Rivista Anarchica Online


anniversari

Suprema rivolta dello spirito
di Michael Löwy

 

Un antiautoritarismo di ispirazione libertaria attraversa l’insieme dell’opera narrativa di Kafka.

In occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Franz Kafka, Michael Löwy, docente universitario, autore di molte opere sul romanticismo rivoluzionario e sull’utopia, e militante della LCR – Ligue Communiste Révolutionnaire (Lega Comunista Rivoluzionaria, d’ispirazione trotzkista), pubblica il libro Franz Kafka, rêveur insoumis (Franz Kafka, indomito sognatore).
Ne pubblichiamo qui alcuni estratti pubblicati originariamente sul periodico “Alternative libertaire”.

 

È evidente che l’opera di Kafka non possa essere ridotta a una dottrina politica, di qualunque tipo essa sia. Kafka non produce discorsi, crea personaggi e situazioni, e nella sua opera esprime sentimenti, atteggiamenti, un modo di sentire. Come affermava Lucien Goldmann, il mondo simbolico della letteratura è irriducibile al mondo discorsivo delle ideologie, l’opera letteraria non è un sistema concettuale astratto, come lo sono le dottrine filosofiche o politiche, bensì creazione di un universo immaginario concreto di personaggi e di cose.
E tuttavia, ciò non proibisce di esplorare i passaggi, le connessioni, i legami sotterranei tra il suo spirito antiautoritario, la sua sensibilità libertaria, le sue simpatie socialiste, da un lato, e i suoi scritti principali, dall’altro. Essi rappresentano vie di accesso privilegiate a quello che potrebbe chiamarsi il suo paesaggio interiore.
Le inclinazioni socialiste di Kafka si manifestano ben presto: secondo il suo amico di gioventù e compagno di studi liceali Hugo Bergmann, il giovane Kafka portava, per rendere manifeste le proprie opinioni, un garofano rosso all’occhiello. La loro amicizia si era un po’ raffreddata durante l’ultimo anno di liceo (1900-1901), perché “il suo socialismo e il mio sionismo erano troppo forti”.
Di che socialismo si tratta? Diverse testimonianze di contemporanei fanno riferimento alle simpatie che Kafka nutriva per i socialisti libertari cechi. È in questa direzione, dunque, che si devono orientare le ricerche, se si vuol conoscere il tipo di socialismo “troppo forte” (secondo Bergmann) del giovane Kafka.

Max Brod, amico e biografo di Kafka

Simpatie libertarie

Tre testimonianze di connazionali suoi contemporanei documentano le simpatie nutrite da Kafka per i socialisti libertari cechi, e la sua partecipazione ad alcune delle loro attività. All’inizio degli anni Trenta, Max Brod raccoglie alcune informazioni da uno dei fondatori del movimento anarchico ceco, Michal Kacha. Hanno a che vedere con la presenza di Kafka alle riunioni del Klub Mladych (Club dei giovani), un’organizzazione libertaria, antimilitarista e anticlericale, frequentata da diversi scrittori cechi.
La seconda testimonianza è quella dello scrittore anarchico Michal Mares, che aveva conosciuto Kafka per strada (erano vicini di casa). Secondo Mares, Kafka aveva partecipato, accogliendo il suo invito, a una manifestazione contro l’esecuzione di Francisco Ferrer, l’educatore libertario spagnolo, nell’ottobre 1909. Nel corso degli anni 1910-12, avrebbe assistito ad alcune conferenze anarchiche sull’amore libero, sulla Comune di Parigi, sulla pace e contro l’esecuzione del militante libertario parigino Liabeuf.
Il terzo documento è rappresentato dai Colloqui con Kafka (1951) di Gustav Janouch. Questa testimonianza, che fa riferimento agli scambi avuti con lo scrittore praghese durante gli ultimi anni della sua vita (a partire dal 1920), mostra come le simpatie di Kafka per i libertari fossero ancora vive. Non soltanto definisce gli anarchici cechi “molto gentili e molto simpatici”, “così gentili e tanto amabili che non si può non credere a tutto quel che dicono”, ma le idee politiche e sociali che egli esprime in queste conversazioni sono ancora fortemente segnate dalla corrente libertaria.
Non si tratta, in alcun modo, di dimostrare una pretesa “influenza” degli anarchici praghesi sugli scritti di Kafka. Al contrario, fu lui, muovendo dalle proprie esperienze e dalla sua sensibilità antiautoritaria, a scegliere di frequentare, per qualche anno, le attività di quegli ambienti (e di leggerne alcuni dei testi). Non vi sarebbe nulla di più erroneo, infatti, che credere che Kafka abbia voluto trascrivere le proprie simpatie libertarie nella sua opera letteraria.
Se tra quest’ultima e le prime vi è come un’“aria familiare”, è perché entrambe riflettono un che di fondamentale, un atteggiamento esistenziale, un tratto essenziale del suo carattere. È lui stesso a definirlo, questo tratto, non senza una certa inflessibile durezza, una sincerità impietosa, in una lettera alla fidanzata Felice Bauer del 19 ottobre 1916: “Io, che spessissimo ho mancato d’indipendenza, ho una sete infinita di autonomia, d’indipendenza, di libertà in ogni direzione […]. Qualsiasi legame che non sia io stesso a creare, è privo di valore, mi impedisce di andare avanti, lo odio, o sono molto vicino ad odiarlo”. Un’infinita sete di libertà in ogni direzione: non si potrebbe meglio descrivere il filo rosso che attraversa tanto la vita quanto l’opera di Kafka (e soprattutto quella del periodo inauguratosi nel 1912), e che conferisce loro una straordinaria coerenza, malgrado la loro tragica incompiutezza.
Effettivamente, un antiautoritarismo di ispirazione libertaria attraversa l’insieme dell’opera narrativa di Kafka, in un movimento di “spersonalizzazione” e crescente reificazione dell’autorità paterna e personale nell’autorità amministrativa e anonima. Non si tratta di una qualche dottrina politica, ma di un modo di sentire e di una sensibilità critica, la cui arma principale è l’ironia, l’umorismo, quell’umorismo nero che è “una rivolta suprema dello spirito” (André Breton).

