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                  popolo in cucina Sapori resistentidi Marco Rossi
 
 Dal fascismo alla Resistenza. 
                    Che cosa mangiavano (e non mangiavano) gli italiani. E i partigiani.    |   
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                  I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati 
                    dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco 
                    e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e 
                    poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni 
                    simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra 
                    (1). (Italo Calvino)  L’alimentazione 
                    degli italiani sotto il fascismo iniziò ad essere scarsa 
                    ben prima delle, peraltro limitate, sanzioni economiche votate 
                    dalla Società delle Nazioni alla fine del ’35 
                    in seguito all’aggressione italiana all’Etiopia. 
                    I problemi alimentari cominciarono dal pane, elemento base 
                    della dieta nazionale. Appena salito al potere, Mussolini 
                    dovette registrare un allarmante calo della produzione di 
                    frumento e nonostante la cosiddetta “battaglia del grano” 
                    l’incremento della produttività agricola risultò 
                    insufficiente e circoscritto soprattutto al Nord: nel 1933 
                    la farina prodotta ammontava a 380 grammi quotidiani a testa. 
                    Specialmente al Sud, si ricorreva a surrogati della farina 
                    di frumento; il pane era prodotto con una miscela di farina 
                    di lenticchie, d’orzo e di cicerchie.
 Ma anche nel resto dell’Italia, il pane bianco era privilegio 
                    di pochi e la propaganda si affrettò a screditarlo.
 Nero e scarso, il pane del Ventennio era per giunta salato, 
                    nel senso che era caro in rapporto ai salari (nel ’26 
                    costava 2,50 lire al Kg); tanto che diventò uno dei 
                    principali argomenti agitati dall’opposizione antifascista.
 Il giornale «La vie prolétarienne» del 
                    12 maggio ’29 informava su come si viveva in Veneto: 
                    “Le notizie da questa regione sono fra le più 
                    tristi. Nessuno o quasi ha lavorato quest’inverno. Vi 
                    è gente che da anni non ha una occupazione regolare. 
                    Vi sono famiglie che per intere settimane si sono nutrite 
                    alla meglio con un po’ di patate lesse. Durante i mesi 
                    del gran freddo, erano installate a Venezia, Padova e Rovigo 
                    delle cucine ambulanti per distribuire la zuppa alla popolazione 
                    affamata” (2).
 Nel febbraio 1931 usciva un numero unico clandestino del PCdI 
                    intitolato, emblematicamente: “Pane e Lavoro o la testa 
                    di Mussolini”.
 Anche la pasta era insufficiente e, per limitare le importazioni 
                    di frumento, venne incoraggiato il consumo di riso che, invece, 
                    era in sovrabbondanza. A tal fine la propaganda fascista condusse 
                    una violenta quanto assurda campagna denigratoria contro spaghetti 
                    e maccheroni che vide scendere in campo il futurista Filippo 
                    Tommaso Martinetti ormai in guerra contro la pastasciutta, 
                    incurante dei cortei popolari di protesta che si svolsero 
                    a Napoli e del dissenso del giornalista Paolo Monelli che 
                    ebbe a definire la pasta “l’ideale vivanda dei 
                    combattenti”.
  Autarchia in cucina
 In risposta alle sanzioni, l’autarchia entrò 
                    in cucina, inventando surrogati ed eliminando pietanze ormai 
                    introvabili. Secondo un’inchiesta del Bureau International 
                    du Travail del ’37 il vitto di una famiglia piccolo 
                    borghese e operaia era costituito da: “pane e poco companatico 
                    a colazione; minestra abbastanza lunga a mezzogiorno; pane 
                    e polenta la sera, con companatico il meno costoso come baccalà, 
                    saracche o simili”. Con l’entrata in guerra fu introdotto il razionamento 
                    e la religione del risparmio raggiunse il suo apice; nelle 
                    riviste femminili le donne italiane trovarono ricette per 
                    riciclare bucce e torsoli di mele, gambi di prezzemolo e di 
                    cavolfiore.
 Nulla andava buttato via, tutto poteva trasformarsi in surrogati; 
                    si trovò persino la maniera per fare la crema senza 
                    uova, la marmellata senza zucchero, l’insalata senz’olio 
                    e le costolette senza carne, mentre la farina di castagne 
                    suppliva il colore del cioccolato.
 Il caffè venne bandito, ma comunque dopo il ’40 
                    era divenuto praticamente introvabile persino per i benestanti. 
                    Circolava solo qualche piccola quantità di caffè 
                    non tostato, forse proveniente dalla Svizzera. Esauriti anche 
                    il cosiddetto Caffè Harrar e il tè etiopico. 
                    Dopo l’annessione della provincia di Lubiana fu lanciato 
                    il tè sloveno Alpakay.
 Se, fin dal ’40, anche le banane “imperiali” 
                    importate dalla ex colonia somala non erano più giunte 
                    in Italia, dal ’43 venne a mancare anche la frutta meridionale. 
                    La frutta di produzione locale non era commercializzata oppure 
                    aveva prezzi elevati.
 Fece la sua comparsa un manifesto murale in cui si vedeva 
                    un soldato con casco coloniale che, battendo una mano sulla 
                    spalla di un borghese seduto ad un tavola ben fornita, ammoniva: 
                    “Se tu mangi troppo derubi la patria!”.
 Nei ristoranti e nelle trattorie, che lo stato di guerra aveva 
