Rivista Anarchica Online


prostituzione

Donne di mondo
di Daniela Danna

 

Tra bisogno economico e desiderio di fuga dall’autorità e dalla violenza maschile. Stralci dal volume di Daniela Danna appena uscito per i tipi di Elèuthera.

 

“Tutte le straniere sono sfruttate” è l’opinione unanime degli operatori delle ong intervistati. Contratti iniqui, lavoro forzato in condizioni di schiavitù fino a violenze e torture sono realtà diffuse tra le migranti che esercitano la prostituzione in Italia, dove arrivano senza un titolo regolare di soggiorno. È da più di un decennio che l’Italia è diventata la meta di immigrazione di migliaia di donne provenienti soprattutto dalla Nigeria e dall’Albania, e più di recente dalla Romania e dalla Moldavia, nonché da molti altri Paesi dell’Est Europa o del Sud del mondo, donne che finiscono a prostituirsi nelle strade soprattutto nel Nord e Centro Italia o in appartamenti-bordello soprattutto al Sud e in quei luoghi dove la repressione del commercio del sesso all’aperto non è solo sporadica. Molte di loro sono state ingannate sul tipo di lavoro che le attendeva, specialmente nella prima fase in cui la migrazione verso l’Italia rappresentava ancora una novità. Parecchie sono state rapite, in particolare dall’Albania. In una seconda fase si è invece diffusa nei Paesi di origine la consapevolezza che la prospettiva della migrante sarebbe stata quella del commercio del sesso, anche come risultato delle campagne informative che lo Stato italiano, come altri Paesi occidentali, ha intrapreso per diffondere questa coscienza.
Moltissime, cionondimeno, sono partite e partono ugualmente per sfuggire alla situazione di crisi nelle madrepatrie: dalla rovina economica del blocco dell’Est, a seguito della repentina sostituzione con il capitalismo più sfrenato del sistema economico socialista, alla crisi albanese, che ha toccato il fondo nel 1997 con il crollo delle piramidi finanziarie che hanno rapinato i risparmi di buona parte della nazione, alla crisi debitoria che a metà degli anni Ottanta ha colpito il gigante nigeriano (100 milioni di abitanti, un quarto della popolazione dell’Africa nera), seguita dall’introduzione dei programmi di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei generi di prima necessità che ha gettato sul lastrico buona parte della popolazione. Migliaia di donne hanno così deciso di partire, anche tra coloro che non appartenevano agli strati poverissimi della popolazione (anche perché il costo del viaggio richiede sempre un certo investimento) per sopravvivere o per cercare di mantenere il precedente tenore di vita per sé e per la propria famiglia. Persino donne laureate si recano in Italia per guadagnare e risparmiare prostituendosi.

Condizione di inferiorità sociale

L’insostenibilità della situazione in patria riguarda, oltre alla crisi economica, la condizione di inferiorità sociale del genere femminile. La migrazione femminile ha spesso all’origine l’insofferenza per le costrizioni sessiste:

Largo spazio è stato dato all’analisi del fattore economico considerato quale elemento decisivo dell’atto migratorio, che per le donne non costituisce quasi mai l’unico motivo. Oltre al bisogno economico, vi è nelle donne migranti anche un desiderio e la volontà di sfuggire dalla posizione sottomessa che la cultura e le tradizioni del Paese di origine riservano loro, nei confronti delle figure maschili. Frequentemente vi è il desiderio di sottrarsi alle violenze maschili e all’autorità parentale.

I principali motivi della migrazione risultanti da una ricerca della cooperativa Dedalus a Napoli sono stati il rifiuto da parte della comunità di provenienza, che riguarda le adultere e le divorziate, la marginalità e povertà, come quella di vedove con figli a carico, e anche «la volontà di scappare da condizioni di costante violenza fisica e psicologica subita all’interno del gruppo familiare».
Per quanto riguarda l’Albania, l’autrice di un reportage giornalistico così ne descrive la crisi profonda: «Le donne, specie le più giovani, cercano di salvarsi come possono, ‘fidanzandosi’ con qualche figuro che le porterà in Italia o in Europa, disposte se non a tutto a tanto, pur di avere una prospettiva di vita. È un desiderio di libertà femminile che viene paradossalmente intercettato dalla cosiddetta tratta.