Francisco Ferrer, pedagogista anarchico spagnolo

Verso la critica degli apparati di potere

I primi racconti di Kafka, La condanna e La metamorfosi, che risalgono al 1912, mettono in scena l’autorità patriarcale, o, per riprendere un commento di Milan Kundera in proposito, il “totalitarismo famigliare”.
Il romanzo incompiuto America (1912-14), fortissima critica della civiltà industriale capitalista, è un’opera di transizione: vi sono ancora presenti figure di stampo patriarcale, ma si vede già apparire il potere delle strutture gerarchiche. La grande svolta verso la critica degli “apparati” di morte anonimi è rappresentata dal racconto Nella colonia penale, scritto poco dopo America. Nella letteratura universale pochi sono i testi che presentano l’autorità con un volto tanto ingiusto e mortifero. Non si tratta del potere di un singolo individuo (i comandanti, vecchi e nuovi, della colonia non hanno che un ruolo secondario nel racconto), bensì di quello di un meccanismo impersonale.
Il contesto del racconto è quello del colonialismo francese. Gli ufficiali e i comandanti della colonia penale sono francesi, mentre gli umili soldati, i portuali, le vittime che devono essere giustiziate sono “indigeni” che “non capiscono una sola parola di francese”. Un soldato “indigeno” è condannato a morte da ufficiali la cui dottrina giuridica riassume in poche parole la quintessenza dell’arbitrarietà: “Non si deve mai mettere in dubbio la colpevolezza!”. La sua esecuzione deve essere compiuta tramite una macchina da tortura che, trapassandolo con aghi, scrive lentamente sul suo corpo: “Onora i tuoi superiori”.
Il personaggio centrale del racconto non è né il viaggiatore che osserva gli eventi con muta ostilità, né il prigioniero, che non reagisce affatto, né l’ufficiale che presiede all’esecuzione, né il comandante della colonia. È la macchina stessa.
Tutto il racconto ruota intorno a questo sinistro apparato (Erpice), che emerge sempre più, nel corso della spiegazione molto dettagliata che l’ufficiale ne dà al viaggiatore, come un fine in sé.
L’Erpice non è fatto per giustiziare l’uomo, è piuttosto quest’ultimo a essere lì per l’apparecchio, per fornirgli un corpo sul quale possa scrivere il suo capolavoro estetico, la sua sanguinosa iscrizione illustrata da “molti florilegi e abbellimenti”. L’ufficiale stesso non è un che un servitore della macchina e, infine, si sacrifica anch’egli a questo Moloch insaziabile.
A quale concreta “macchina di potere”, a quale “apparato d’autorità” sacrificatore di vite umane, pensava Kafka? Nella colonia penale è stato scritto nell’ottobre 1914, tre mesi dopo lo scoppio della prima guerra mondiale.

Kafka assieme alla fidanzata Felice Bauer

La natura alienante dello Stato

L’ispirazione antiautoritaria è inscritta nel cuore dei grandi romanzi di Kafka, Il processo e Il castello, che ci parlano dello Stato (che sia nella forma dell’“amministrazione” o della “giustizia”) come di un sistema di dominio impersonale, che schiaccia, soffoca o uccide i singoli individui. Si deve ricordare che Kafka non descrive, nei suoi romanzi, Stati “d’eccezione”: una delle idee principali (di cui è manifesta la vicinanza con l’anarchismo) suggerite dalla sua opera è quella della natura alienata e oppressiva dello Stato “normale”, legale e costituzionale. Fin dalle prime righe del Processo, è detto chiaramente: “K. viveva pur in uno Stato di diritto (Rechstaat), la pace regnava ovunque, erano in vigore tutte le leggi, chi osava dunque assalirlo in casa sua?”. Come i suoi amici, i libertari praghesi, egli sembra considerare qualsiasi forma di Stato, lo Stato in quanto tale, una gerarchia autoritaria e liberticida.
Una tale interpretazione “critica”, beninteso, è in flagrante contraddizione con le numerose letture metafisiche che della rassegnazione di fronte alla “condizione umana”, in ciò che essa ha di più atemporale, fanno l’oggetto dei romanzi di Kafka. In un saggio sullo scrittore, pubblicato nel 1953, Theodor Adorno aveva già chiuso i suoi conti con questo genere di argomento: “Il tono della sua opera è quello dell’estrema sinistra; riducendolo all’eterno umano, già lo si tradisce in maniera conformista”. Questa nota polemica merita un commento. Non parla di un messaggio, di una dottrina o di una tesi, ma di un tono, nel senso musicale del termine. È poco probabile che Adorno abbia avuto conoscenza delle testimonianze sulle simpatie libertarie di Kafka. Dunque, è attraverso una lettura immanente dei testi letterari che egli giunge a tale conclusione.

Michael Löwy
traduzione dal francese di Anna Spadolini

Michael Löwy, Franz Kafka, rêveur insoumis, Paris, Editions Stock, 2004, 169 pagine, 20 euro