                    declassato a mense popolari, per chi disponeva di soldi il 
                    “rancio unico” (minestra, verdura, frutta) poteva 
                    riservare succulente sorprese: la “verdura” dello 
                    spartano pasto tesserato poteva diventare tacchino o pollo 
                    nascosto da una montagna di fagioli o piselli.
 Ma a partire dal ’41, secondo anno di belligeranza italiana, 
                    la situazione andò progressivamente aggravandosi e 
                    nelle città bombardate cominciò ad aggirarsi 
                    lo spettro della fame.
 “A Parma, il 16 ottobre 1941, scoppiò una violenta 
                    rivolta in seguito alla diminuzione giornaliera della razione 
                    individuale di pane, ulteriormente ridotta a 150 grammi, sebbene 
                    Mussolini, che aveva visitato la città pochi giorni 
                    prima, avesse promesso di non abbassare le razioni alimentari: 
                    le donne assaltarono un furgone della Barilla che trasportava 
                    un carico di pane.
 Appena sparsa la notizia, altre donne uscirono dalle fabbriche 
                    e formarono dei cortei spontanei in molte vie della città; 
                    furono le più politicizzate ad organizzare le operaie 
                    e le massaie. Le donne manifestarono numerosissime e molte 
                    di loro furono arrestate (…). La protesta venne chiamata 
                    “sciopero del pane” e rappresentò un momento 
                    importante nella cronologia di sviluppo del movimento clandestino 
                    di liberazione” (3).
  Incubo quotidiano
 Nel ’43, dopo l’armistizio e l’8 settembre, 
                    nelle regioni del centro-nord sotto la Repubblica di Salò 
                    e l’occupazione nazista, il problema dell’alimentazione 
                    sarebbe divenuto praticamente l’incubo quotidiano di 
                    tutta la popolazione civile, ma persino per i militari, come 
                    dimostra un notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana: 
                  Circa cento reclute che viaggiavano da Sassuolo 
                    a Reggio Emilia, risultavano essere fuggite dalla caserma 
                    di Sassuolo perché il trattamento loro usato era cattivo 
                    e demoralizzante: mancata distribuzione del rancio, gavette 
                    sporche, mancata distribuzione di coperte, ecc. Perciò 
                    rientravano alle proprie case col proposito di non ripresentarsi 
                    alle armi prima che l’andamento della caserma venisse 
                    modificato. Per questo motivo, la radio, il cinegiornale e la stampa 
                    di Salò vennero mobilitati per convincere i giovani 
                    a presentarsi ai Distretti, rassicurando che i nuovi arruolati 
                    avrebbero trovato da mangiare. Indicative soprattutto alcune 
                    foto e alcune pellicole in cui si vedevano mense fornite e 
                    tavolate con volti sorridenti per il rancio del giorno. Gravissima la situazione nelle grandi città, mentre 
                    nelle cittadine di provincia e nelle campagne, grazie alle 
                    produzioni locali, era ancora possibile un minimo di nutrizione 
                    degna di tale nome.
 I contingenti di merci razionate assegnati alle province erano 
                    sovente insufficienti, quasi sempre in ritardo, molte volte 
                    non arrivavano affatto. Ad esempio, “a Padova si rileva 
                    continuamente, da parte tedesca come anche da parte della 
                    prefettura, scarsità (…) di sale (…). Per 
                    quanto riguarda i generi alimentari, le carenze più 
                    gravi riguardano i grassi vegetali e animali” mentre 
                    “i contingenti quindicinali di farina di mais e di frumento, 
                    di pasta e di riso arrivano con discreta regolarità 
                    all’Ufficio distribuzione generi razionati” (4).
 Diverso invece il caso di una cittadina come Arezzo, come 
                    riferisce un’interessante testimonianza.
 “Nell’inverno i più degli sfollati, nell’agro 
                    e nelle colline, si salvarono con le rape e poco pane. Le 
                    rape dette “purezze”, mostrando puntine bruciate 
                    dal gelo (delizia dei buongustai) oppure foglie comuni, erano 
                    una delle poche cose che si trovavano, con larghezza; erano 
                    ricercate, da mangiare lessate e, possibilmente, con un po’ 
                    di sale; l’olio era un tesoro, i grassi suini un’eccezione.
 Il pane era la cosa che mancava di più; si era ancora 
                    in un mondo segnato dalla sua sacralità, nel quale 
                    costituiva anche la spina dorsale dell’alimentazione.
 Era, invece, razionato per tutti, esclusi agricoltori (proprietari), 
                    coltivatori (diretti), mezzadri ed “avvittati”, 
                    i quali trattenevano grano sulle cessioni agli ammassi; questa 
                    in un certo senso logica divisione generava due non logiche 
                    conseguenze: in Arezzo e nei paesi i più mangiavano 
                    pane cattivo, umido, mozzo, fatto con miscele di farina di 
                    grano mischiato a semole, a granturco, a ghiande (si diceva) 
                    (…) Invece nelle case delle campagne c’era, di 
                    regola, e salve quelle degli operai-pigionali non agricoli, 
                    pane fatto in casa, nei forni privati, buono, ed un po’ 
                    più abbondante che in città.
 Dopo il duro inverno a rape e pane pessimo e raro, accadde 
                    un fenomeno strano: la disorganizzazione totale comportò 
                    che ai panificatori non sempre pervenivano le farine miscelate 
                    con granturco, talché, ferma restando la quantità 
                    troppo esigua, il livello quantitativo del pane distribuito 
                    dagli alimentaristi migliorò.
 
