Rivista Anarchica Online


 

Lettura di Errico
Malatesta

 

L’azione e il pensiero di Errico Malatesta, la sua opera di instancabile rivoluzionario partecipe per sessant’anni allo sviluppo storico dell’anarchismo, non sono ancora oggi conosciuti e studiati in modo approfondito e sistematico. Un tale studio implica necessariamente una ricerca storica che abbracci oltre mezzo secolo di attività rivoluzionaria internazionale. Inoltre, per avere una visione d’insieme, si dovrebbe rapportare tale attività nel contesto più ampio e sfumato delle lotte sociali e progressiste del tempo. Perché Malatesta fu di queste lotte uno dei massimi protagonisti, sia per l’attività prodigiosa che seppe profondere in tali lotte, sia perché di queste lotte, egli fu a volte l’ispiratore e da esse seppe trarre un’esperienza ricchissima di cui i suoi innumerevoli scritti sono testimonianza teorica di altissimo valore. Infatti tutta la sua produzione teorica non è mai stata disgiunta dal rapporto diretto con l’esperienza concreta, tanto che essa si presenta proprio come una continua riflessione sul processo reale e storico dell’anarchismo.
In Malatesta teoria e pratica sono tutt’uno: l’una è il riflesso dell’altra e viceversa. In tutto l’arco della sua attività rivoluzionaria egli mantenne in un raro equilibrio queste due componenti, fino a farne, come abbiamo detto, una cosa sola. Malatesta inoltre essendo stato partecipe alla fondazione “ufficiale” del movimento anarchico italiano ed internazionale, vide, vivendo e partecipando alle sue lotte, la teoria farsi storia nel corso progressivo di innumerevoli e diversissime esperienze, in un arco di tempo che va dal 1872 al 1932: un’esperienza rara, forse unica.
Per tutto questo, tracciare, seppure a grandi linee, un profilo del suo pensiero, significherebbe porsi in una prospettiva storica che esula dagli intendimenti di questa lettura e che fra l’altro vorrebbe ben altro spazio. Noi vogliamo perciò solo presentare il pensiero di Malatesta rispetto alla sua validità attuale soprattutto dal punto di vista del metodo, come approccio anarchico ai problemi e alle soluzioni.
Il pensiero di Malatesta si presenta come una “sintesi” dei diversi indirizzi teorici sviluppatisi nel movimento anarchico in tutto l’arco temporale dell’attività sopra accennata. Tale “sintesi” non risente di nessuna impostazione dottrinaria perché essa è costruita sull’esperienza pratica del movimento anarchico internazionale e non si può comprendere il significato di essa se non si tiene presente che questa “sintesi” non è una semplice somma di molteplici e diversi indirizzi dell’anarchismo.

Pluralismo e relativismo
Abbiamo detto che ci interessa mettere in risalto, in questa introduzione al pensiero malatestiano, soprattutto la sua attualità dal punto di vista del metodo anarchico, come “modo generale” di affrontare i problemi e risolverli.
Noi pensiamo che questo “modo generale” sia consistito per Malatesta in un atteggiamento intellettuale proteso verso la continua ricerca teorica aliena da sistemazioni definitive, da apriorismi dogmatici, da sterili formazioni “scientifiche” unidimensionali.
In tutti i suoi scritti si può facilmente riscontrare questa “impostazione aperta” verso ogni prospettiva operativa nel senso che essa viene “armonizzata” con altre di diverso orientamento. In questo modo Malatesta si pone in un piano critico capace di “depurare” ogni atteggiamento intellettuale estremistico e settario.
Pur conservando rigorosamente alcune posizioni proprie che non muterà mai, egli era profondamente convinto che ognuna di esse fosse suscettibile di ulteriori modificazioni secondo i tempi, i modi e i luoghi della loro applicazione. Ovviamente tale metodologia doveva venire estesa, secondo Malatesta, a tutti gli indirizzi teorico-pratici dell’anarchismo.
In questo modo la “sintesi” malatestiana approdava ad alcune considerazioni teoriche di importanza fondamentale per lo sviluppo del pensiero anarchico: presa singolarmente ogni sentenza risultava insufficiente ad esprimere la ricchezza dell’universo sociale e della problematica rivoluzionaria. Per cogliere sempre più compiutamente questa inesauribile complessità occorreva evidentemente sviluppare contemporaneamente più indirizzi e tendenze, secondo la pratica storica dell’anarchismo.
Dall’impossibilità, da parte di ogni indirizzo preso singolarmente, di rappresentare questa complessità, Malatesta deduceva un’altra considerazione teorica di grande valore: quando qualsiasi tendenza si fosse “cristallizzata”, “istituzionalizzata” avrebbe perso anche la capacità di esprimere quella parte o aspetto della realtà sociale che prima rappresentava. Un esempio, Malatesta, fu tra i primi in Italia ad operare affinché il movimento anarchico organizzasse le “leghe di resistenza” o sindacati all’interno della classe operaia e bracciantile. Quando però la tendenza anarcosindacalista ebbe la pretesa di risolvere ogni problema rivoluzionario e sociale fino a volersi sostituire al movimento anarchico (pretendendo che quest’ultimo si “confondesse” con la classe operaia) Malatesta anticipò la sua futura “cristallizzazione” e “istituzionalizzazione” nel senso che abbiamo spiegato sopra. Il “sindacalismo puro” si dimostrò un’illusione non solo in Francia ma anche in Italia ed i suoi esponenti finirono quasi tutti nelle file nazionaliste e fasciste. La straordinaria funzione rivoluzionaria esercitata in Italia dall’anarcosindacalismo dal 1912 al 1921, fu dovuta al fatto che all’interno dell’USI operavano anarchici in stretto collegamento con il movimento specifico. Dell’istituzionalizzazione dei sindacati riformisti, poi è oggi superfluo parlare.
Se dunque Malatesta fu in grado di anticipare tanti errori, sia tattici sia strategici, per la sua eccezionale esperienza, è proprio a quest’ultima che dobbiamo risalire se vogliamo comprendere il significato del pluralismo presente nel suo pensiero. Attraverso la pratica storica dell’anarchismo e del movimento operaio socialista, Malatesta poté verificare la validità e l’insufficienza di ogni proposta operativa, formulando così compiutamente la teorizzazione della dipendenza dei mezzi rispetto al fine.
Questa considerazione ampiamente presente nel pensiero anarchico, trovò nel pluralismo e relativismo malatestiano la sua verifica sperimentale. Malatesta infatti poté verificare il grado di efficacia dei mezzi rispetto al fine proprio alla luce di una gamma di esperienze socialiste e popolari diversissime: dall’insurrezionalismo al parlamentarismo, dall’individualismo al comunismo, dall’educazionismo all’anarcosindacalismo, dall’antimilitarismo alla non violenza, ecc.
Questa continua e progressiva ricerca dell’identità tra principio proclamato e pratica storica, identità che solo il movimento anarchico, a nostro avviso, ha volutamente cercato e sviluppato, è stata completamente recepita ed espressa da Malatesta. Ed è proprio qui che nasce la considerazione relativistica del pensiero malatestiano, nel senso che egli vedeva ogni tendenza o indirizzo sempre legati a precisi momenti storici o a determinati aspetti della lotta sociale. Vediamo comunque ora, sempre dal punto di vista metodologico, le posizioni qualificanti del pensiero malatestiano, dal momento che alcune di esse furono immutabilmente presenti per tutto l’arco della sua attività rivoluzionaria.e diversi indirizzi dell’anarchismo.

