Rivista Anarchica Online


Iraq

Un nodo scorsoio
di Antonio Cardella

 

Sull’improvvisazione della corte dei miracoli berlusconiana.

Mentre scrivo è ancora incerta la sorte degli ostaggi italiani in mano alla guerriglia irachena. Ma qualunque sia l’esito della vicenda occorre fare alcune considerazioni che riguardano aspetti scarsamente indagati dai commentatori politici di casa nostra, troppo occupati a sottolineare la brutalità barbarica dei sequestratori esercitata nei riguardi di poveri immigrati in cerca di lavoro. Releghiamo, quindi, in un canto i quintali di melassa patriottarda versati su questa vicenda, affermando però con chiarezza e preliminarmente che non abbiamo alcuna simpatia per i soldati di ventura, la cui sorte, quale che sia, è inclusa nel prezzo di ingaggio.
Dunque la situazione è la seguente. Il 9 di aprile un commando di incerta natura intercetta quattro italiani armati che viaggiano in direzione del confine giordano, li cattura, manda la loro fotografia ad
Al Jazeera e, quasi subito, per ragioni che sono tuttavia oscure, ne uccide uno, Quattrocchi. Anche dell’esecuzione i sequestratori mandano un filmato all’emittente araba che, per ragioni poco credibili, l’emittente non diffonde. Passano alcuni giorni e un nuovo filmato arriva questa volta ad Al Arabja, nel quale i tre superstiti appaiano seduti a terra, alla maniera araba, dinanzi ad un basso tavolo imbandito. Si vede subito che i tre mangiano assai di malavoglia, ma il particolare che colpisce è che, al contrario del primo filmato, il luogo di segregazione appare molto più ospitale: la stanza è pulita con cura e gli italiani indossano linde tuniche bianche. È chiaro che gli ostaggi sono stati passati di mano, verosimilmente ad altra struttura della resistenza, in grado di gestirne politicamente la sorte.

Consenso vile

E, infatti, arrivano presto le condizioni del rilascio. Oltre ad aiuti umanitari, che, del resto, la Croce Rossa aveva già faticosamente e perigliosamente cominciato a distribuire alla popolazione di Falluja esausta per l’assedio delle truppe americane, i sequestratori chiedono che l’Italia organizzi una grande manifestazione popolare a sostegno della lotta del popolo iracheno, da tenersi nella capitale, entro cinque giorni dalla data della richiesta. Come tutti sappiamo, il raduno, per iniziativa delle famiglie degli ostaggi, ma col consenso tacito (e molto vile) del governo ed esplicito dell’opposizione, si tiene, come richiesto, a Roma il 29 di aprile e si conclude con un messaggio del Papa a Piazza San Pietro. Sembra, a questo punto, che il calvario degli ostaggi possa aver termine, ma non è così perché la Falange verde di Maometto, così si autodefinisce il gruppo che detiene gli ostaggi, alza il tiro e chiede che il governo italiano intervenga presso i curdi del Kurdistan perché rilascino i prigionieri iracheni nelle loro mani, lasciando intendere che, nel frattempo, lo stato giuridico (?) degli ostaggi è cambiato: adesso non corrono più il rischio di essere giustiziati e saranno tenuti in buona salute sempre che continui la disponibilità del governo italiano a rispondere positivamente alle sollecitazioni.
Quelli che sono in mano agli americani nel settore amministrato dai curdi non sono detenuti qualunque; sono, nella maggior parte, guerriglieri di Ansar al Islam, formazione che si ritiene vicina ad Osama Bin Laden. Quindi non si tratta più – adesso è certo, anche se appariva assai probabile sin dal primo messaggio dei sequestratori – di intavolare una trattativa diplomatica con il pagamento di un riscatto e qualche blanda concessione alla visibilità della guerriglia, ma di una vera e propria richiesta di intervento politico che mira ad influire sulla gestione stessa della guerra, ponendo in grande difficoltà la coalizione degli occupanti, ai quali viene affidato il fiammifero acceso della sorte degli ostaggi italiani.
Mentre scrivo, lo ripeto, non è ipotizzabile l’evoluzione di questa aggrovigliata vicenda, ma, quale che essa sia, non può eludere una domanda che sin qui pochi si sono posti: perché questa sorte è toccata proprio agli italiani? La guerriglia ha avuto nelle sue mani stranieri provenienti da ogni latitudine: francesi, canadesi, danesi e persino cinesi, coreani e giapponesi, per non parlare degli americani. Allora perché caricare di valenze politiche così complessive la sorte di quattro italiani sconosciuti, vigilantes, come tanti altri, al servizio delle industrie americane?