 In 
                    cucina le rezdore preparano i dolci   Sale: merce preziosa
 Questo generò, a sua volta, la possibilità 
                    di far incontrare un po’ di pane secco con le verdure 
                    e l’acqua fresca, sale, olio ed aceto e di disporre 
                    di «panzanella» (5). 
                    La 
                    mamma Maria aveva preparato la solita “brodaglia” 
                    di minestra, lunga, lunga, fatta con i dadi Arrigoni, e sul 
                    tavolo il pane di granturco, giallo come lo zafferano, delle 
                    cipolline “porraie” e un pochino di mortadella 
                    di Bologna (6).Significativa un’altra testimonianza, sempre riguardante 
                    l’aretino, su un pranzo pasquale del ’44.
 Oltre a quella del pane un’altra carenza fondamentale 
                    riguardava, come già accennato, il sale ormai divenuto 
                    una merce preziosa quanto rara, dato che quasi tutte le saline 
                    che rifornivano il mercato italiano si trovavano al Sud. Ormai introvabile anche il pepe, come tutte le spezie orientali, 
                    vanamente sostituito dalla “pepina”, un improbabile 
                    miscuglio senza sapore, e da qualche ormai vecchia scorta 
                    senza più fragranza.
 “La crisi combinata di sale/pepe mise in difficoltà 
                    l’allora molto circoscritta e quantitativamente modesta 
                    attività dei macellai/insaccatori e generò la 
                    rarefazione di salumi e salsiccia, e dei mitici prosciutti, 
                    sogno di tutti” (7).
 Per far comprendere il valore assunto dal sale, va segnalato 
                    il fatto che divenne persino premio offerto come taglia dai 
                    comandi nazisti per la delazione o la consegna di partigiani, 
                    dato che i tedeschi non soffrivano di carenza di sale avendo 
                    la possibilità d’estrarlo dalle miniere di salgemma 
                    in Austria.
 Secondo un famoso manifesto a firma Il Comandante delle truppe 
                    germaniche, venivano promessi i seguenti premi: fino a 
                    Lire 5.000 e chili 5 di sale per ogni segnalazione che renda 
                    possibile il sequestro di un deposito o di un rifornimento 
                    aereo di armi o di esplosivi oppure la cattura di un ribelle; 
                    fino a Lire 10.000 e chili 10 di sale per la segnalazione 
                    di un importante deposito o rifornimento aereo di armi e di 
                    esplosivi oppure di un capobanda, e in altri casi particolari; 
                    fino a lire 1.000 e chili 1 di sale per ogni altra utile segnalazione 
                    di ribelli, armi nascoste, rifornimenti aerei ecc. (8).
  L’alimentazione partigiana
 Se questo era, seppur sommariamente, il quadro generale per 
                    tutta la popolazione, si può facilmente immaginare 
                    che quanti scelsero di andare sui monti a condurre l’aspra 
                    guerra partigiana e quanti rimasero nelle città a condurre 
                    nella clandestinità la lotta armata, dovettero innanzi 
                    tutto far fronte al problema delle loro necessità alimentari. 
                    13 dicembre 1943. Ieri notte puntata a Trinità, 
                    per raccogliere almeno le briciole dei magazzini della 4ª 
                    armata (…) Conosciamo di fama un tale (…) assai 
                    noto nella zona per aver imboscato quantitativi industriali 
                    di viveri e perfino di foraggi. Lo troviamo a colpo sicuro. 
                    