Sintomo di grave disagio

Questi elementi di autodeterminazione minano la schematizzazione, criticata in particolare da Bimbi, che fa ritenere che le straniere non abbiano alcuna scelta nel ricorrere alla prostituzione e che è speculare al mito che tutte le italiane abbiano fatto una scelta e nessuna viva problematicamente la condizione di prostituta. Che ciò non sia vero appare chiaramente dalle drammatiche storie di vita di italiane raccolte da Tavoliere in un volume scritto, peraltro, allo scopo dichiarato di rivendicare una libera scelta all’atto di prostituirsi. Anche l’alto numero di connazionali che telefonano ai numeri che offrono aiuto alle prostitute straniere è un sintomo di grave disagio: il 14% delle telefonate di richiesta di aiuto sono state di o per conto di un’italiana.
Assodato che è possibile sia un ingresso forzato nella prostituzione sia un ingresso per scelta, tale che migliori le condizioni di partenza di chi decide questo passo, nella letteratura qualitativa sulle prostitute italiane questo secondo polo emerge più chiaramente:

No, non è stato drammatico, le varie fasi sono scivolate così, dalla prima volta a dopo, con naturalezza.
All’inizio può anche essere una decisione sofferta, però non come pensano gli altri; intanto non è sofferta fisicamente, perché la gente vuol sentirti dire che ti sei sentita violata, violentata, che hai messo in vendita la tua anima, invece non mi sono mai sentita così e nemmeno le altre donne che conosco e che fanno questo mestiere come me.

Viceversa, il caso paradigmatico di costrizione a entrare nella prostituzione appartiene invece alle straniere:

Appena sono stata portata qui a Torino ho capito che ero finita in un vicolo cieco: mi sono trovata con una «padrona» che mi ha mandato sul marciapiede e voleva da me 50 milioni. È stato un vero incubo, ho pianto tutte le lacrime che avevo, se ci ripenso adesso mi viene ancora da piangere.

Ancora più tragiche sono le storie di ragazze rapite e violentate così come vi sono casi in cui la stessa famiglia ha venduto la figlia agli sfruttatori, mentre in altri la famiglia di origine si limita ad avvantaggiarsi dei guadagni della donna. Spesso le migranti che si prostituiscono e mandano soldi alla famiglia trovano motivo di orgoglio in ciò che non rappresenta altro che l’usuale sfruttamento delle capacità lavorative delle donne per promuovere socialmente i membri maschi del clan, per esempio mantenendoli all’università mentre si passa la propria giovinezza sulla strada:

Mi fanno ridere quelli che pensano che non sono una donna onesta perché faccio questo mestiere. Certo, come mestiere è brutto, e non capisco perché in Italia non ci permettono di farlo nei posti organizzati; non capisco cosa c’è di male a vendere l’amore a pagamento... Comunque io con questo mestiere ho fatto studiare tutti i miei fratelli e ho mantenuto mia madre, perciò sono orgogliosa di fare la prostituta.

Alla domanda, posta da due giornalisti danesi che hanno condotto un’approfondita inchiesta sulla tratta, se anche i ragazzi lettoni emigrassero, una giovane di diciassette anni ha risposto, sinceramente stupita: «No, i ragazzi non vanno all’estero. Sono le ragazze che devono preoccuparsi della famiglia e mantenerla». Gli stessi autori riferiscono che il guadagno di una sola prestazione per chi lavora in un club danese è pari a cinque volte lo stipendio mensile in Ucraina, che è di 15 dollari. E in questo Paese, che ha una popolazione di 51 milioni di persone, poco meno dell’Italia, il 75% dei nuovi disoccupati della transizione all’economia di mercato sono donne.
Moltissime donne inoltre decidono di fare questa vita per mantenere i propri figli: «Si trattava della mia sopravvivenza, di quella di mio figlio e di un’intera famiglia che attraverso me aveva ripreso a sperare. Non dovevo avere paura. La paura era un lusso che non mi potevo permettere», racconta una delle ragazze vittime di feroci violenze intervistate da Moroli e Sibona. «Sono donne forti che vogliono cambiare la propria vita e avere un po’ di soldi per i propri figli», dichiara Mirta Da Pra del Gruppo Abele; e una donna nigeriana che ora ha smesso di prostituirsi così racconta la sua decisione di partire: «Non c’era lavoro e io volevo essere indipendente. Ho una grande famiglia, ma non andavo d’accordo con loro. Volevo stare per conto mio. Vedi i vicini che stanno bene, che hanno soldi perché c’è qualcuno in Italia, e allora vai anche tu». Così sintetizza la situazione la studiosa argentina Laura Agustín: «Sempre più persone fanno il viaggio verso l’Europa. Per le donne più povere del Terzo Mondo i lavori disponibili in patria sono spesso quelli domestico e sessuale. Dal momento che entrambi i lavori sono richiesti in Europa e sono pagati molto meglio, viaggiare ha un senso».

