Rivista Anarchica Online


guerra

Pacifisti con l’elmetto
di Maria Matteo

 

Un anno dopo la sinistra si ritrova divisa sulla guerra in Iraq.

Un anno fa iniziava la seconda guerra del Golfo. Un mare di fuoco si abbatté sulle città ed i villaggi iracheni già stremati da oltre un decennio di embargo e conflitto a «bassa intensità».
Oggi sappiamo con certezza che le «armi di distruzione di massa», il cui presunto possesso è stato il pretesto per scatenare l’inferno sull’Iraq, non esistevano. Saddam Hussein, un tempo fedele alleato degli Stati Uniti nel confronto «freddo» con l’URSS e in quello «caldo» con l’Iran, è stato catturato e mostrato al mondo come un trofeo di guerra. Le condizioni della popolazione irachena sono anche peggiori di quelle in cui versava un anno fa: disoccupazione, salari da fame, repressione sanguinosa di ogni forma di protesta fanno da contrappunto ad una situazione disastrosa per la sanità, la scuola, le strade, la rete elettrica e quella idrica. E la guerra, quella combattuta con le armi, non è mai finita, perché quotidiani sono gli attacchi della guerriglia contro le forze di occupazione e contro tutti coloro che accettano per necessità o per convinzione di collaborare con l’amministrazione guidata dal governatore americano Paul Bremer. Gli italiani, per parte loro, si accingono ad incassare il premio fedeltà alla coalizione angloamericana: il governo della provincia meridionale di Dhi Qar verrà affidato a Barbara Contini, mentre i capitalisti nostrani cercano di raccogliere le briciole lasciate sul tavolo dal convitato di Oltreoceano.

Pantomima parlamentare

Nel nostro paese la primavera è iniziata all’insegna della pantomima parlamentare sul rifinanziamento delle «missioni» italiane all’estero. Con un termine preso a prestito dalla più bellicosa delle imprese del cattolicesimo d’assalto, la «missione» tra gli infedeli, al Senato ed alla Camera si è discusso e deliberato in merito allo stanziamento di fondi per i militari italiani presenti in varie aree «calde» del pianeta. In genere, tanto per intenderci, si tratta di quei posti dove in modo diretto o indiretto si era portata la guerra. Dalla Bosnia al Kossovo, dall’Afganistan all’Iraq.
La sinistra in triciclo, e, qualche volta, anche in bicicletta ha scelto di non partecipare al voto. Un bell’Aventino pacifista? Nulla di tutto questo. Fassino, Rutelli e soci dividono le missioni in buone (quelle intraprese da loro) e cattive (quelle volute da Berlusconi). Un limpido esempio di coerenza, in un paese dove il gusto per i giochetti verbali, per le acrobazie dialettiche, per le metafore impossibili copre il vuoto politico di un ambito istituzionale, che a destra non meno che a sinistra, mira unicamente a disegnare per l’Italia un ruolo da comprimario nella politica imperialista del colosso statunitense.
L’unica difficoltà consiste nel far digerire il boccone a gente abituata a considerare la guerra un male assoluto. In questi anni l’armamentario dell’inventiva italica ha tirato fuori dal cappello, l’operazione di polizia internazionale (prima guerra del Golfo), l’intervento umanitario (guerra per il Kossovo), la lotta contro il terrorismo (guerra afgana), la guerra preventiva (secondo conflitto nel Golfo). Il paradigma si è modificato a seconda delle esigenze del momento ma il risultato è stato sempre lo stesso: mascherare i bombardamenti, le uccisioni di massa, l’occupazione del territorio, la cancellazione di qualunque forma di diritto internazionale, dietro una cortina fumogena che nascondesse, distorcendole, le mostruosità intraprese dai democratici governi dell’occidente libero e capitalista.
L’operazione mimetica, in parte riuscita con la guerra per il Kossovo e con quella afgana, è risultata più difficile da condurre in porto nel recente conflitto iracheno.
Nel marzo dello scorso anno, allo scoppio della guerra, dopo mesi di opposizione preventiva, milioni e milioni di persone manifestarono in tutto il mondo. Contro la guerra. Senza se e senza ma. Poi, lentamente, la protesta rifluì: milioni di persone in piazza potevano poco o nulla contro la potenza dispiegata delle armi. Il rifiuto etico della guerra, non sapendosi tradurre in azione quotidiana contro le radici materiali del conflitto, è risultato ineffettuale nonostante la straordinaria mobilitazione emotiva che attraversò l’opinione pubblica dei paesi coinvolti nell’avventura militare di Bush II, l’erede stupido e feroce di una dinastia di petrolieri guerrafondai.
Nel belpaese i bombardieri in salsa ulivista/prodiana un anno fa affiancarono la causa pacifista ma oggi, di fronte all’imminente scadenza elettorale, hanno bisogno di raccogliere consensi anche nelle aree moderate, intossicate di nazionalismo tricolore dopo i morti di Nassiriya.
Così il paradosso del «non voto» sulle «missioni» militari all’estero si rivela per quello che è: il solito pasticcio all’italiana. Il centro sinistra cerca di accreditarsi presso i nazionalisti nostrani come opposizione responsabile e matura, disponibile alle avventure militari ma con prudenza; nel contempo strizza l’occhio ai pacifisti, avvolgendosi nelle bandiere arcobaleno.
Ma le bandiere, come certe coperte, sono spesso troppo corte: se le si tira da una parte ne lasciano scoperta un’altra. Il gioco è sporco e sin troppo evidente. Un gioco che rivela come sempre più esili siano le differenze tra governo ed opposizione, un gioco che rimanda la palla nell’unico campo in cui può essere giocata: quello dell’azione diretta, dell’opposizione non ad un governo, ma a tutti i governi, non ad un esercito ma a tutti gli eserciti.
Gli anarchici scesero in piazza un anno fa gridando uno slogan che si diffuse rapidamente: «sabbia e non olio nel motore del militarismo».
L’auspicio è che le grandi manifestazioni, in occasione di questo primo anniversario di guerra, diano impulso ad un’opposizione al conflitto che sappia farsi pratica antimilitarista quotidiana.

