimostrato) era tecnicamente impossibile.
Una storia complicata e scritta con lenti di colore diverso.
Molti affermavano che parlare di suicidio era solo una leggenda metropolitana; per altri era leggenda metropolitana parlare di omicidio.

Ricostruiva i suoi ricordi il signor B., si dimentica, certo, ma se si dà una scrollatina alla polvere del tempo tutto ritorna come fosse ieri. Invece era successo nel dicembre del 69.
Il giorno del funerale la strada era piena di folla: bandiere nere, bandiere rosse, tanta gente senza bandiere; giovani ma anche anziani, vecchi, sconosciuti, compagni, amici. E la moglie, piccola, minuta, chiusa in un cappotto lungo.
Freddo, un gran freddo quel giorno.
Ripensava a quei fatti il signor B. e continuava a guidare, accanto al fantasma immobile. Avevano lasciato il centro, superata Porta Genova, erano già al quartiere Ticinese, ai Navigli.
Fredda, quasi bagnata, la luce cambiava. Vie piene di ombre e di silenzi, case poco illuminate, più lontano una chiesa e il buio che sostava sull’acqua del canale, catturava un’ombra che spariva in un portone.
Il fantasma d’improvviso fece un cenno, indicò una strada, una casa, una come tante, con i fiori alla finestra e nel balcone disegni scoloriti di bambini ormai cresciuti.
Si fermarono. Un gatto miagolò, una saracinesca calò nel silenzio.
Anche la casa era immersa nel silenzio, ed era buia, forse disabitata, ma il fantasma la guardava, guardava quella casa, e il signor B. guardava lui.
Lo poteva vedere solo di profilo, e forse per colpa della luna, apparsa all’improvviso nel triangolo dei tetti, non capiva se erano giochi di luce o lacrime quelle sul lenzuolo bianco del fantasma.

Olga Foti

La casa editrice Net ha ripubblicato, nel mese di novembre 2004, il libro di Camilla Cederna, Pinelli: una finestra sulla strage, pagine 176, € 8,00, con l’introduzione di Enrico Deaglio.

Dall’introduzione:
Milano, 12 dicembre 1969: una bomba esplode nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana causando 17 morti e 85 feriti. La polizia ferma alcuni esponenti del movimento anarchico, tra cui Pietro Valpreda e il ferroviere Giuseppe Pinelli che, la notte tra il 15 e il 16 dicembre, precipiterà da una finestra della questura milanese. È suicidio, incidente o defenestrazione? La cronista dell’Espresso Camilla Cederna è tra i primi ad arrivare sul luogo della tragedia. Nelle settimane successive continua a occuparsi del caso e, in particolare, del processo per diffamazione intentato dal commissario Calabresi contro il giornale “Lotta continua”, dopo la pubblicazione di una serie di articoli che lo accusavano della morte di Pinelli. Attraverso interviste, testimonianze e trascrizioni delle udienze, la ricostruzione della Cederna svela incongruenze e occultamenti sulle cause della morte del ferroviere anarchico e restituisce con fedeltà il clima politico di quegli anni: l’ambiente della questura e quello del tribunale, magistrati frettolosi, poliziotti elusivi e una Milano grigia e turbata, pattugliata dalle camionette delle forze dell’ordine.

“Quella sera a Milano era caldo ma che caldo che caldo faceva
è bastato aprir la finestra una spinta e Pinelli cascò.”
dalla Ballata di Pinelli.