Stereotipi innegabili

Benché sia innegabile che lo stereotipo delle italiane libere e delle straniere costrette rifletta una situazione maggioritaria dall’una e dall’altra parte, lo stereotipo delle «straniere tutte schiave» si afferma soprattutto per il fatto che la stampa riporta immancabilmente soltanto i casi più atroci di sfruttamento delle migranti.
Nel periodo che va dal maggio 1999 al dicembre 2001, solo un articolo tra quelli apparsi sulle pagine locali di Milano del «Corriere della Sera», un’intervista con un’albanese, ha presentato una voce che non identifica la prostituta straniera con una vittima barbaramente sfruttata. Al contrario, il contatto diretto dà l’impressione opposta: le moltissime straniere che ho incontrato sulle strade di Milano e dintorni non avevano l’aria di vivere male la loro condizione.
Parlavano dei loro progetti di vita, di figli da mantenere in patria, della casa che stavano facendo costruire al loro Paese e del problema principale di chi è clandestina, cioè quello dell’ottenimento del permesso di soggiorno.
Il loro aspetto non era per niente tormentato o infelice, anche se non sarà mai chiaro quanta di questa leggerezza sia dovuta all’esigenza di mercato di presentarsi come «donnina allegra». Questa impressione di saldezza è confermata dalla ricerca che Sonia Bella ha svolto sempre sulle strade milanesi: «Tutte sembravano aver conquistato (e mantenere) una grossa autonomia decisionale, che per esempio non prevede la tradizionale figura del protettore». Bisogna d’altro canto tenere presente che si tratta di una valutazione che si basa solo sulle donne (albanesi e uruguayane) che raccontavano più facilmente di sé, mentre è chiaro che coloro che hanno paura dei loro sfruttatori difficilmente parlano.
Scrive Antonio Roversi, autore di una ricerca sulla prostituzione a Modena: «Innanzi tutto le ragazze di questi Paesi [russe, ucraine, moldave] prendono liberamente e consapevolmente la decisione di venire a prostituirsi nel nostro Paese [...] una volta presa questa decisione, contattano esse stesse organizzazioni che le mettono in grado di raggiungere l’Italia, oppure vi giungono con un normale visto turistico, e una volta arrivate si mettono sul mercato. A questo punto stipulano, per così dire, una sorta di ‘contratto d’affari a termine con le organizzazioni locali dello sfruttamento della prostituzione», che consiste nel cedere loro il 60% dei guadagni, oltre a pagare il trasporto in Italia a caro prezzo, se è avvenuto tramite l’organizzazione.