Comunismo ed organizzazione
Malatesta fu tra i primi esponenti dell’anarchismo a passare dal collettivismo bakuniniano al comunismo; secondo il Nettlau già nell’agosto-settembre del 1876, Malatesta era per il comunismo.
Comunismo, per Malatesta, significa la massima libertà individuale integrata con la massima solidarietà sociale: la realizzazione di queste due proposizioni sta nel non svilupparne una a detrimento dell’altra. La pratica del comunismo viene quindi ad essere, secondo Malatesta, la pratica della libertà. Questa comporta la massima eguaglianza possibile per tutti di fronte alle condizioni materiali ed ambientali di vita e di lavoro che solo il comunismo, a parere di Malatesta, può realizzare.
La liberazione dell’individuo è dunque prima di tutto una liberazione sociale, nel senso che solo nello sviluppo della libertà di tutti è possibile realizzare la propria. Questo classico schema socialista-anarchico era stato da Bakunin formulato già ampiamente; Malatesta lo crederà realizzabile integralmente soltanto col comunismo, sebbene egli ammettesse la possibile coesistenza di diversi sistemi economici secondo le diverse condizioni ambientali. Per Malatesta comunque il problema fondamentale restava quello della libertà: il comunismo era solo il mezzo più efficace per realizzarla integralmente per tutti. In questo modo libertà e comunismo diventano, nel pensiero malatestiano, sinonimi.
La progressiva libertà dell’individuo rispetto a tutti i condizionamenti materiali ed ambientali trova però la sua realizzazione pratica soltanto attraverso l’organizzazione libertaria della società. Organizzazione significa prima di tutto capacità di operare sul massimo piano possibile della libertà collettiva, nel senso che solo l’organizzazione può estendere i benefici del lavoro sociale ad ogni singolo individuo. Solo essa, insomma, è capace di utilizzare al massimo la “forza collettiva” del lavoro sociale. Intendiamoci, essa non è, per Malatesta, che un mezzo per realizzare il comunismo libertario. Malatesta era profondamente convinto che senza l’organizzazione nulla sarebbe stato possibile, ma parimenti sosteneva che essa andava modificata e modellata in rapporto alle esigenze libertarie ed egualitarie.
Dal punto di vista metodologico il comunismo era il mezzo per realizzare la libertà, l’organizzazione il mezzo per realizzare il comunismo libertario. Ovviamente sul piano operativo libertà, comunismo ed organizzazione diventano, per Malatesta, quasi la stessa cosa.