                  Io e Piero ci presentiamo così: «Siamo 
                    partigiani, abbiamo un camion da riempire, e presto anche. 
                    Fuori i viveri che lei ha arraffato all’8 settembre. 
                    Sono roba nostra». 
                  (…) Bussiamo a molte porte (…) 
                    senza terrorizzare, anzi, quasi scusandoci per l’improvvisata, 
                    chiediamo che ci restituiscano le provviste dell’8 settembre. 
                    
                  (…) Mollano i viveri, senza tante storie 
                    (…) quando abbiamo compiuto una metà del giro, 
                    il Taurus è ormai quasi al completo. Sacchi di zucchero, 
                    sale, riso, farina, casse di surrogato, fusti di cognac e 
                    di olio: queste le briciole dell’8 settembre, queste 
                    le piccole scorte familiari, dopo che gli avvoltoi (…) 
                    hanno ormai smistato verso la borsa nera le migliaia di quintali 
                    dei magazzini militari svuotati. 
                  (…) L’asilo è proprio 
                    lì a quattro passi (…) viene ad aprirci una suorina 
                    giovane, spaventata. «Siamo partigiani, – le dico, 
                    – vorremmo soltanto prelevare il sale della 4ª 
                    armata». 
                  Si 
                    rischiara in viso (…) Arriva la madre superiora, con 
                    due o tre suore che la scortano da lontano. Il carico ha inizio. 
                    Non lo vogliamo tutto il sale, due sacchi li regaliamo alla 
                    mensa dell’asilo (9).Sull’argomento è possibile raccogliere numerose 
                    testimonianze che indicano, come è ovvio, una molteplicità 
                    di condizioni e di contesti.
 Al Nord, nelle Langhe, una prima fonte di approvvigionamento 
                    furono i magazzini dell’ormai disciolto regio esercito 
                    italiano, o quanto restava di essi, come racconta Nuto Revelli:
 Successivamente il problema dei viveri venne risolto in vario 
                    modo, dall’acquisto presso i contadini alla requisizione 
                    più o meno forzata nei confronti dei proprietari più 
                    ricchi, dall’esproprio a spese dei possidenti fascisti 
                    al prelievo di beni con rilascio di buoni del Comitato di 
                    Liberazione Nazionale. …si 
                    è consumato il primo pasto, e per di più caldo, 
                    dopo giorni di mirtilli e acqua. Molti hanno la dissenteria, 
                    altri il vomito (…) Quelli che si fanno sentire sono 
                    i morsi della fame (10).Inutile negare veri e propri casi di furto, seppur rari e 
                    generalmente causato da emergenze, ma è altresì 
                    da segnalare il fatto che spessissimo la popolazione divise 
                    spontaneamente il poco che aveva con quanti erano alla macchia.
 In altri casi, nonostante i gravi rischi di ritorsioni fasciste, 
                    i contadini preferirono spontaneamente offrire bestiame e 
                    grano ai partigiani piuttosto che consegnarli all’ammasso 
                    imposto dai “repubblichini”.
 Fu comunque una “guerra dei poveri”, tanto che 
                    nella memorialistica resistenziale ricorre sempre il riferimento 
                    alla fame patita, soprattutto durante le azioni di guerriglia 
                    e i ripiegamenti per sfuggire ai rastrellamenti nazifascisti, 
                    come si apprende da alcuni passi del diario partigiano di 
                    Aldo Ferrero:
 Cose analoghe le descrive Giorgio Bocca, anch’egli 