Assuefazione alla prostituzione

La prospettiva di accumulare velocemente con la prostituzione quello che in patria, a causa della differenza di condizioni economiche dell’Italia con il Sud del mondo e i Paesi dell’Est, rappresenta un piccolo capitale può far sì che si scelga una strategia migratoria di questo tipo, decidendo che il periodo passato a prostituirsi sarà breve e che avverrà lontano da casa per evitare la stigmatizzazione nel luogo di vita. E l’assuefazione alla prostituzione fa sì che anche chi è stata costretta e sfruttata possa vedere nel commercio del sesso un modo accettabile di guadagnare: «Abbiamo avuto un processo in cui delle slave hanno denunciato l’organizzazione. Poi gli è stato chiesto: volete essere rimpatriate? Hanno fatto capire che sarebbero rimaste qualche tempo per fare soldi prostituendosi», racconta una poliziotta.
Gli operatori delle ong ritengono che sia molto difficile stare fuori dalla rete di sfruttamento: alcune ci riescono quando i protettori vengono arrestati, e allora le donne si auto-organizzano. Altre prostitute indipendenti scendono in strada solo saltuariamente, cambiando spesso di posto.
Ma spesso il fatto stesso di essere costretta a venire a patti con chi può assicurare l’ingresso in Italia, dove le leggi sull’immigrazione diventano sempre più restrittive, mettendosi quindi interamente nelle mani di trafficanti per riuscire ad attraversare la frontiera, espone al rischio di perdere il controllo sulla propria sorte e di finire letteralmente comprata e venduta dai diversi anelli della catena del traffico di persone che vogliono emigrare.
I trafficanti conoscono bene le possibilità di alti guadagni nel settore della prostituzione per donne giovani e attraenti, e le schiavizzano per sfruttarne il corpo come una forma di capitale.
Infatti, nonostante il blocco dei prezzi da una decina di anni a questa parte, dovuto all’aumento spropositato dell’offerta di sesso sulle strade, in realtà è possibile fare ancora buoni guadagni: ci sono ragazze costrette a portare a casa da 500 a 750 euro a notte.
La forma usuale di sfruttamento delle albanesi è la tipica dinamica del «pappone»: un connazionale si finge innamorato della ragazza e promette di sposarla nella ricca Italia, mentre intende sfruttarla costringendola a prostituirsi. Stupri di gruppo documentati da foto o filmati sono i mezzi con cui le ragazze sono costrette a piegarsi alla volontà dei «fidanzati».
Il fatto che esistano le prove della perdita dell’onore è gravissimo: l’onore di un’albanese è legato alla verginità, e la sua perdita recide ogni legame con la famiglia di origine, ogni possibilità di ritorno. Il più delle volte conduce anche al disprezzo per se stessa, alla completa perdita di stima di sé.
Nel caso delle nigeriane lo sfruttamento assume la forma di un «debito» (loan, letteralmente: prestito) contratto per il viaggio in Italia, debito che onorano dando i soldi alle maman o inviandoli in Nigeria, cosa che rende il reato di sfruttamento difficile da provare, dal momento che, come tutti gli emigranti, esse inviano denaro anche alla famiglia d’origine.
Agli inizi le nigeriane entravano in Italia grazie alla complicità che le organizzazioni criminali (pare che la tratta di donne sia stata iniziata dai trafficanti di droga nigeriani) si erano procurate presso l’ambasciata italiana di Lagos, che faceva commercio di visti di ingresso. L’ammontare della somma da pagare ai trafficanti è in crescita: dai 10 milioni di lire di cui si parlava per i primi arrivi alla fine degli anni Ottanta ai 30-40 milioni di lire che erano la cifra corrente qualche anno fa, mentre in Lombardia più recentemente sarebbe tra gli 80 e i 120 milioni. Tuttavia, attualmente tale debito è per lo più esauribile in uno-due anni di intenso lavoro: «Con una ragazza nigeriana abbiamo fatto il calcolo che alla maman ha dato 130 milioni in diciotto mesi: 500.000 lire per il marciapiede al mese, 50 o 100.000 a settimana per il vitto, 400.000 per l’alloggio» [intervista con un’operatrice della Caritas, 2001]. Le persone maggiormente in soggezione, meno in grado di contrastare la volontà degli sfruttatori, finiscono per essere ricattate sempre di più e pagare molto più di chi gestisce il patto in modo non succube.

Matrimoni bianchi

«Le nigeriane sanno tutto sulla vita in Italia», dichiara un’operatrice della Lila di Milano, intervistata nel 2001:

Non vedono l’ora di finire di pagare per tenersi i soldi. Poi non tornano perché nessuno le sposa, qui si sposano con un italiano. Ci sono anche molti matrimoni bianchi in cui gli uomini vengono pagati. Non accettano altri lavori, che sono più duri: chi sta con gli anziani ci vive anche assieme. Anche fare le pulizie è giudicato più duro. Molte bevono. Non te ne accorgi sul lavoro ma lo fanno a casa.
Le nigeriane sono terrorizzate, non escono di casa. Quando la polizia le spinge nelle zone più periferiche non trovano clienti, quindi l’unico che capita lo accettano senza preservativo. Abbiamo un alto tasso di sieroconversioni [infezioni da hiv]. Anche per altre malattie a trasmissione sessuale, è difficile convincerle ad andare dal medico. Hanno paura di essere espulse. Molti ospedali non curano chi è senza documenti, anche se c’è la circolare che impone di accettare tutti per le urgenze. Sono torturate dalla polizia, mentre i trans sudamericani senza documenti non sono trattati così male.

Particolarmente problematico è visto il rapporto con la salute di molte migranti: «Non imparano a curarsi, e non lo fanno», racconta ancora l’intervistata, e altre operatrici confermano, come un’operatrice del cip di Firenze: «Cerchiamo di far prendere loro cura del proprio corpo. Nessuna usa la contraccezione. Le nigeriane dicono che la pillola fa male e fa ingrassare».