La volontà rivoluzionaria
La posizione più qualificante che caratterizzò Malatesta rimase comunque quella della volontà rivoluzionaria. Nel pensiero malatestiano la rivoluzione anarchica non poteva che essere un progetto cosciente scaturito da una precisa volontà e posto artificialmente nel processo storico. Ammesse alcune condizioni favorevoli, il fattore determinante e decisivo dello scoppio e della riuscita della liberazione popolare rimaneva sempre quello della volontà rivoluzionaria.
Volontà di preparare la rivoluzione, volontà di fare la rivoluzione, volontà di essere rivoluzionari. Questa volontà rivoluzionaria era per Malatesta, ovviamente, la volontà di fare la rivoluzione libertaria e egualitaria.
Diversamente dagli individualisti e da altri anarchici stirneriani, la volontà malatestiana era guidata da un sentimento fondamentalmente solidaristico e societario: essa non poteva altro che essere un’espressione collettiva per il bene collettivo.
A differenza di altri teorici anarchici, Malatesta sosteneva che l’opposizione tra il marxismo e l’anarchismo era dovuta appunto alla diversità tra il “determinismo” e il “volontarismo”. Il “determinismo” marxista, secondo Malatesta, finiva col paralizzare le forze rivoluzionarie mettendole in un’aspettativa senza sbocchi operativi; oppure, con la scusa di favorire lo sviluppo del sistema capitalistico-borghese e portarlo più rapidamente alla sua fine, inseriva il movimento socialista nell’area legale e parlamentare. In nome del “determinismo scientificista” il marxismo consumava in realtà il tradimento e il sabotaggio.
Malatesta lungi dal porsi contro la scienza, si poneva in realtà contro la sua volgare strumentalizzazione, contro cioè la pseudoscienza del marxismo. Malatesta, in polemica anche contro Kropotkin, sosteneva che la scienza era di per sé “neutrale” nel senso che essa poteva servire alla rivoluzione libertaria come a qualsiasi sistema di dominio e sfruttamento. Solo la volontà di utilizzarla in un modo o nell’altro la qualificava diversamente: la scienza era sempre in subordine rispetto alla volontà rivoluzionaria. Comportava una prospettiva teorica completamente nuova, sia per il pensiero anarchico che per il pensiero socialista in genere. Malatesta infatti sviluppò nel suo pensiero soprattutto il punto di vista ideologico dell’anarchismo, nel senso che la realtà “oggettiva” acquista significato solo alla luce dei principi anarchici. In altri termini dal momento che per Malatesta non esisteva una scienza sociale “oggettiva”, era evidente che l’unico modo per interpretare la realtà risultava essere quello “soggettivistico” o, nel linguaggio malatestiano, quello della volontà rivoluzionaria.
La conseguenza di tale impostazione fu che per sessant’anni Malatesta si trovò ad elaborare sotto ogni punto di vista, sia teorico che pratico, il pensiero anarchico rispetto ad ogni problema di qualsiasi natura: sociale, economico, politico, religioso, filosofico, ecc. L’opera teorica malatestiana viene a configurarsi, se ci è permesso usare questa espressione, quasi come un “manuale dell’anarchismo”.
L’analisi della realtà sociale, nella prospettiva malatestiana, è quindi un’analisi indiretta, alla rovescia: per risalire ad essa ed alla sua comprensione bisogna porsi completamente nella dimensione libertaria. Mentre la realtà storico-sociale muta, il progetto rivoluzionario rimane identico nella sua sostanza e dipende da essa solo per quel tanto che lo riguarda dal punto di vista di un aggiornamento “tecnico”.
In questo modo dai moti internazionalisti al tradimento del socialismo parlamentare, dalla “settimana rossa” alla occupazione delle fabbriche, dalla politica crispina all’avvento del fascismo, la storia sociale d’Italia è filtrata attraverso il prisma magistrale della comprensione chiara, semplice e materialistica del pensiero malatestiano (e così in parte la storia del movimento socialista europeo).
L’attualità di questa prospettiva è stupefacente dal punto di vista metodologico: le pretese “condizioni obbiettive” favorevoli alla rivoluzione sono risultate un’invenzione dei “cattedratici” di fronte all’esperienza storica. Non solo la costruzione del socialismo e della libertà attraverso l’esperienza fallimentare del marxismo, è risultata possibile a diversi livelli delle forze produttive.
La prospettiva volontaristica malatestiana e il progetto che l’ha sottintesa rimangono ancora un patrimonio teorico tutto da realizzare.
In altri termini Malatesta ha dimostrato, con la sua lotta ultraciquantenaria, che la costruzione della libertà e dell’eguaglianza non dipende che dalla volontà rivoluzionaria di chi vuole realizzare tale progetto (soprattutto, la dimostrazione l’ha data la storia).
Le masse sfruttate, infatti, sono per la loro stessa posizione obiettiva e materiale sempre potenzialmente rivoluzionarie, ma sono anche, contemporaneamente in una condizione altrettanto obiettiva di sottomissione e di paralisi.
Il compito dei rivoluzionari è dunque nel senso malatestiano trasmettere questa volontà cosciente e generalizzarla, resistendo alle prevedibili sconfitte, abituandosi a respiri lunghi, e non brevi ed affannosi. Il compito dei rivoluzionari è ancora, nel senso malatestiano, mantenere intatta, pura e integrale la prospettiva libertaria ed egualitaria, nel senso che i rivoluzionari devono essere al fianco delle masse oppresse quando queste sono all’attacco, ma non seguirle quando queste si paralizzano dopo le sconfitte.
Il compito degli anarchici infine, è quello di restare tali qualsiasi cosa avvenga, qualsiasi cosa possa avvenire, qualsiasi cosa sia avvenuta.
La dimensione etica dell’insegnamento malatestiano risiede nella affermazione che la volontà rivoluzionaria, per essere anarchica, deve essere cosciente e tale deve rimanere in qualsiasi circostanza. Diceva Malatesta, nel 1922 dopo oltre cinquanta anni di lotte perdute: “Anarchici noi restiamo anarchici malgrado tutto e malgrado tutti. Noi siamo stati vinti… Ma non sarà una sconfitta, del resto prevedibile, che ci farà rinunziare alla lotta… Non vi rinunzieremo nemmeno per cento, per mille sconfitte, poiché sappiamo che nei progressi umani è stato sempre a forza di perdere che s’è finito col vincere.”.