                    partigiano in Piemonte: …il riso stracotto che spesso era tutto 
                    il pasto… Molti reparti rimasero per alcuni giorni senza pane e senza 
                    carne, mangiando patate bollite, ma continuando a lavorare 
                    e combattere. Il 
                    cuoco stana le pentole dai cespugli in cui le ha nascoste 
                    e dal campo di avena esce il sacco del pane (…) Le squadre 
                    rientrano nei fienili e posano le armi. Tra poco mangeranno 
                    un po’ di castagne e di patate bollite (11). Così come confermato da Nuto Revelli: Il 
                    problema del vettovagliamento è grave. Lo risolviamo 
                    alla meglio: un pezzo di pane nero per ogni uomo (12). Ma anche da altri tre partigiani, operanti in zone diverse. 
                  Da 
                    nove giorni il rancio di duecento partigiani era così 
                    composto: cinque pere la mattina, dieci a mezzogiorno, dieci 
                    la sera. Niente carne. Una squadra inviata a trovare farina 
                    era tornata senza farina e con due uomini in meno (13).
                   
                  Ricordo 
                    che il mugnaio Giovanni Madrina faceva il possibile per darci 
                    qualche chilo di farina da polenta. Il vitto era a volte molto 
                    scarso: non di rado una fetta di polenta e mezzo uovo a persona 
                    furono il cibo di un’intera giornata (14).
                   
                  Nostre 
                    basi diventarono allora le baite, dormimmo in montagna nei 
                    ricoveri per animali (…), il vitto era scarso, insufficiente 
                    (mangiammo tutte le capre della zona e per parecchi giorni 
                    dovemmo nutrirci solo con castagne) (15). La fame era tale da divenire persino argomento di canzoni, 
                    come quella che segue.    Stringiamo la cinghia (16)  La fame e il piombo paura non ci fa,
 oi cara mamma, oi cara sposa,
 stringiamo la cinghia
 se fame ci assal,
 che ci rinfresca
 la neve ci sarà.
 …
 Tale condizione era talmente condivisa e sofferta all’interno 
                    delle comunità partigiane, da rendere importanti anche 
                    piccoli gesti che, in simili contingenze, assumevano valori 
                    e significati del tutto particolari. Abbiamo 
                    appena terminato l’azione che arriva una donnetta con 
                    pane, uova e latte: sa che dal mattino stiamo combattendo, 
                    e nel vederci così inzuppati dal temporale ha pietà 
                    di noi. La nostra postazione è a pochi metri dalla 
                    sua casa (17).
                   
                  Si distribuiscono i viveri, un pezzo di pane 
                    raffermo e cioccolato autarchico. La razione a me non basta. Chiedo a Nini l’unica scatola 
                    di marmellata, la riserva intangibile della banda: l’apro 
                    e a cucchiate incomincio a farla fuori.
 Nessuno parla, tutti mi guardano: contano le cucchiate, le 
                    gustano.
 Tiro avanti senza pietà. Mi sento addosso lo sguardo 
                    di tutti, alzo gli occhi a tratti e li vedo come ipnotizzati.
 Sto compiendo una cosa orribile. Anche Livio mi guarda, ma 
                    non parla. Tiro giù, un cucchiaio dopo l’altro, 
                    con impegno, come se infilassi delle pallottole in un caricatore.
 Domani avrò una giornata dura. Se questa forza mi darà 
                    un po’ di forza, viva le leggi partigiane frantumate 
                    (18). 
                   