Gerarchia di arrivo

Gli spostamenti sul territorio delle prostitute nigeriane sono organizzati in obbedienza alla gerarchia di arrivo: le più inesperte vengono messe a imparare sulla strada in zone più marginali, ovvero con minori possibilità di guadagno, per poi essere trasferite, se si rivelano affidabili, nelle città, luoghi più redditizi. È stato notato anche il passaggio delle prostitute più anziane, quelle con cinque-sei anni di permanenza, alla prostituzione negli hotel, un mutamento stimolato dall’intensificazione delle retate nelle strade negli ultimi anni.
La sottrazione del passaporto è un modo per assoggettare queste donne, dato che senza documenti validi, senza il visto per turismo di chi è entrata legalmente, al primo incontro con la polizia non hanno altra prospettiva che un disonorevole rimpatrio.
La sottomissione delle nigeriane è comunque per lo più volontaria: hanno infatti accettato di rimborsare il loan (il famoso rito vudù cui si sottopongono è la formalizzazione del loro impegno) e dunque girano liberamente per l’Italia, a differenza delle donne dell’Est che sono sottoposte a un controllo strettissimo, in cui il riscontro sulle somme guadagnate avviene contando i preservativi rimasti a fine serata, un vero e proprio incentivo a venire incontro alle richieste dei clienti e lavorare senza condom per tenere dei soldi da parte.
Sia che sappiano di dover pagare un debito, sia che il conto venga loro presentato una volta arrivate in Italia, e anche quando (come in genere accade) accettano di rimborsarlo attraverso la prostituzione, le nigeriane e le donne di altra nazionalità che si trovano in tale situazione generalmente ignorano le condizioni di estremo disagio del lavoro in strada in Italia.
Queste sono modalità diversissime da quelle del Paese di origine, dove il commercio del sesso è integrato nel tessuto sociale e si svolge in bar e alberghetti dove è previsto l’intrattenimento dei clienti e non solo il rapporto sessuale. Invece dello scenario consueto, si trovano a battere in strada, in luoghi spesso isolati e pericolosi, poco vestite in qualunque condizione atmosferica, con orari lunghissimi e praticamente senza giorni di riposo:

In molti Paesi una prostituta può sopravvivere servendo uno o due clienti al giorno in lavori che includono bere, ballare e conversare; in alternativa il lavoro può significare «avere una relazione» con un cliente per una settimana o più. Per questa lavoratrice, passare dodici ore al giorno seminuda in una vetrina o sulla soglia di una porta, servendo fino a venti clienti con nessun contatto, o pochissimo, che non sia sessuale può essere un grave choc.

Gli orari di lavoro in strada sono veramente estenuanti. Nella ricerca di Roversi le intervistate hanno dichiarato di scendere in strada ogni giorno dalle sei alle otto ore, cioè dalle 8 o 9 di sera alle 3 o 5 di mattina, mentre alcune dichiaravano anche dieci ore di permanenza. Gli unici rallentamenti in questo ritmo quotidiano avvenivano dopo le operazioni di polizia: per qualche giorno non lavoravano. Le lunghe ore di lavoro caratterizzano entrambi i modelli di sfruttamento, sia la pura costrizione sia il desiderio di liberarsi dal debito il prima possibile.
Porpora Marcasciano, nel corso di un seminario di operatori di ong che fanno lavoro di strada, ha dato la definizione più pregnante del cambiamento che il mondo della prostituzione ha subìto nell’ultimo decennio: «Ora c’è una massa di persone senza dignità ed extraterritoriali, perché non entrano nel tessuto sociale. Salta agli occhi questo muro invisibile tra queste donne e ciò che le circonda».
Dalla prostituta di strada come figura familiare, conosciuta per nome (o meglio, per pseudonimo: l’adozione di un nome falso fa parte delle strategie di distanziamento dal ruolo di prostituta), «siamo passate a una massa di persone che non hanno più nome».
Uno dei problemi dibattuti al seminario era appunto quello di riuscire a creare un punto di contatto: «Per loro tutto è estraneo, tutto è ostile». Le trans invece, è stato notato dalla responsabile dell’unità di strada della Lila, sono più intraprendenti, più difficilmente si trovano in una simile condizione di smarrimento: «Le trans conoscono di più la città, sono più sicure. Le migranti albanesi dicono: io non so dove sto».

Sessismo diffuso

Il fatto di mantenere le ragazze in una situazione di ignoranza è parte della violenza fisica, psicologica, economica esercitata su di loro, che comincia con il sessismo diffuso nei Paesi di provenienza, molto più feroce di quello italiano ed esasperato dalle crisi economiche.
Gli operatori di Milano notano che nelle situazioni più miserevoli si trovano le albanesi sfruttate da fidanzati e mariti, mentre le ragazze ucraine e moldave riescono a cavarsela meglio: queste ultime, conferma una mediatrice culturale moldava, provengono da società in cui le donne hanno ruoli più importanti.
Lo sono sicuramente se confrontati con quelli cui la cultura tradizionale albanese relega il sesso femminile. Secondo il Kanun, il codice tribale albanese che è ancora in vigore nelle montagne del Nord, la donna è completamente priva di personalità giuridica. Si legge all’articolo 29 che «finché si trova in casa del marito è considerata un piccolo otre che sopporta pesi e fatiche». In questa legge tradizionale è codificata l’inferiorità spirituale e biologica della donna, con il disprezzo che ne consegue.
Il fatto che le albanesi sopportino più spesso rapporti di sfruttamento, che frequentemente sono mescolati all’affettività, è una spia di quanto questi rapporti in patria siano normali. «Questa sarebbe schiavitù? E, se lo è, in cosa differisce da altri centinaia di migliaia, se non milioni, di rapporti affettivi, tra uomini e donne, ‘normalmente’ simili a questi, che finiscono anch’essi col matrimonio?» domanda Maylinda, ragazza di vita albanese, a proposito delle relazioni, che appunto sovente sfociano nel matrimonio, tra le ragazze che condividono la sua vita e «i loro presunti padroni», come chiama i fidanzati-sfruttatori.
Il tipo di scelta che devono fare le albanesi viene esemplificato in modo chiarissimo nella sua lunga intervista (sicuramente romanzata ma esemplare):