Guerra dissennata

La risposta non è facile. Scartiamo subito l’ipotesi poco credibile che i nostri connazionali appartenessero ai servizi segreti: il Sismi ed il governo lo hanno escluso e, a conferma, parlano i curricula personali, e le stesse modalità d’ingaggio che li hanno portati in Iraq. Allora? Proviamo a ragionare. La dissennatezza di questa guerra è ormai palese alle stesse potenze che l’hanno scatenata. Malgrado le dichiarazioni spesso deliranti di Bush, di Blair e del caricaturale Berlusconi, il quale, in tutta evidenza, quando parla di queste cose, non sa di cosa parla, la verità che balza subito agli occhi è che nessuno sa ancora come uscire dal ginepraio. Per di più cominciano le defezioni, quella della Spagna di Zapatero in primis, ma anche quelle parziali annunciate da polacchi, coreani e giapponesi. Dell’ONU non si può tener conto perché, come abbiamo già avuto modo di osservare, non possiede né la credibilità politica né le risorse necessarie per intervenire. La missione del suo ultimo inviato, Brahim, ha partorito la proposta di una nuova risoluzione che mortifica ulteriormente il ruolo delle Nazioni Unite, chiamate, in pratica a contribuire a pagare i costi della guerra senza ricoprire, nel futuro iracheno, alcun ruolo, né militare né amministrativo che non sia subordinato alla volontà e alla supervisione della Casa Bianca. A queste condizioni, ammesso che Kofi Annan giunga a proporla al Consiglio di Sicurezza, è assai improbabile che Russia, Cina, Francia, Germania e Spagna la lascino passare. Questo per quel che riguarda la eventuale mediazione dell’ONU, nel caso che decida di tentarla. Per di più le opinioni pubbliche degli stessi paesi che formano la coalizione sono nella stragrande maggioranza contrarie a continuare la sconsiderata avventura irachena e gli stessi americani, anche se sempre obnubilati dallo spirito della conquista, non sono più tanto sicuri dell’esito finale della guerra e osservano costernati la lunga teoria delle bare imbandierate che attraversano le loro strade e le immagini scioccanti delle torture che i loro concittadini in armi infliggono ai prigionieri di guerra iracheni, immagini impietosamente riproposte dalle emittenti televisive. In questo contesto, il calcolo politico della guerriglia irachena è manifestamente quello di forzare l’anello debole dell’alleanza già così provata. L’Italia di Berlusconi è ormai una corte dei miracoli che ha perduto ogni orientamento e affronta le emergenze con l’improvvisazione, il più delle volte rozza e pressappochista, di chi è privo della benché minima cultura politica e di una riconoscibile tensione morale. Vedere la “più grande potenza, dopo l’Inghilterra, alleata e amica dell’America di Bush” – come ha proclamato in uno dei suoi soliti vaniloqui il nostro primo ministro – supplicare i partner perché non l’abbandonino in una emergenza così angosciante, dev’essere apparso agli accorti mujahiddin spettacolo così poco edificante da incrinare ulteriormente il fronte della guerra ad ogni costo.

Il Berlusconi intrappolato

Così Berlusconi è intrappolato in una ragnatela tipicamente mediorientale. Se lascia morire i suoi connazionali senza intervenire presso gli alleati – come sarebbe tentato di fare se si dà credito al suo cinismo di fondo – la sua immagine, già precaria, subirebbe il tracollo definitivo. Se, invece, intervenisse senza ottenere risultati apprezzabili (il che è quasi certo perché è impensabile che la vicenda di tre soldati di ventura possa modificare gli indirizzi della presunta guerra al terrorismo), l’intero governo italiano e il suo tronfio primo ministro sarebbero unanimemente designati come gli unici responsabili del cattivo esito della trattativa. Con le elezioni europee alle porte, per il centrodestra sarebbe la catastrofe. E a quel punto il ritiro del contingente italiano dall’Iraq sarebbe evento inevitabile. Come si vede, il calcolo che traspare dall’impianto strategico del sequestro – se non prendiamo un abbaglio – è molto preciso e lascia pochi margini per le vie di fuga. Certo potrebbero esserci pressioni dell’ala moderata dei sunniti, il cui Consiglio degli Ulema si è già speso per la liberazione degli ostaggi, a indurre i sequestratori a non spingersi troppo oltre; ma occorrerà in questo caso un’alternativa che non appaia come un cedimento senza contropartita adeguata. Può darsi anche che gli americani si chiamino fuori dalla trattativa e lascino mano libera ai curdi, che non sono belligeranti e hanno ottenuto l’amministrazione del territorio che occupano al nord del tormentato paese: ma pare che i curdi da questo orecchio non ci sentano. Infine c’è l’opzione militare: un colpo di mano dei corpi speciali italiani che individuino il nascondiglio dove gli ostaggi sono tenuti segregati e tentino di liberarli manu militare. Operazione rischiosa, sia per la sopravvivenza dei reclusi, sia per l’ulteriore deterioramento dell’immagine delle truppe italiane che operano nel paese mediorientale.
Tutto comunque è possibile, ma è assai difficile che il governo italiano esca indenne dal nodo scorsoio che gli si stringe attorno al collo.

Antonio Cardella