Linguaggio malatestiano
Se osserviamo tutta la produzione teorica malatestiana constatiamo innanzi tutto che la sua forma espositiva è inscindibile dallo scopo stesso della produzione medesima: universalizzare al massimo il pensiero anarchico e rivoluzionario.
In questa prospettiva esso è molto di più della connessione tra linguaggio semplice e chiaro e scopo della propaganda: la chiarezza e la semplicità del linguaggio malatestiano stanno ad indicare, nei suoi intendimenti, che il pensiero anarchico non può che esprimersi nel modo più universale possibile.
Se anarchia è massima libertà nella massima eguaglianza e specificatamente, nel pensiero malatestiano, la massima socializzazione possibile (comunismo), allora si comprende che il pensiero anarchico è tale nella misura della sua socializzazione. In altri termini il valore pratico di esso dipende dal grado di estensione raggiungibile. Non deve essere possibile alcuna sfasatura tra contenuto ed espressione; la conoscenza intellettuale dell’alternativa libertaria ed egualitaria non può essere, per sua natura, monopolio di nessuno.
Nei suoi opuscoli e nei giornali da lui diretti, vengono propagandati attraverso tale linguaggio sorretto da una logica lucida e da un “buon senso” difficilmente ripetibile: Malatesta riesce a dire le cose più complesse nel modo più semplice e chiaro possibile. A nostro avviso esso ha rappresentato la massima espressione non solo nel campo anarchico ma anche nel campo rivoluzionario in genere. Alcuni opuscoli, come il dialogo Fra contadini, hanno avuto una tale diffusione e penetrazione nelle masse popolari difficilmente oggi concepibile (nel 1920, ad esempio, la Federazione Anarchica Ligure ne stampò e diffuse centomila copie).
Non solo, essi hanno educato generazioni intere di rivoluzionari e di progressisti.
In un arco di tempo in cui il linguaggio socialista e marxista è venuto via via ad essere monopolio esclusivo di una minoranza intellettuale di iniziati raccolti intorno alle varie chiese-partito, fino a costituire un corpus dottrinario e teologico con i suoi “segni” e i suoi “significati”, il pensiero e il linguaggio malatestiano rimangono un faro di luce che ancora oggi annichilisce i moccoli accademici di tutti i dottrinari e i presuntuosi di questo mondo.

Giampietro “Nico” Berti


Comunismo
e individualismo

Ma per essere anarchici non basta volere l’emancipazione del proprio individuo, ma bisogna volere l’emancipazione di tutti; non basta ribellarsi all’oppressione, ma bisogna rifiutarsi ad essere oppressori; bisogna comprendere i vincoli di solidarietà, naturale o voluta, che legano gli uomini tra di loro, bisogna amare i propri simili, soffrire dei mali altrui, non sentirsi felici se si sa che altri sono infelici. E questa non è questione di assetti economici: è questione di sentimenti, o, come si dice teoricamente, questione di etica.
Da tali principi e tali sentimenti, comuni malgrado il diverso linguaggio, a tutti gli anarchici, si tratta di trovare ai problemi pratici della vita le soluzioni che meglio rispettano la libertà e meglio soddisfano i sentimenti di amore e di solidarietà.
Quegli anarchici che si dicono comunisti (ed io mi metto tra essi) sono tali non perché vogliano imporre il loro speciale modo di vedere o credano che fuori di esso non vi sia salvezza, ma perché sono convinti, fino a prova in contrario, che più gli uomini sono affratellati e più intima è la cooperazione dei loro sforzi a favore di tutti quegli associati, più grande è il benessere e la libertà di cui ciascuno può godere. L’uomo, essi pensano, se anche è liberato dall’oppressione dell’uomo, resta sempre esposto alle forze ostili della natura, ch’egli non può vincere da solo, ma può col concorso degli altri uomini dominare e trasformare in mezzi del proprio benessere. Un uomo che volesse provvedere ai suoi bisogni materiali lavorando da solo, sarebbe lo schiavo del suo lavoro. Un contadino, per esempio, che volesse coltivare da solo il suo pezzo di terra, rinuncerebbe a tutti i vantaggi della cooperazione e si condannerebbe ad una vita miserabile: non potrebbe concedersi periodi di riposo, viaggi, studi, contatti colla vita molteplice dei vasti aggruppamenti umani… e non riuscirebbe sempre a sfamarsi.
È grottesco pensare che degli anarchici, per quanto si dicano e siano comunisti, vogliano vivere come in un convento, sottoposti alla regola comune, al pasto ed al vestito uniformi, ecc.; ma sarebbe egualmente assurdo il pensare ch’essi vogliano fare quello che loro piace senza tener conto dei bisogni degli altri, del diritto di tutti ad una eguale libertà. Tutti sanno che Kropotkin, per esempio, il quale fu tra gli anarchici uno dei più appassionati ed il più eloquente propagatore della concezione comunista, fu nello stesso tempo grande apostolo dell’indipendenza individuale e voleva con passione che tutti potessero sviluppare e soddisfare liberamente i loro gusti artistici, dedicarsi alle ricerche scientifiche, unire armoniosamente il lavoro manuale a quello intellettuale per diventare uomini nel senso più elevato della parola.
Di più, i comunisti (anarchici, s’intende) credono che a causa delle differenze naturali di fertilità, salubrità e posizione del suolo, sarebbe impossibile assicurare individualmente a ciascuno eguali condizioni di lavoro e realizzare, se non la solidarietà, almeno la giustizia. Ma nello stesso tempo essi si rendono conto delle immense difficoltà per praticare, prima di un lungo periodo di libera evoluzione, quel volontario comunismo universale che essi considerano quale l’ideale supremo dell’umanità emancipata ed affratellata. Ed arrivan quindi ad una conclusione che potrebbe esprimersi colla formula: quanto più comunismo è possibile per realizzare il più possibile di individualismo, vale a dire il massimo di solidarietà per godere il massimo di libertà.
D’altra parte gl’individualisti (parlo, s’intende, sempre degli anarchici) per reazione contro il comunismo autoritario – che è stato nella storia la prima concezione che si è presentata alla mente umana di una forma di società razionale e giusta e che ha influenzato più o meno tutte le utopie e tutti i tentativi di realizzazione – per reazione, dico, contro il comunismo autoritario che in nome dell’eguaglianza inceppa e quasi distrugge la personalità umana, hanno dato la maggiore importanza al concetto astratto di libertà e non si sono accorti o non vi hanno insistito, che la libertà concreta, la libertà reale è condizionata dalla solidarietà, dalla fratellanza e dalla cooperazione volontaria. Sarebbe nullameno ingiusto il pensare che essi vogliono privarsi dei benefizi della cooperazione e condannarsi ad un impossibile isolamento. Essi comprendono certamente che il lavoro isolato è impotente e che l’uomo, per assicurarsi una vita umana e godere materialmente di tutte le conquiste della civiltà, o deve sfruttare direttamente o indirettamente il lavoro altrui e prosperare sulla miseria dei lavoratori, o associarsi coi suoi simili e dividere con essi i pesi e le gioie della vita. E siccome essendo anarchici non possono ammettere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, debbono necessariamente convenire che per esser liberi e vivere da uomini bisogna accettare un grado ed una forma qualsiasi di comunismo volontario.