Nessuna delle altre ragazze dell’Est, albanesi comprese, che battono e che non legano con i propri uomini e che tantomeno li sposano, dopo qualche mese, una volta imparato il mestiere e visti i guadagni, anche se rapite, comprate, vendute e maltrattate, vorrebbe tornare indietro. Nessuna. Indietro dove, poi? A una vita di miseria e di sfruttamento spesso peggiore della strada? A tornare di nuovo a carico della famiglia?.
Per di più una ragazza non più vergine è una donna perduta, per la quale il ritorno in famiglia è impossibile: farebbe ricadere il suo disonore su tutti i parenti.

Anche negli altri Paesi dell’Est vi è una diffusione della violenza fisica degli uomini contro le donne che va molto al di là del livello pur grave del problema in Italia. Dalle interviste a donne moldave, ucraine, russe effettuate da Roversi a Modena emerge che la violenza fisica dei genitori nei confronti dei figli e dei mariti nei confronti delle mogli «sembra essere la modalità di relazione interpersonale preponderante».
Nelle società dell’Est Europa è fallita la via all’emancipazione femminile attraverso il lavoro, nonostante gli sforzi fatti verso questo traguardo dai partiti socialisti: anche Ehnver Hoxa cercò di migliorare la posizione sociale delle donne albanesi permettendo loro di studiare e di lavorare fuori casa. Il tempo ha rivelato che si trattò in definitiva solamente di una «doppia presenza», di un doppio sfruttamento che non ha portato mutamenti sostanziali di status. Le interviste a prostitute svolte a Genova hanno dato questo quadro del Paese balcanico:

Così, se nelle campagne e sui monti i maltrattamenti e la fatica sono il quotidiano, nelle città, comunque, le donne non possono recarsi al lavoro con vestiti «succinti» (gonne al ginocchio, vestiti privi di maniche...) e possono truccarsi soltanto a patto di accettare di essere immediatamente considerate «di facili costumi».
L’educazione sessuale non esiste, i rapporti prematrimoniali ritenuti immorali, la prostituzione e quanto in occidente va sotto la definizione di «industria del sesso» assolutamente sconosciuti.

Casini negli orfanotrofi

Ovviamente non è vero che la prostituzione in Albania non esiste: «La domanda è internazionale, uomini d’affari, funzionari di agenzie internazionali e militari, che si rivolgono alle studentesse. Gli albanesi non hanno altrettanti soldi e quindi vanno con le rom, che sono in fondo alla scala sociale. Sono stati scoperti anche casini dentro gli orfanotrofi», racconta un operatore dell’ics, che conferma anche l’emarginazione di coloro delle quali si sa che si sono prostituite in Italia: per loro vi sono speciali case di accoglienza in tre città.
Gli standard di moralità per le albanesi sono strettissimi:

Una donna è una puttana se beve una birra al bar o fuma. Al bar ci va se accompagnata da un uomo. A Valona c’è un unico caso di studentesse che vivono tra loro lontano dalle famiglie, mentre a Tirana ce ne sono di più. Nelle campagne i matrimoni sono combinati, c’è un controllo feroce sulle ragazze. Addirittura ho sentito una leader delle donne dire di chi diventa prostituta che è perché la famiglia non la tutela, non se ne prende cura [intervista a un operatore dell’Ics].

