Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

La provocazione permanente di Serge Gainsbourg

Prima parte – La tela di Penelope (1958-1978)


Serge Gainsbourg fu forse il più grande provocatore della canzone francese, uno spirito critico finissimo, un talento melodico eccezionale, un versificatore di grande preziosismo.
Affrontiamo però con lui, per la prima volta in questi nostri ritrattini, un personaggio assolutamente indifferente, anche se certo non ostile, alle rivendicazioni sociali che ci sono care.

Le parole sono usurate
Ci si vede attraverso
E l’ombra degli anni morti
Ghermisce il vocabolario
Portami per mano fuori dai luoghi comuni
E allontanami dall’idea
Che non puoi esprimerti
Che per clichés.
(Le parole inutili, 1955)

Gainsbourg fu un convincente dandy del secondo novecento e la sua provocazione si situa tutta nella forma e non certo nei contenuti. Un esteta stravolto e terribilmente critico, un seminatore di equivoci demistificanti, forse l’unico geniale teologo e officiante di una pop-art musicale, che è – di suo – una critica alla caducità dei linguaggi, alle mode effimere che passano per l’etere radiofonico, al vuoto di sostanza che tutto inghiotte in questo breve spazio, impastato di moltissimo fumo e pochissimo arrosto, che noi attraversiamo con la burbanza dei conquistatori del tempo e del mondo. Attenzione però: se si parla di spirito critico in Gainsbourg non è certo per sottolineare la presunzione di un “qualcosa di meglio” da cercare, in cui certamente lui non confidava sotto nessun punto di vista. Con i mezzi che ebbe a disposizione, coi talenti che possedeva copiosi, fece e disfece costantemente la tela di Penolepe su cui i suoi contemporanei si affannavano a proiettare rutilanti scene di varietà, proprio perché, alla fine, tutta l’angoscia non solo evocata, ma proprio costantemente esplorata, tutto travolgesse, sé per primo.

Le mie illusioni affacciano sul cortile
Ho messo una croce sui miei amori
E quand’ho finito le mie otto ore
Non mi restano per sognare
Che i fiori orribili della carta da parati.
(L’alcol, 1958)

Serge Gainsbourg

Lucien, detto Serge, Ginzburg nacque da genitori ebrei russi fuggiti dalla rivoluzione, il padre era un pianista di formazione classica, costretto, nelle ristrettezze dell’emigrazione, a doversi riconvertire in fantasista della tastiera, ne serbò per sempre una frustrazione alla quale reagì educando solidamente i figli alla grande scuola del virtuosismo rachmaninoviano.
Serge però all’inizio pareva più interessato alla pittura che alla musica, e fu solo per sbarcare il lunario che cominciò a fare il pianista nei night. La vita prende volentieri strade proprie e così sempre più egli accantonò il sognato destino di pittore per avvicinarsi a quello di cantautore.

Vedo i miei occhi riflessi nei tuoi occhi, che fortuna per te!
Ti danno dei bagliori di intelligenza
Che importa il tempo
Che porta via il vento
Meglio la tua assenza
Della tua incoerenza.
(Indifferente, 1959)

“Su, lettori all’ascolto, sempre pronti ad abbaiare contro, contro le false canzoni e i falsi della canzone, tirate fuori due sacchi dalle tasche e correte a compararvi questo disco (…). È il primo 33 giri di uno strano individuo che si chiama Gainsbourg Serge ed è nato a Parigi il 2 aprile 1928.” così comincia il grande attestato di stima che il nostro ricevette all’uscita del suo primo disco nel 1958, e lo firmava nientepopodimeno che Boris Vian! Il nostro caro disertore, proprio sul finire della sua breve vita, prese infatti una cotta tremenda per quest’esordiente impeccabilmente jazzoso e dalle rime raffinatissime, che popolava il suo mondo di controllori del metrò che sognavano il suicidio per evadere dal proprio “cielo di piastrelle/dove non vedo brillare che le corrispondenze”, da “ragazza di strada” che “masticano il chewing gum durante l’amore”, e da canzoni d’amore singolari come quella che esordisce “questa noia mortale/che mi prende quando sono con te” e che prosegue “certo non c’è bisogno di dire niente in orizzontale/ma non si trova niente da dirsi in verticale/allora per ammazzare il tempo/fra l’amore e l’amore/prendo il giornale e la penna/e riempio le A e le O”.
Se consideriamo che a casa nostra proprio quell’anno cominciava la rivoluzione di Modugno col suo Volare, ci rendiamo conto di quale diverso livello di modernità e audacia potesse rappresentare l’elaborazione di tale linguaggio e temi.

Meglio non pensare a niente
Che non pensare affatto
Niente è già
Niente è già parecchio
Ci si ricorda di niente
E dal momento che si dimentica tutto
Niente è molto meglio che tutto.
(I piccoli niente, 1964)

Sin da questi primi colpi che mette a segno Gainsbourg non si abbandona a nessuna retorica, nemmeno a quella dei perdenti, non vi è nessuna vena protestataria: la sua sconfitta si situa a priori: essere è un male per cui la redenzione non è contemplata in alcuna maniera.
L’erotomania da cui l’autore è perennemente squassato non è nemmeno lei il barlume di una presunta forza vitale residua, ma un ballo di San Vito, un’agitazione senza scopo, che non dà alcuna possibilità di affermazione esistenziale “l’amour physique est sans issue” (“l’amore fisico è senza speranza”) dirà dieci anni dopo nel suo pezzo più conosciuto in Italia, quel Je t’aime, moi non plus (1968) che vendette molti milioni di copie anche nel nostro Paese, e che, assurdamente considerato un pezzo eccitante, è in realtà un inno alla ripetitiva vacuità dell’atto sessuale.

