Rivista Anarchica Online


internazionale

Deriva imperiale
di Antonio Cardella

 

L’idea di un impero impossibile per esorcizzare un presente ingovernabile.

 

Per quanto uno si sforzi, le immagini della terribile strage di Beslan ricorrono prepotentemente ad incipit di qualunque discorso ci si appresti a fare.
Sappiamo bene che ovunque, nel mondo, la vita di innocenti è minacciata da guerre e carestie di diversa natura, eppure le facce stravolte di quei bambini che, usciti da casa per festeggiare il primo giorno di scuola, si trovano immessi in un tunnel dell’orrore da uomini e donne in lugubri tute nere e a volto coperto, determinati a uccidere e a far saltare l’intero edificio scolastico con tutto il carico umano che lo occupa, tolgono anche al commentatore più freddo la voglia di analizzare l’evento, di collocarlo nel contesto che lo ha prodotto.
A mio sommesso parere, ignominie come queste non possono trovare giustificazioni di sorta e gli autori non possono invocare ragioni a sostegno delle loro imprese.
Di più: ammesso che azioni di questo genere abbiano motivazioni ammissibili sul piano storico e dell’attualità, il loro compiersi non porta certo acqua al mulino di chi le compie. A me sembra, però, che la strage dell’edificio scolastico di Beslan sintetizzi emblematicamente la cruda realtà di un’epoca che sta smarrendo irreversibilmente il senso dell’umano.
La pietà non alberga più in nessun angolo del globo ed è difficile capire se a togliere senso alla logica del confronto, del dialogo e della solidarietà tra gli uomini sia un’improvvisa follia che mette tutti contro tutti per istanze di supremazia e di dominio, oppure un diffuso, profondo senso di disperazione, di lucida e rassegnata convinzione che non vi siano soluzioni di sorta per tutti i mali del mondo, quindi occorre perseguire con ogni mezzo, anche il più efferato, le condizioni della propria sopravvivenza.
Ed è una devastante condizione psicologica, questa, che toglie senso ad ogni progetto e relega nel limbo delle infauste memorie ogni ideologia che abbia prodotto forme istituzionali di aggregazione politica, di gestione delle risorse e di assetto sociale. Ed è obiettivamente difficile arginare questa pericolosissima deriva, perché dovunque si volga lo sguardo si intercettano scenari di condizioni esistenziali insostenibili che non trovano quasi mai soluzioni adeguate a lenirne gli effetti.

Nessuna soluzione accettabile

Ad eccezione delle aree dove dominano regimi rigidamente dirigisti, nei quali si sceglie una volta per tutte la strada di progetti orientati alla autoriproduzione del sistema (Cina e Russia in prima fila), o dove le condizioni dei popoli sono tali da impedire qualunque impegno teorico-progettuale che non sia esclusivamente connesso alla quotidiana sopravvivenza (ampie zone dell’Africa e dell’Asia, ma non solo), in tutto il resto del mondo, specie in quello più economicamente progredito, si tenta di venire a capo di matasse sempre più ingarbugliate, senza che si scorgano all’orizzonte soluzioni accettabili.
Se ci soffermiamo per un momento sulla saggistica economico-politica americana, naturalmente quella seriamente impegnata, lontana dalle suggestioni della stretta attualità, il primo elemento che si evidenzia è il giudizio di estrema precarietà degli attuali equilibri che ancora reggono il mondo. La deriva imperiale che caratterizza la corrente neocon abbandona i canoni consueti dell’analisi dell’esistente per immergersi nell’onirica visione di un’America emula della Roma imperiale.
In una intervista rilasciata a Corey Rubin, autorevole Professore Associato di Scienze Politiche al Brooklyn College di New York, William F. Buckley e Irving Kristo, due “teste d’uovo” della destra statunitense, sostengono che l’economia di mercato, con tutte le sue varianti ed aggiustamenti, “...è una delle ideologie più antipolitiche della storia... si tratta di una concezione troppo fragile perchè su di essa si possa fondare un ordine nazionale, per non parlare di un impero globale”. Per i due “teorici” occorre che la nazione militarmente più potente, cioè l’America, imponga la sua legge, con le buone o con le cattive, che alla sua responsabilità sia ascritto il compito di normalizzare l’intero ordine mondiale.
Quando idee del genere hanno diritto di cittadinanza e permeano la politica di un governo in carica (che non a caso ritiene di potere imporre la propria idea di democrazia con le bombe, oggi in un’area così problematicamente diversa come il Medio Oriente, domani chissà dove), allora è vero che ci troviamo in un mare di guai: la demenza infantile di un Hitler o di un Mussolini ha sotterraneamente percorso mezzo secolo per riemergere nello sguardo bovino di un texano rincitrullito e dei suoi accoliti.
L’idea di un impero impossibile per esorcizzare un presente ingovernabile. Del resto, l’America stessa è, di fatto, una mostruosità economica: è certamente la maggiore potenza militare, ma se i suoi creditori, per assurdo, decidessero di rientrare dei soldi prestati, l’amministrazione dovrebbe subito portare i libri contabili in tribunale e dichiarare fallimento. E questo, badate, è un problema che, certamente in termini meno drammatici, deve essere affrontato da chiunque eventualmente succederà alla torva brigata di Bush.

