Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Il sarto e le bacchettate dei suoi due maestri

 

L’appellativo di “primo teorico comunista nato in Germania” toccherebbe, secondo alcuni, a Wilhelm Weitling (1808-1871). Opportunamente, dunque, ampia documentazione sulla sua vita e sulle sue opere è reperibile presso la Biblioteca dell’Istituto Internazionale di Storia Sociale di Amsterdam.
Weitling faceva il sarto, fu fra i fondatori di varie società segrete fra il 1830 e il 1840, girò parecchio l’Europa, fra Francia, Svizzera, Prussia, Belgio e Inghilterra, per poi finire anche in America. Marx lo ricorda malvolentieri per le sue esigenze di “rivoluzione immediata” e perché poco propenso ad ascoltarlo, allorché gli diceva che, “prima”, “la borghesia deve impadronirsi del timone”.
Nel 1843, a Zurigo, poco prima di venire arrestato, Weitling, con in tasca una “lettera di raccomandazione” di Georg Friedrich Herwegh, si presenta a Bakunin, al quale, sull’immediato, “piacque”. “È un uomo senza cultura intellettuale”, dice Bakunin, ma “di intelligenza innata”, “una mente agile, molta energia e soprattutto un fanatismo selvaggio, un credo nobile e fiero nella liberazione e nell’avvenire della massa ridotta in schiavitù”. Peccato che, “poco tempo dopo”, si ritrovasse “corrotto” dalla “società dei letterati comunisti”. È il tipico triste caso, allora – quello di Weitling – di uno che non ha trovato collocazione su nessuna delle due sponde.

In quel ricchissimo repertorio di fatti e persone più e meno dimenticati che è Bakunin e gli altri di Arthur Lehning (Zero in condotta, Milano 2002) si può leggere, dello stesso Weitling, un’annotazione a mio avviso davvero preziosa e particolarmente significativa in ordine ai suoi destini. Racconta che Bakunin, forse per sgrezzarlo un po’, volle dargli, “ogni giorno”, una lezione “di un’ora” per fargli comprendere il pensiero di Hegel. La prima lezione passò liscia, ma, nel mezzo della seconda, a quanto pare – prima o poi doveva capitare – s’imbatterono nello “Spirito” di Hegel. Weitling chiese a Bakunin di spiegargli cosa dovesse intendersi con questa parola e Bakunin, tentando di proseguire la lezione, gli disse di sorvolare e di non preoccuparsene. Invece, il sarto testone se ne preoccupò eccome e, per lui, “lo studio della filosofia hegeliana si concluse lì”. Il che – rapporti fra filosofia hegeliana e Marx da una parte e Bakunin dall’altra – la dice lunga sul perché il povero Weitling rimase senza padrini.

Ora, agli intellettuali ed ai colti in genere e non solo agli incalliti filosofi la cosa sembrerà strana, ma a questo Weitling va tutta la mia solidarietà. Per quanto sconveniente sia condannare un’opera intera a causa di una parola non definita mi sembra metodologicamente ed eticamente corretto. In ogni sistema che pretenda il rispetto altrui o ci si affida all’implicita comprensione o si definisce esplicitamente – a maggior ragione allorché il termine in questione (il concetto, la categoria, il pezzo del gioco) risulta fondamentale nei confronti dell’intera architettura. E all’implicita comprensione ci si può affidare soltanto quando si tira in ballo qualcosa di largamente condiviso (che so, parlando di tavoli, di sedie, di baobab, o dei numeri pari e dei numeri dispari). Il che non è certamente il caso dello “Spirito”, antica metafora, alla bell’e meglio un “soffio”, che, non a caso, è stata utilizzata a man bassa in ogni malaffare filosofico e religioso. Chi legge – come il destinatario di qualsiasi comunicazione – ha diritto alla consapevole significatività di chi gli si rivolge. In caso contrario tutti i suoi sospetti diventano legittimi: lo vogliono fregare, gli stanno servendo aria fritta, lo stanno abbindolando.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe anche dirmi che, se questo mio atteggiamento si traducesse in regola, raramente troverei un libro che fa per me. In una “introduzione” alla linguistica, per esempio, difficilmente si trova una definizione di “linguaggio”; così come in un manuale di psicologia raramente si trova una definizione di “psiche” e di “psichico” (per non parlare della “mente” su cui si tace ferreamente nell’indifferenza generale). È vero. Infatti, raramente, un libro fa per me e, peraltro, credo di aver sufficienti motivi per ritenere giusto che sia così. Non a caso, mi dico, ciò che viene pubblicato viene pubblicato. Spesso – se non quasi sempre – è un prodotto del sistema di potere che, anche suo tramite, cerca di perpetuarsi. Perché mai dovrei trovarvi ciò che cerco dal momento che a questo sistema di potere tento di oppormi?
Me lo vedo il povero Weitling: “Ma, scusa, e mentre la borghesia sta al timone, noi, che si fa?”, “Si studia, cretino”.

Felice Accame

P.s.: Nel 1851, mentre da condannato a morte stava in galera, Bakunin su richiesta dello zar Nicola I, scrisse una sorta di storia della propria vita di rivoluzionario, una “confessione” che, come testo – data la sua natura particolarissima – è da prendere con le pinze. Ivi, comunque, si parla (con sufficienza) di Weitling.
Cfr. M. Bakunin, La preghiera di un criminale, M & B publishing, Milano 2001.