                  Io 
                    non sapevo da mesi cosa fosse un uovo. Lui me lo aveva mostrato 
                    tutto trionfante. Poi lo aveva fatto cuocere nell’unico 
                    modo possibile, in acqua bollente, lo aveva diviso in due 
                    e me ne aveva offerto la metà (19).
 La mancanza di viveri emerge con insistenza anche nei messaggi 
                    scambiati tra i diversi reparti partigiani: la reciproca richiesta 
                    di generi alimentari non ha minore rilevanza dello scambio 
                    di informazioni e della carenza di armi e munizioni, e il 
                    tono non è meno drammatico. …Compra quanti più viveri puoi 
                    (formaggio, pane, burro, uova).Si rileggano, a titolo d’esempio, questi dispacci:
 …Secondo invio annonario consistente in sette dozzine 
                    e mezza di uova, bidone pieno di latte e mezza forma di formaggio 
                    (…) Aggiungo in extremis mezza dozzina di uova.
 …Mi spiace di non aver trovato le pagnotte e anche il 
                    burro. Per trovare quelle pagnotte ho passato tutte le case. 
                    Formaggio ce n’è, ma vogliono 100 lire il kg. 
                    Se ne avete bisogno fatemelo sapere.
 L’approvvigionamento viveri, con l’aumento continuo 
                    della banda, diventa problematico. Non sono mai arrivati così 
                    pochi viveri (…) come in questo periodo!
 (…) necessitiamo di farina, pasta e riso. Per il trasporto 
                    pensate un po’ anche voi, requisite muli finché 
                    basta. Preleva tutti i viveri delle tessere. Non parlavi di 
                    quattro quintali di farina arretrata dal panettiere? Prelevali 
                    e mandane due quintali a Nino, e tutto il resto qui.
 Ma tutto ciò al più presto. Ti ripeto: pasta, 
                    riso e condimenti, sono i più urgenti (…) Vorrei, 
                    se possibile, un po’ di fondi per comperare un po’ 
                    di pappatoria (…) Vi mando tutti i viveri che mi è 
                    stato possibile riunire: 2 zainetti zucchero, 2 pezzi di lardo, 
                    burro, 13 pacchetti surrogato, qualche chilo di formaggio.
 Pane non ne è giunto e non so se arriverà. Se 
                    dovesse arrivare ve lo spedirò al più presto. 
                    È necessario fare la massima economia di viveri: razioni 
                    minime, perché non sappiamo se e quando potremo averne 
                    altri (20).
 Il cibo era essenziale per continuare a resistere, anche 
                    più delle munizioni. A riprova di ciò basti 
                    quanto riporta ancora Revelli: Rientro con la banda a Torre. Spariti parte 
                    dei nostri materiali e viveri. Raduno la popolazione di Torre, 
                    sette montanari in tutto. Discorso chiaro, spietato. Salta 
                    fuori il materiale: mancano ancora una rivoltella e l’unica 
                    scatola di conserva. I montanari accusano un certo S., ma S. nega finché 
                    lo minacciano di morte. Tutto ritrovato, rancio con pastasciutta 
                    condita al pomodoro (21).
  Il mangiare come rito collettivo
 Quando la lotta partigiana consentiva delle pause o la cattiva 
                    stagione imponeva dei rallentamenti delle operazioni militari, 
                    il momento del ritrovarsi per mangiare era quello in cui la 
                    comunità partigiana cercava di ricreare una parvenza 
                    di vita libera dalla guerra. La 
                    «mensa» e la «sala riunioni» di Paralup 
                    sono nello stesso locale, nella stalla più grande.L’aspetto della socializzazione tra eguali nell’atto 
                    di dividersi anche il cibo, appare in modo assai evidente 
                    in tutti i ricordi di chi visse quell’esperienza.
 In una grangia accanto, la cucina e il magazzino viveri; nelle 
                    altre baite, cinque o sei, i dormitori (…) Qui, nella 
                    «sala riunioni», ogni sera si raccolgono a conversare, 
                    a ridere, a cantare.
 I più sono giovani, quasi ragazzi, contadini, operai, 
                    studenti. Gli ex soldati della 4ª armata e gli ufficiali 
                    del disciolto esercito sono pochi (22).
 …Altri 
                      alimentano un fuoco che fascia divampando un enorme pentolone 
                      nero. È la marmitta che il cuoco si è portata 
                      dietro combattendo e camminando. Questa sera la banda avrà 