(“Pensiero e Volontà”, 1 Aprile 1926)

 

Sulla violenza

Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società.
La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto… Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane.

(“Umanità Nova”, 25 agosto 1921)

La violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale.
Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca ed irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami persecuzioni, o acciecati, per eccesso di sensibilità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.
La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione. Essa è temperata dalla coscienza che gl’individui presi isolatamente sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro l’eredità e l’ambiente; essa non è ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri

(“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924)

Vi possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è un’arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura delle ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi.
È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche pressoché uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea; questi lascerebbero che tutta l’umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.

(“Anarchia”, Londra, agosto 1896)

 

Pluralismo anarchico

Tra gli anarchici vi sono i rivoluzionari, i quali credono che bisogna colla forza abbattere la forza che mantiene l’ordine presente per creare un ambiente in cui sia possibile la libera evoluzione degl’individui e delle collettività – e vi sono gli educazionisti i quali pensano che si possa arrivare alla trasformazione sociale solamente trasformando prima gl’individui per mezzo dell’educazione e della propaganda. Vi sono i partigiani della non-resistenza, o della resistenza passiva che rifuggono dalla violenza anche quando serva a respingere la violenza, e vi sono quelli che ammettono la necessità della violenza, i quali sono poi a loro volta divisi in quanto alla natura, alla portata ed ai limiti della violenza lecita. Vi sono dissensi riguardanti l’attitudine degli anarchici di fronte al movimento sindacale; dissensi sull’organizzazione, o non organizzazione, propria degli anarchici; dissensi permanenti, o occasionali, sui rapporti tra gli anarchici e gli altri partiti sovversivi.
È su queste ed altre questioni del genere che bisogna cercare d’intenderci, o se, come pare, l’intesa non è possibile, bisogna sapersi tollerare: lavorare insieme quando si è d’accordo, e quando no, lasciare che ognuno faccia come crede senza ostacolarsi l’un l’altro.
Poiché, tutto ben considerato, nessuno può essere assolutamente sicuro di avere ragione, e nessuno ha sempre ragione.

(“Pensiero e Volontà”, 1 aprile 1926)

 

L’organizzazione

Un’organizzazione anarchica deve essere fondata secondo me… (sulle seguenti basi).
Piena autonomia, piena indipendenza, e quindi piena responsabilità, degli individui e dei gruppi; accordo libero tra quelli che credono utile unirsi per cooperare ad uno scopo comune; dovere morale di mantenere gl’impegni presi e di non far nulla che contraddica al programma accettato. Su queste basi si adottano poi le forme pratiche, gli strumenti adatti per dar vita reale all’organizzazione. Quindi i gruppi, le federazioni di gruppi, le federazioni di federazioni, le riunioni, i congressi, i comitati incaricati della corrispondenza o altro. Ma tutto questo deve esser fatto liberamente, in modo da non inceppare il pensiero e l’iniziativa dei singoli, e solo per dare maggiore portata agli sforzi che, isolati, sarebbero impossibili o di poca efficacia.
Così i congressi in un’organizzazione anarchica, pur soffrendo come corpi rappresentativi di tutte le imperfezioni che ho fatto notare, sono esenti da ogni autoritarismo perché non fanno la legge, non impongono agli altri le proprie deliberazioni. Essi servono a mantenere ed aumentare i rapporti personali fra i compagni più attivi, a riassumere e fomentare gli studi programmatici sulle vie o sui mezzi di azione, a far conoscere a tutti le situazioni delle diverse regioni e l’azione che più urge in ciascuna di esse, a formulare le varie opinioni correnti tra gli anarchici e farne una specie di statistica – e le loro decisioni non sono regole obbligatorie, ma suggerimenti, consigli, proposte da sottoporre a tutti gli interessati, e non diventando impegnative ed esecutive se non per quelli che le accettano e finché le accettano. Gli organi amministrativi che essi nominano – Commissione di corrispondenza, ecc. – non hanno nessun potere direttivo, non prendono iniziative se non per conto di chi quelle iniziative sollecita ed approva e non hanno nessuna autorità per imporre le proprie vedute, che essi possono certamente sostenere e propagare come gruppi di compagni, ma non possono presentare come opinione ufficiale dell’organizzazione. Essi pubblicano le risoluzioni dei congressi e le proposte che gruppi e individui comunicano loro; e servono, per chi se ne vuol servire, a facilitare le relazioni fra i gruppi e la cooperazione tra quelli che son d’accordo sulle varie iniziative: libero chi crede di corrispondere direttamente con chi vuole, o di servirsi di altri comitati nominati da speciali aggruppamenti.
In un’organizzazione anarchica i singoli membri possono professare tutte le opinioni e usare tutte le tattiche che non sono in contraddizione coi principi accettati e non nuocciono all’attività degli altri. In tutti casi una data organizzazione dura fino a che le ragioni di unione sono superiori alle ragioni di dissenso: altrimenti si scioglie e lascia luogo ad altri aggruppamenti più omogenei.
Certo la durata, la permanenza di una organizzazione è condizione di successo nella lunga lotta che dobbiamo combattere e d’altronde è naturale che qualunque istituzione aspira, per istinto, a durare indefinitivamente. Ma la durata di una organizzazione libertaria deve essere la conseguenza dell’affinità spirituale dei suoi componenti e dell’adattabilità della sua costituzione ai continui cambiamenti delle circostanze: quando non è più capace di compiere una missione utile meglio che muoia.