Maria Matteo

Desaparecidos made in USA
Si chiama José Padilla. Di lui non si sa più nulla. È stato inghiottito da una prigione militare statunitense nella quale non gode neppure dell’assistenza di un avvocato. Padilla è cittadino statunitense: arrestato a Chicago perché sospettato dell’intenzione di colpire il territorio degli States con una bomba atomica «sporca», è stato imprigionato, dichiarato «nemico combattente» e privato di ogni diritto alla difesa. Nel suo caso – ma non è il solo – ad un cittadino americano viene tolta, nei fatti, la cittadinanza e l’accesso ad ogni forma di tutela.
Conosciamo la storia di Padilla perché i famigliari hanno segnalato la sua vicenda e si battono per lui. Ma è difficile quantificare il numero esatto dei desaparecidos americani: migranti gettati in galera e poi espulsi verso paesi in cui la tortura è sport nazionale, oppure rinchiusi in località segrete senza alcun contatto con l’esterno.
In nome della lotta al terrorismo l’amministrazione statunitense ha inventato una zona d’ombra del diritto, un non luogo in cui vengono ingoiate migliaia di persone. I combattenti afgani, deportati e detenuti a Guantanamo in condizioni disumane, non godono dello statuto di prigionieri di guerra e neppure di quello di detenuti in attesa di giudizio. Sono nemici assoluti, il cui destino è deciso dall’arbitrio del momento.

Nella morsa dell’occupazione e della povertà
Il mestiere meglio pagato e più odiato in Iraq è quello dell’informatore, della spia prezzolata per segnalare agli occupanti i membri della resistenza. Poco importa se l’informatore «sbaglia» o si lascia andare a vendette personali.
Nel villaggio di Dhuluhwya, sulle rive del Tigri, una fiorente coltivazione di palme da dattero dava da vivere a circa 400 famiglie. In seguito alla spiata, rivelatasi poi falsa, della presenza di uomini in armi tra gli alberi, gli americani hanno sradicato tutte le piante. Constatato l’«errore» hanno promesso un risarcimento in denaro ovviamente mai arrivato. Ad un uomo, oppositore del regime di Saddam, uscito dal carcere dopo 11 anni di detenzione, è stata distrutta la casa dopo che uno dei tanti delatori l’aveva indicato agli americani.
La vita quotidiana, segnata dalle perquisizioni continue delle case dove i militari entrano, distruggono e depredano, è stretta nella morsa della povertà e della malattia.
A Baghdad migliaia di persone vivono nella discarica e «della» discarica: frugano nell’immondizia alla ricerca di qualcosa di commestibile o vendibile, i bambini non vanno né mai andranno in una delle scuole diroccate ancora funzionanti in alcune zone.

Stupri in divisa
Le cifre esatte non sono note. Sull’argomento l’amministrazione americana tace o minimizza. I casi sinora denunciati sarebbero circa 120 ma è probabile che siano molte di più le donne soldato americane vittime di stupri da parte di loro commilitoni.
D. aveva appena terminato il proprio turno di guardia, quando nei pressi delle docce è stata aggredita alla spalle da un militare americano della sua stessa base, tramortita a pugni e poi violentata. Trovata insanguinata e lacera da un altro soldato, dopo una lunga degenza in ospedale, è stata rimpatriata. Nessuna vera indagine è mai stata compiuta da parte dell’US Army che, anzi, accusa la donna di simulare prostrazione psichica per sottrarsi al sevizio attivo in territorio di guerra.
Un segno ulteriore, se mai ve ne fosse bisogno, della bestialità della guerra e di chi la fa, capace persino di investire i più deboli nel campo dei vincitori.

Crimini di guerra
In Italia non le avete viste e, forse, non le vedrete mai. Sono immagini trasmesse in prima serata dalla TV pubblica tedesca che mostrano, in due distinti episodi, soldati americani colpire a morte militari iracheni feriti ed ormai non più in grado di difendersi. La stampa di sinistra, che ha diffuso la notizia nel nostro Paese, ha parlato di crimini di guerra. I fatti diffusi dalla televisione tedesca sono indubbiamente efferati, tuttavia la denominazione «crimini di guerra» allude ad una dimensione etica del conflitto armato che ne occulta la natura intimamente feroce. Criminali non sono «alcuni» soldati ma tutti gli eserciti: non ci sono criminali di guerra perché le guerre sono sempre criminali.

M.M.