                      di nuovo la sua minestra calda (23). 
                       Torre 
                      è il nostro convalescenziario. Attività limitata 
                      ai collegamenti e alle corvées viveri e materiali. 
                      Riposo e supernutrimento. Acquisto di viveri senza economia, a borsa nera, anche se 
                      i fondi di assegnazione se ne vanno… Zabaglione per 
                      tutti, ogni giorno: chi sbatte di qua, chi di là, 
                      ne esce un concerto piacevolissimo. Villeggiatura. Primavera 
                      incantevole che riconcilia con la vita (24).
 C’è 
                      aria di festa, non so per quale ragione. Tutti la sentono, 
                      anche il cuoco, certo, che ha preparato oggi una torta di 
                      mele (25).  18 febbraio 
                      (’45). Il solito brodo viene eccezionalmente sostituito 
                      con tagliatelle, per festeggiare la giornata del partigiano 
                      (così almeno ci è stato comunicato dai giornali) 
                      (26).  Ma se sulle montagne, quando era possibile, si rinnovava 
                    tra i partigiani questo rito collettivo, nelle città 
                    i combattenti dei GAP e delle SAP, conducevano una vita diversa, 
                    ben più grama, stretta dalle regole della clandestinità 
                    e dell’organizzazione in piccoli nuclei. Compro un etto di mortadella e un po’ 
                    di formaggio, poi sorseggio un caffè in un bar…Uno dei protagonisti di quella guerra, nelle sue memorie, 
                    ha dedicato al cibo solo poche righe.
 Sarebbe 
                      piuttosto preoccupante se, nell’attesa dell’agguato 
                      qualcuno si fosse recato a fare provviste in locali pubblici 
                      (27).   Il vino
 Il vino, come è noto, ha sempre avuto un posto importante 
                    nella storia proletaria e non fa certo eccezione il capitolo 
                    della lotta partigiana. Il vino buono per far tacere la fame, per riscaldare, per 
                    dare coraggio e anche per cantare.
 Come attesta questa canzone, originaria di una zona della 
                    Toscana dove sicuramente la mancanza di vino doveva essere 
                    vissuta quasi come un dramma.
 La polenta gialla (28) 
                    C’è un gruppo partigiano
 nel garfagnin
 che da parecchi mesi
 non beve il vin.
 Sempre polenta gialla
 c’è da mangiar
 e guardia sempre guardia
 a volontà.
 …
 Sul vino bevuto dai partigiani si trovano molti accenni, 
                    tra queste qui ne offriamo due. Giunge solo ora la notizia che il 18 aprile 
                    u.s., in frazione Pieve del comune di Talla, circa 10 ribelli 
                    abbatterono la porta del dopolavoro (fascista) con scariche 
                    di fucile mitragliatore, e che, entrati nei locali, consumarono 
                    due bottiglie di liquori, lasciando sul tavolo alcuni biglietti 
                    da dieci lire per pagare le consumazioni.La prima riguarda un’insolita azione partigiana ed è 
                    confermata persino da un rapporto, datato 1.5.1944, del Comando 
                    della Guardia Nazionale Repubblicana di Arezzo:
 Indi si allontanarono in direzione di Pontenano (29).
 La seconda, narrata da Bocca, sarebbe degna di un film: Non 
                    ho mai visto una guerra così strana, dice Alberto, 
                    la battaglia del vino. Per sette giorni di seguito, non abbiamo 
                    fatto che sparare e bere. I valligiani piuttosto di lasciare 
                    il loro vino ai tedeschi preferivano finirlo. Ogni paese in 
                    cui ci ritiravamo combattendo traeva dalle cantine le bottiglie 
                    più preziose. Ricordo Ponte Marmora. Avevamo piazzato 
                    il mortaio in un prato. Vicino alla bocca da fuoco e sparse 
                    tra le munizioni c’erano una trentina di bottiglie vuote, 
                    ma altre ancora piene sul carrettino col quale le avevano 
                    trasportate da Prazzo (…) Arrivò la reazione 
                    nemica, granate scoppiarono poco lontano e pallottole sibilarono 
                    nell’aria. Allora, senza scomporsi, caricarono il mortaio 
                    sul carrettino, vicino alle ceste delle bottiglie e, cantando, 
                    presero la strada per Prazzo (30).  
                   Marco Rossi Note 
                 