(“Il Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)


Sindacalismo

Oggi la più grande forza di trasformazione sociale è il movimento operaio (movimento sindacale), e dal suo indirizzo dipende in gran parte il corso che prenderanno gli avvenimenti e la meta a cui arriverà la prossima rivoluzione. Per mezzo delle organizzazioni, fondate per la difesa dei loro interessi, i lavoratori acquistano la coscienza dell’oppressione in cui giacciono e dell’antagonismo che li divide dai loro padroni, incominciano ad aspirare ad una vita superiore, si abituano alla lotta collettiva ed alla solidarietà, e possono riuscire a conquistare quei miglioramenti che sono compatibili con la persistenza del regime capitalistico e statale. Dopo, quando il conflitto diventa insanabile, viene o la rivoluzione, o la reazione. Gli anarchici debbono riconoscere l’utilità e l’importanza del movimento sindacale, debbono favorirne lo sviluppo, e farne una delle leve della loro azione, facendo tutto quello che possono perché esso, in cooperazione colle altre forze di progresso esistenti, sbocchi in una rivoluzione sociale che porti alla soppressione delle classi, alla libertà totale, all’eguaglianza, alla pace ed alla solidarietà fra tutti gli esseri umani. Ma sarebbe una grande e letale illusione il credere, come fanno molti, che il movimento operaio possa e debba da se stesso in conseguenza della sua stessa natura, menare ad una tale rivoluzione. Al contrario, tutti i movimenti fondati sugl’interessi materiali ed immediati (e non si può fondare su altre basi un vasto movimento operaio), se manca il fermento, la spinta, l’opera concertata degli uomini d’idee, che combattono e si sacrificano in vista di un ideale avvenire, tendono fatalmente ad adattarsi alle circostanze, fomentano lo spirito di conservazione e la paura di cambiamenti in quelli che riescono ad ottenere condizioni migliori, e finiscono spesso col creare nuove classi privilegiate e servire a far sopportare e consolidare il sistema che si vorrebbe abbattere.
Di qui la necessità impellente di organizzazioni prettamente anarchiche che dentro, come fuori dei sindacati, lottino per la realizzazione integrale dell’anarchismo e cerchino di sterilizzare tutti i germi di degenerazione e di reazione.

(“Il Risveglio”, 1-15 ottobre 1927)


Compito degli anarchici, è quello di lavorare e rafforzare le coscienze rivoluzionarie tra gli organizzati e rimanere nei sindacati sempre come anarchici.
Vero che in molti casi i sindacati, per esigenze immediate, sono costretti a delle transazioni, a dei compromessi. Io non li critico per questo, ma è proprio per questa ragione che io devo riconoscere ai sindacati un’essenza riformista.
I sindacati fanno opera di affratellamento tra le masse proletarie ed eliminano i conflitti che altrimenti potrebbero prodursi tra lavoratori e lavoratori.
Mentre i sindacati debbono fare la lotta per la conquista dei benefici immediati, e del resto è giusto ed umano che i lavoratori domandino dei miglioramenti, i rivoluzionari sorpassano anche questo. Essi lottano per la rivoluzione espropriatrice del capitale e l’abbattimento dello Stato, di ogni Stato, comunque si chiami.
Poiché la schiavitù economica è frutto di quella politica, per eliminare l’una, bisogna abbattere l’altra, anche se Marx diceva l’opposto.
Perché il contadino porta il grano al padrone?
Perché vi è il gendarme ad obbligarvelo.
Quindi il sindacalismo non può essere fine a se stesso, poiché la lotta deve essere anche combattuta sul terreno politico per estinguere lo Stato.
Gli anarchici non vogliono dominare l’USI. (Unione Sindacale Italiana, organizzazione anarcosindacalista, N.d.R.); non lo vorrebbero neppure se tutti gli operai ad essa aderenti fossero anarchici, né essi intendono assumere la responsabilità delle transazioni. Noi che non vogliamo il potere, desideriamo le coscienze soltanto; sono coloro i quali desiderano dominare che preferiscono avere delle pecore per meglio guidarle.
Preferiamo degli operai intelligenti, fossero anche nostri avversari, a degli anarchici che siano tali solo per seguirci pecorilmente.
Vogliamo per tutti la libertà; vogliamo che la rivoluzione la faccia la massa per la massa.
L’uomo che pensa col proprio cervello è preferibile a quello che ciecamente approva tutto. Per questo, come anarchici, siamo per l’USI perché questa sviluppa le coscienze nella massa. Vale meglio un errore commesso con coscienza, credendo di fare bene, che una cosa buona fatta servilmente.