Politico di basso profilo

Giungiamo così sull’altra sponda del fiume, a quei democratici che sperano – ma è poco meno di un sogno anche quello – di vincere le prossime elezioni presidenziali.
Kerry, lo sappiamo tutti, non è un fulmine di guerra: è un politico di basso profilo; se ha delle idee forti sinora non le ha espresse e siccome nell’agone elettorale americano le parole del candidato presidente non sono soltanto le sue ma anche quelle elaborate dal suo entourage, mi pare ci sia poco di che stare allegri.
Sull’evento drammatico della guerra in Iraq, il proposito meritorio di rimettere l’intera questione all’ONU e alla NATO trascura il piccolo particolare che, nelle condizioni di assoluta ingovernabilità in cui il suo paese ha ridotto quell’area, è assai difficile che gli organismi interpellati si assumano una responsabilità così gravosa.
Pacificare l’Iraq, rassicurare i paesi confinanti come la Siria e l’Iran che l’Occidente intero non giuochi con uno dei suoi soliti mazzi truccati, è impresa di decenni, nel corso dei quali la comunità internazionale, costituita prevalentemente dei paesi più ricchi, dovrebbe sborsare tanti di quei soldi, per presidiare e ricostruire materialmente e moralmente l’intero contesto, che, allo stato, è difficile persino ipotizzare dove possa prenderli.
C’è il petrolio, è vero, ma bisogna pagarlo e, per quel che riguarda l’Iraq occorre ricostruire l’intero sistema estrattivo e distributivo. Allora? Al di là dell’ideuzza molto yankee di lasciare che altri paghino per i danni da noi procurati, non mi pare che i democratici offrano soluzioni alternative praticabili.
E la stessa letteratura di riferimento, molto ricca e articolata nel denunciare le gravi carenze dell’amministrazione Bush e nell’argomentare sull’anacronismo di ogni velleità imperialistica, appare smarrita nell’individuare percorsi alternativi. In un recente saggio/dialogo con il saggista polacco Adam Michnik, Jonathan Schell, noto esponente mondiale del movimento antinucleare, nonché saggista e columnist del “New Yorker”, si lasciava andare in questa desolata considerazione: “...se la Arendt ha ragione nell’affermare che il totalitarismo è una costola presa dalla cassa toracica della civiltà liberale moderna, c’è da temere la nascita di altre mostruose creature.
Mi colpisce il fatto che nella civiltà occidentale dominante, che è appena riuscita a sconfiggere l’ultimo dei suoi grandi rivali totalitari, si risveglino subito gli istinti imperialistici... L’Occidente liberale moderno ha trionfato sui regimi totalitari, ma ora dobbiamo chiederci: chi siamo? Cos’è questa civiltà? La crisi di cui parlava la Arendt, temo, è già arrivata”.
È una considerazione per molti versi drammatica, che spiega, da un canto, lo stallo della sinistra in Europa e di Kerry negli Stati Uniti e, dall’altro, l’ossessivo ricorso al rilancio della forza e della violenza della destra in tutto il mondo e della risposta terroristica che nasce in aree che avvertono la debolezza di un Occidente che le ha dominate per secoli senza fornire loro né una sopravvivenza decente né lo spazio per cercare autonomamente una soluzione ai loro problemi.
I bambini innocenti della scuola di Beslan sono così le vittime sacrificali di un pianeta che non trova vie d’uscita e si spinge sino ad ingoiare i propri figli.

Antonio Cardella