Una notte che ero
Ad annoiarmi
In qualche pub inglese
Del cuore di Londra
Scorrendo “l’amore mostro”
Di Pauwels
Ebbi una visione
Nell’acqua di selz.
(Initials B.B., 1968)

Gli anni intanto passavano, gli attributi di stima crescevano, ma le vendite dei suoi dischi rimanevano risibili, giusto qualche successo glielo concedevano interpreti quali ad esempio Juliette Greco con Accordéon.
Fu a metà dei sessanta che Serge ebbe l’intuizione di cominciare a scrivere per i cantanti ye-ye, proprio quelli che stavano decretando la crisi della grande stagione della canzone poetica in Francia, lui, fedele alla consegna di distruggere con eleganza, cominciò una carriera di autore di successi per l’estate di cui fino alla morte sarebbe stato il più generoso dispensatore. “Queste canzonette mistificatrici sono bombe a scoppio ritardato, e il pubblico, prendendoci finalmente gusto, permette al loro autore di continuare a distillare il suo veleno. (…) Il suo tentativo è mistificatorio e demistificante al contempo, tanto più originale perché si situa al livello della materia prima: la canzone stessa e non quel che dice. Egli spezza le strutture linguistiche, le ristruttura, fa breccia nei muri che separano i generi musicali (…) usa le parole per strappar loro la maschera… Il suo messaggio è un anti-messaggio, l’amore è sempre e solo erotismo. Dietro la maschera, il vuoto. Così la sensibilità dell’autore ai feticci delle mode è al contempo causa e effetto dell’efficacia delle sue opere. Anglismi, misoginia e culto della donna-oggetto, jazz e ritmi alla moda lo trasportano. Solo il suo rapporto fondamentalmente sensuale con la lingua lo mantiene in uno status di vitalità, per il resto non si può sperare in alcuna sintesi” (così il grande studioso di canzone J. C. Calvet).

Il sole è raro
E la felicità pure
L’amore si perde
Lontano dalla vita.
(Valse de Melody, 1971)

Serge Gainsbourg

Mentre dunque le varie Fance Gall (la Rita Pavone francese), Petula Clark, Régine, nutrivano il suo principesco conto in banca, sbancando al botteghino, Serge scriveva per sé opere formalmente rivoluzionarie e artisticamente strepitose quali L’Histoire de Melodie Nelson e L’homme à la tete de choux, due veri romanzi discografici, che percorrono fra momenti narrativi e lirici, una storia precisa, anche se molto tinta di un surrealismo decadente, o anche Vu de l’exterieur, album a tema sulla donna oggetto, quintessenza del dandismo sadico dell’autore.
Uno dei suoi lavori più indecifrabili resta però Rock around the bunker, un intero album sul nazismo e la persecuzione antiebraica; ribadiamo che Serge era di famiglia ebrea piuttosto praticante, anche se personalmente ateo; durante l’occupazione nazista aveva una dozzina d’anni e aveva personalmente portato la stella gialla cucita addosso, la sua famiglia e lui avevano dunque sfiorato la morte, eppure neanche i ricordi personali gli evitano di licenziare uno strano disco dove dei testi di un humour nero devastante si accompagnano a un sound che cita filologicamente il rock anni cinquanta, quello di Bill Haley e del primo Elvis, forse la forma più volutamente leggera e inconsistente, la musica antintellettuale per antonomasia. Ancora una volta, e sul tema più pesante di vergogna e di sangue per definizione, Gainsbourg offre una percezione totalmente straniante del reale, riduce in scioglilingua alla ventiquattromila baci i più trucidi slogan nazisti, agghiaccia l’ascoltatore, non lasciando spazio per alcuna commozione liberatoria, quando mette in bocca a un bambino (che poteva essere lui stesso): “ho vinto la yellow star/e porto la yellow star/difficile per un ebreo/la legge dello struggle for life”.
Il genio di Gainsbourg appare però, qui come nel resto della sua opera, potentissimo perché dietro il paravento di tutto questo nulla, di questa tragica sfiducia nelle possibilità della comunicazione, nell’irrisione di ogni intenzione di condividere un qualsivoglia sentimento, si intravedono i fantasmi terribili che popolano la vita dell’autore.

Dio è un fumatore di avana
Vedo le sue nubi grigie
E so che fuma anche di notte
Come me, mia cara
Dio è un fumatore di avana
È lui stesso che m’ha detto
Che il fumo porta in paradiso
Lo so, mia cara.
(Dio fumatore di avana, 1978)

Questi fantasmi prendevano sempre più piede, man mano che andava avanti il suo alcolismo (la sua prima colazione era composta da un cocktail di champagne e vodka), l’intossicazione da nicotina (al ritmo di cinque pacchetti al giorno), la tragica insonnia che lo portava a percorrere le strade della Parigi notturna per parlare con gli spazzini, i commissariati di polizia dove discuteva con la triste umanità di prostitute, ladruncoli e spacciatori che li popola. Questi fantasmi che, dopo aver dominato i deliranti anni che gli restavano da vivere, e di cui parleremo il mese prossimo, se lo divorarono.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

(la seconda parte sarà pubblicata su “A” 301)