(“Umanità Nova”, 14 marzo 1922)


In una parola, il sindacato operaio è, per sua natura riformista e non già rivoluzionario. Il rivoluzionarismo vi deve essere immesso, sviluppato e mantenuto per l’opera costante dei rivoluzionari che agiscono fuori e dentro del suo seno, ma non può essere l’esplicazione naturale e normale della sua funzione. Al contrario, gl’interessi attuali ed immediati degli operai associati, che il sindacato ha missione di difendere, son molto spesso in opposizione colle aspirazioni ideali ed avveniristiche; ed il sindacato può fare opera rivoluzionaria solo se è pervaso dallo spirito di sacrificio e nella proporzione che l’ideale è messo al di sopra dell’interesse, cioè solo se e nella proporzione che cessa di essere sindacato economico e diventa gruppo politico e idealistico, il che non è possibile nelle grandi organizzazioni che per agire han bisogno del consentimento della massa sempre più o meno egoista, paurosa e retriva.

(“Umanità Nova”, 13 aprile 1922)


Divisione del lavoro

Noi ammettiamo certamente la divisione del lavoro e ne apprezziamo i vantaggi; ma ne conosciamo pure i danni ed i pericoli. La divisione del lavoro è stata una fra le cause dell’assoggettamento delle masse al dominio delle caste privilegiate. E col principio della divisione del lavoro si può tentare la giustificazione di tutte le mostruosità sociali: divisione tra lavoro mentale e lavoro manuale, divisione tra il lavoro di direzione e quello di esecuzione, divisione tra il lavoro di produzione e quello di difesa dei produttori… che poi si riassumono e si concretano nella divisione tra il lavoro di mangiare e quello di produrre, tra il lavoro di bastonare e quello di farsi bastonare. Menenio Agrippa conosceva già quest’argomento.
Noi crediamo che carattere essenziale, non solo dell’anarchismo ma del socialismo in genere, sia il volere che certe funzioni debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società, malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell’affidarle ad una classe speciale. Si divida pure il lavoro fino a che si può, per aumentare la produzione e facilitare il funzionamento della vita sociale: ma sian salvi innanzi tutto l’integrale sviluppo e l’eguale libertà di tutti gl’individui.

(“Agitazione”, 1897)


L’uomo della strada

Non bisogna trascurare “l’uomo della strada”, che è poi in tutti i paesi la grande maggioranza della popolazione; ma non bisogna neppure fare troppo affidamento sulla sua intelligenza e sulla sua capacità d’iniziativa.
L’uomo ordinario, “l’uomo della strada”, ha molte ottime qualità, ha immense potenzialità che danno sicura speranza ch’esso potrà un giorno formare l’umanità ideale che noi vagheggiamo; ma esso ha intanto un grave difetto che spiega in gran parte il sorgere ed il persistere delle tirannie: esso non ama pensare, ed anche nei suoi conati di emancipazione segue sempre più volentieri chi gli risparmia la fatica di pensare e prende su di sé la responsabilità di organizzare, dirigere… e comandare. Esso, purché non lo si disturbi troppo nelle sue abitudini, è soddisfatto se altri pensa per lui e gli dice quello che deve fare, anche se a lui non resta che il dovere di lavorare e di ubbidire.
Questa debolezza, questa tendenza della folla ad aspettare e seguire gli ordini di chi si mette alla sua testa, ha mandato a male tante rivoluzioni e continua ad essere il pericolo che minaccia le rivoluzioni prossime future.
Se la folla non fa da sé e subito, bisogna bene che provvedano al necessario uomini di buona volontà, capaci di iniziativa e di decisione. Ed è in questo, cioè nel modo di provvedere alle necessità urgenti, che dobbiamo distinguerci nettamente dai partiti autoritari.
Gli autoritari intendono risolvere la questione costituendosi in governo ed imponendo colla forza il loro programma. Essi possono anche essere in buona fede e credere sinceramente di fare il bene di tutti, ma in realtà, ostacolando la libera azione popolare, non riuscirebbero ad altro che a creare una nuova classe privilegiata interessata a sostenere il nuovo governo, ed in sostanza a sostituire una tirannia con un’altra.
Gli anarchici devono bensì sforzarsi di rendere il meno faticoso possibile il passaggio dallo stato di servitù a quello di libertà, fornendo al pubblico il più possibile di idee pratiche ed immediatamente applicabili, ma debbono guardarsi bene dall’incoraggiare quell’inerzia intellettuale e quella tendenza a lasciare fare agli altri ed ubbidire, che abbiamo lamentate.
La rivoluzione, per riuscire veramente emancipatrice, dovrà svolgersi liberamente in mille modi diversi, corrispondenti alle mille diverse condizioni morali e materiali degli uomini d’oggi, per la libera iniziativa di tutti e di ciascuno. E noi dovremo suggerire e realizzare il più possibile quei modi di vita che meglio corrispondono ai nostri ideali, ma soprattutto dobbiamo sforzarci di suscitare nelle masse lo spirito di iniziativa e l’abitudine di fare da sé.
Noi dobbiamo evitare anche le apparenze del comando, ed agire colla parola e con l’esempio come compagni tra compagni; e ricordarci che a voler troppo forzare le cose nel senso nostro e far trionfare i nostri piani; correremmo il rischio di tarpare le ali alla rivoluzione ed assumere noi stessi, più o meno inconsciamente, quella funzione di governo, che tanto deprechiamo negli altri.
E come governo noi non varremmo certamente meglio degli altri. Forse anche saremmo più pericolosi per la libertà, perché convinti fortemente di aver ragione e di fare il bene, saremmo inclinati, da veri fanatici, a considerare quali controrivoluzionari e nemici del bene tutti quelli che non pensassero ed agissero come noi.
Ché se poi quello che gli altri fanno non fosse quello che vorremmo noi, la cosa non avrebbe importanza, sempreché fosse salvaguardata la libertà di tutti.
Ciò che veramente importa è che la gente faccia come vuole, perché non vi sono conquiste assicurate se non quelle che il popolo fa coi propri sforzi, non vi sono riforme definitive se non quelle reclamate ed imposte dalla coscienza popolare.