A onor del vero, la proibizione dei bar per le donne non è affatto sparita in Italia: ancora una decina di anni fa, per esempio, nei paesi vicino ai quali si trova il campus dell’Università della Calabria, alle ragazze non era consentito andare al bar e le studentesse venivano viste come ragazze di malaffare. Vi era, scrive Renate Siebert, un’«ostilità diffusa del territorio circostante, il quale, anche dopo tanti anni, si ostina a rimandare alle studentesse un’immagine di estranee, di ragazze facili, di ‘puttane’. Non possiamo uscire dall’ambito universitario, perché siamo considerate... quando usciamo per andare a fare la spesa ci guardano come se fossimo delle bestie rare».
Ma tornando ai Paesi dell’Est, non solo in nessuno di questi ha attecchito un movimento neo-femminista forte (né vi è stata la rivoluzione culturale del Sessantotto) ma non sono mai accadute mobilitazioni delle stesse prostitute: sicuramente non in Albania, Paese comunque economicamente arretrato e con uno stile di vita da società tradizionale, ma nemmeno nei Paesi più industrializzati dell’ex blocco sovietico, e ciò a causa della repressione fortissima sulla prostituzione e delle restrizioni alla libertà di espressione e organizzazione politica nei regimi del socialismo reale. Tuttavia ci sono delle differenze: le donne moldave in particolare sono per cultura più forti e determinate, e negoziano con maggior successo i rapporti con i protettori.
Il sociologo Sandro Segre ha indagato i processi di costruzione e di percezione dello status di prostituta da parte delle donne straniere che esercitano questo mestiere a Genova, trovando differenze nello status che le diverse comunità attribuiscono alle lavoratrici del sesso:

Le prostitute nigeriane, marocchine e forse anche quelle di altre nazionalità sono stigmatizzate ed ostracizzate dai connazionali che vivono in Italia e sanno della loro attività. L’ostracismo verso le nigeriane non impedisce tuttavia la loro partecipazione ad attività, come feste, organizzate da connazionali, mentre non si registra ostracismo da parte di connazionali verso prostitute ecuadoriane e forse altre latino-americane.

Segre ricava dalle interviste l’impressione di una scarsa stigmatizzazione della prostituzione in Nigeria. Se questo è vero – ma le mie fonti indicano il contrario – ciò è probabilmente dovuto al successo economico di chi ha fatto questa «carriera» in Italia, non a una diretta e franca accettazione del commercio del sesso.
Infatti coloro che vengono rimpatriate dalle forze dell’ordine italiane sono schedate, esposte al pubblico ludibrio come misura di prevenzione, sottoposte forzatamente a esami medici e rinchiuse in carcere se risultano sieropositive.
Segre riferisce anche la pratica degli albanesi di divulgare ai familiari in patria l’attività della giovane per impedirne il ritorno.
Ha trovato che la stessa minaccia di perdita totale della reputazione incombe sulle marocchine intervistate: «Per le prostitute marocchine invece la forte stigmatizzazione da parte dei connazionali, ed anzi di tutti i correligionari, sia nella madrepatria sia in Italia, obbliga a una rigida segmentazione dei pubblici di fronte ai quali è assunto lo status di prostituta».
Questa stigmatizzazione delle lavoratrici del sesso da parte dei musulmani si riflette anche nel frequentissimo rifiuto da parte di chi si prostituisce di accettare come clienti gli arabi (e spesso anche gli africani neri), sulla base del fatto che sono violenti e pericolosi. Certamente è questo il copione standard per interagire con una donna ai loro occhi completamente priva di status sociale come la prostituta.

Brutale sfruttamento economico

Dalle fonti appare che la quasi totalità di chi lavora in strada prima o poi subisce atti di violenza e rapine (peraltro alcune prostitute non rifuggono dal derubare a loro volta i clienti, se ne hanno l’occasione), anche se altre testimonianze di operatori delle ong indicano che la violenza più grande è quella che subiscono dagli sfruttatori, lontano dalla strada.
Esiste anche una ragione strutturale per l’uso palese della violenza nell’appropriarsi dei guadagni della prostituzione di strada da parte di protettori o organizzatori della stessa: il denaro deve essere letteralmente preso dalle mani delle donne, cosa che rende molto evidente lo sfruttamento economico e gli fa assumere forme più brutali di quanto non accada in altri lavori in cui si è assunti alle dipendenze di qualcuno e non si maneggia denaro.
Questa violenza è a volte evitata da patti stretti con le organizzazioni criminali. Si tratta spesso di patti leonini: alle donne dell’Est, scrive Mirta Da Pra Pocchiesa, vengono promessi 1.000 euro al mese: «Una volta in Italia, però, si rendono conto che è ben poco rispetto ai guadagni che portano allo sfruttatore». Non mancano le donne ingannate anche su questi accordi e che dei compensi promessi non riescono a vedere una lira (euro? N.d.R.).
Infatti i contratti che stipulano con gli organizzatori della prostituzione non possono essere garantiti in nessun modo. Addirittura i proventi sequestrati agli sfruttatori non vengono mai restituiti alle donne, per ragioni che riguardano la posizione di chi si prostituisce di fronte alle leggi abolizioniste, che non la considerano parte lesa dallo sfruttamento della prostituzione e neppure vittima di un’estorsione (lo vedremo meglio più avanti).