                  Italo 
                    Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Mondadori, 
                    Milano 1993, pag. 83. 
                  Umberto 
                    Dinelli, La guerra partigiana nel Veneto, Marsilio 
                    editori, Venezia 1976, pag. 14. 
                  A 
                    cura di Hélène Zago, Le donne nella resistenza, 
                    www.dspadova.it/donne_resistenza.htm. 
                    
                  A 
                    cura di Lino Scalco, Tra liberazione e ricostruzione, 
                    Editoriale Programma, Padova 1996, pagg. 35-37. 
                  Enzo 
                    Droandi, Arezzo distrutta 1943-44, Calosci Editore, 
                    pag. 93. 
                  A 
                    cura di Ezio Raspanti, Ribelli per un ideale, ANPI, 
                    Foiano della Chiana 1994, pag. 144. 
                  Enzo 
                    Droandi, op. cit., pag. 94. 
                  Fondazione 
                    Kuliscioff, Credere, obbedire, convincere. Propaganda 
                    e comunicazione 1943/1945, MB publishing, Milano 2003, 
                    pag. 62. 
                  Nuto 
                    Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, Torino 1993, 
                    pagg. 142-143. 
                   
                    Aldo Ferrero, «Terroristen» La Brigata Valle 
                    Stura la più decorata al Valor militare, Mursia, 
                    Milano 1996, pagg. 29 e 49. 
                  Giorgio 
                    Bocca, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni 
                    “Giustizia e Libertà” del Cuneese, 
                    Feltrinelli (seconda ed.), Milano 2004, pagg. 35, 112, 115-116. 
                    
                  N. 
                    Revelli, op.cit., pag. 272 
                  “Fumo”, 
                    in 11 agosto, Firenze, ANPI. 
                   
                    Testimonianza di Alfredo Barbujani in Gianni Sparapan, Adria 
                    partigiana, Minelliana, Rovigo 1994, pag. 83. 
                  Argante 
                    Bocchio – Annibale Giachetti, Le formazioni di Gemisto, 
                    in «L’impegno», dicembre 1986, Istituto 
                    per la storia della Resistenza e della società contemporanea 
                    nelle province di Biella e Vercelli. 
                  A.Virgilio 
                    Savona – Michele L. Straniero, Canti della Resistenza 
                    italiana, Rizzoli, Milano 1985, pagg.425-426, Canto 
                    della formazione Ammazzalorso, Teramo. 
                  N. 
                    Revelli, op. cit., pagg. 181-182. 
                  N. 
                    Revelli, ibidem, pag. 188. 
                  G. 
                    Bocca, op. cit., pag. 509. 
                  N. 
                    Revelli, op. cit., pagg. 205-206, 232, 264, 278-279. 
                    
                  N. 
                    Revelli, ibidem, pag. 215. 
                  N. 
                    Revelli, ibidem, pag. 153. 
                  G. 
                    Bocca, op. cit., pag. 82. 
                  N. 
                    Revelli, op. cit., pag. 213. 
                  G. 
                    Bocca, op. cit., pag. 61. 
                  G. 
                    Bocca, ibidem, pag. 102. 
                  Giovanni 
                    Pesce, Senza tregua. La guerra dei GAP, Feltrinelli, 
                    Milano 1976, (3 ed.) pagg. 297, 271. 
                  A. 
                    Virgilio Savona - Michele L. Straniero, op. cit., 
                    pag. 348. 
                  A 
                    cura di Ezio Raspanti, op. cit., pag. 179. 
                  G. 
                    Bocca, op. cit., pag. 111.   |          
   
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