(“Almanacco libertario”, Ginevra, 1931)


La tattica elettorale

Il terreno comune su cui si incontrarono i borghesi, che cercavano di corrompere, e quei socialisti, che cercavano di essere corrotti, fu l’urna elettorale. Né il danno sarebbe stato grande. Ma i traditori, gli ambiziosi e gli stanchi riuscirono purtroppo a trascinare all’urna molti buoni, che credevano sinceramente di acquistare una nuova arma di lotta contro la borghesia, e di avvicinare con quel mezzo l’avvenimento della rivoluzione.
Naturalmente per mascherare la manovra il passaggio si fece a gradi.
Al principio non si infirmò nessuna delle conclusioni acquisite al programma socialista. L’espropriazione per mezzo della rivoluzione, si andava ripetendo, è l’unico mezzo per emanciparsi: il suffragio universale, la repubblica e tutte quante le riforme politiche lasciano il tempo che trovano e non sono che tranelli tesi all’ingenuità popolare. Però, s’insinuava dolcemente, qualche bene se ne può cavare: profittiamo di tutto, serviamoci come armi delle concessioni che possiamo strappare, al nemico, allarghiamo il nostro campo di azione, cessiamo dal roderci nella nostra impotenza, siamo pratici. E tosto si mise avanti il progetto di andare all’urna, scopo a cui tendeva ed in cui si riduceva tutto quel preteso allargamento di tattica. Ma siccome non s’osava ancora rinnegare tutto il detto sulla inutilità della lotta elettorale e sull’azione corruttrice dell’ambiente parlamentare, si disse che bisognava votare semplicemente per contarsi, quasi che fosse necessario andare all’urna e farsi contare dal nemico per giudicare dei progressi del partito. E per affettare scrupolosità si parlò di votare un bollettino in bianco, o per dei morti o per degli ineleggibili. Poi, senza aver l’aria di nulla, i morti diventarono vivi e gl’ineleggibili si trasformarono in persone che al parlamento potevano e volevano andarci e restarci. Ma non si osava confessarlo: si trattava sempre di candidature di protesta: gli eletti non entrerebbero in parlamento, rifiuterebbero il giuramento là dove era richiesto, o c’entrerebbero per sputare in faccia alla borghesia la infamia sua, e farsi scacciare come nemico che non transige. Poi nemmeno più questo. In parlamento bisognava andarci per profittare della tribuna parlamentare, per iscoprire e denunciare al popolo i dietro scena della politica, per avere dei posti avanzati nel campo nemico, dei posti presi nella cittadella borghese.
Il deputato socialista non doveva essere legislatore, non doveva aver nessun legame coi deputati della borghesia, ma stare in parlamento come spettro minaccioso della rivoluzione sociale in mezzo a coloro che vivono dei sudori e del sangue del popolo.
Ma che!… oramai si stava sulla china e bisognava andare fino in fondo. Il partito rivoluzionario, che entrava in parlamento, doveva diventar riformista, e lo diventò.
L’emancipazione integrale, cominciarono a dire, è una bella cosa, ma è come il paradiso: una cosa lontana lontana e che nessuno ha mai visto. Il popolo ha bisogno di miglioramenti immediati. Meglio poco che nulla. La rivoluzione sarà tanto più facile quanto più concessioni ci saranno strappate alla borghesia. Senza contar quelli, pochi, del resto, che hanno saltato il fosso affermando che si può raggiungere lo scopo per evoluzione pacifica.
E s’invocò la scienza, quella povera scienza che s’accomoda a tutte le salse, per sofisticare all’infinito sul tema evoluzione e rivoluzione; quasiché vi fosse alcuno che neghi l’evoluzione, e la questione non fosse piuttosto sulla specie di evoluzione, che più corrisponde al fine socialista – e che quindi i socialisti devono propugnare.

(1890-91)


Masse e rivoluzione

È completamente erroneo che per abbattere il capitalismo bisogna aspettare che i milioni di cattolici siano diventati liberi pensatori, e che gli operai siano tutti (o in maggioranza) organizzati per la lotta di classe.
Non equivochiamo. È una verità assiomatica, lapalissiana, che la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.
I cattolici resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e di scienza, interessata a tenere la massa nella schiavitù intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di tutte le crisi per mettere gli operai in concorrenza gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno sempre montoni per definizione anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.
È cosa provata che date certe condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie a cui la massa è soggetta, agisce come fermento storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo.
Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.
Naturalmente il “piccolo numero”, la minoranza, deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.
Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in quattro gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed i nostri tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.
Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda: ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo credere il frutto maturo quando ancora è acerbo; ma confessiamo la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto contro quegli altri che vogliono sempre aspettare, che lasciano di proposito passare le migliori occasioni e, per paura di cogliere un frutto acerbo lasciano tutto marcire.
Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con “La Giustizia” quando insiste sulla necessità di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le organizzazioni proletarie di lotta; ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di avere attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.

(“Umanità Nova”, 6 ottobre 1921)

 

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