I ricatti dei poliziotti

Le ricerche e la mia stessa esperienza di uscite notturne e pomeridiane nell’estate del 2001 a bordo del camper Priscilla (Lila) e nell’inverno 2004 sull’unità di strada Avenida (Caritas) concordano nel riferire testimonianze di brutalità subite persino dalle forze dell’ordine (e anche qui il disprezzo sociale per ciò che fa la prostituta incide nel modo di trattare con lei) e ricatti di poliziotti e carabinieri per ottenere prestazioni gratuite o appropriarsi dei guadagni. Ma gli abusi avvengono anche durante operazioni legali: «Mi hanno tenuta in questura due giorni senza mangiare né bere, non ho potuto prendere le medicine per il cuore e mi hanno preso dalla borsetta 300 euro e il cellulare. Sono stata in Bulgaria, in Turchia: nessuno ti tratta così», racconta una donna rumena in Italia con un visto turistico.
Il documento Verbale workshop clienti, distribuito al convegno della Lila «I progetti per la tutela della salute delle persone che si prostituiscono: le strategie di collaborazione con le Forze dell’Ordine, i Clienti, i Servizi Sanitari» (Milano, giugno 2001), riporta le testimonianze di cinque nigeriane e due trans peruviane, che denunciano pestaggi della polizia e distruzione dei preservativi. Alla prima domanda che era stata loro posta: «Quali sono i principali problemi che incontrate nel vostro lavoro?», la risposta è stata: «La polizia». Parla una prostituta nigeriana:

Qualche volta mi è capitato di finire in mezzo alle retate; è anche capitato che i poliziotti in cambio di sesso gratis non ci hanno portato in Questura. Ci sono perfino gli incaricati dell’elettricità e del gas che quando vengono a casa per i controlli chiedono almeno di palparti...
«È un enorme giro di denaro su cui tutti vogliono mettere le mani», dice un operatore della Lila. Le clandestine senza diritti sono alla mercé di tutti anche perché spesso non sanno che la prostituzione in Italia non è un atto contrario alla legge, e gli sfruttatori creano un clima di sfiducia nei confronti dei clienti, della polizia (che spesso nei Paesi di origine è ancora più brutale), di tutti gli italiani e le italiane.
Solo in Italia, in Belgio e in Spagna, tra tutti i Paesi della Ue, è stato posto un rimedio al fatto che i «clandestini» non possono denunciare gli abusi che subiscono, dal momento che verrebbero espulsi. Esiste infatti una via d’uscita nel Testo unico sull’immigrazione (L. 286/98, art. 18): affidarsi a una ong iscritta a un elenco ufficiale, rinunciare a prostituirsi e intraprendere un «programma di assistenza e integrazione sociale» (così nella legge) ottenendo in cambio un permesso di soggiorno detto di protezione sociale, che attualmente è stato concesso a più di 2.000 donne. Questa norma non riguarda solo il settore della prostituzione ma tutte le «situazioni di violenza e di grave sfruttamento», benché sia di fatto utilizzata solo da ex prostitute.
Concludendo, rimane pur vero che anche oggi, non solo in passato, la prostituta, anche straniera, può essere una figura della libertà, anche se rappresenta una libertà da ostracizzata. Questo scrive Carla Corso, ricordando i suoi inizi:
Le prostitute per me erano persone capaci di conquistarsi un’indipendenza economica, le consideravo emancipate rispetto alle altre donne asfissiate dai loro ménages casalinghi. Non erano dall’altra parte della barricata, come le considerava la gente. Per me erano persone vincenti, né vittime né donne da esorcizzare. Pia mi appariva forte, sicura di sé e del suo lavoro... e io, che dovevo fare? Stare lì come una scema ad aspettare che lei tornasse con i soldi per tutt’e due? No, lo trovavo ignobile.

Anche le straniere attraverso il denaro della prostituzione si costruiscono un percorso di ascesa sociale:

Io faccio la prostituta perché fra un paio d’anni mi rimetterò a studiare e non dovrò chiedere niente a nessuno, sono una donna indipendente che non vuole chiedere niente a nessuno.

Daniela Danna

Donne di mondo
commercio del sesso e controllo statale

200 pp. / euro 15,00

Daniela Danna è ricercatrice presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano. È autrice di Amiche, compagne, amanti. Storia dell’amore tra donne (Mondadori 1994, Uni-Service 2003), Matrimonio omosessuale (Erre Emme 1997) e Io ho una bella figlia... le madri lesbiche raccontano (Zoe 1998).

Daniela Danna