Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

Il nome del rivoluzionario

 

La legge del 6 fruttidoro, anno II, vietava di portare «nomi e prenomi diversi da quelli segnati nell’atto di nascita». Per i contravventori c’erano sei mesi di prigione e una multa pari a un quarto del reddito.
François-Noel Babeuf (1760-1797) era uno che se le andava a cercare. Prima ancora della rivoluzione disegnava riforme della proprietà che le autorità si guardavano bene dal prendere in considerazione. E durante la rivoluzione – comunista della prima ora, «ugualitarista» radicale, sempre pronto a bacchettare furbi e furbastri, incorruttibile fustigatore dei «rivoluzionari» da salotto e dei politicanti – rompe l’anima non poco. Da un primo arresto se la cava grazie ad un intervento di Marat; dall’ultimo, dopo aver costituito perfino un «Direttorio Segreto» ed esser stato denunciato dal solito provocatore a carico, non lo salva nessuno e finisce sotto la ghigliottina.
Possedendo solo gli occhi per piangere, tuttavia, Babeuf aveva un suo giornale, il «Journal de la liberté de la presse» cui, dal ventitreesimo numero, cambierà nome, facendolo diventare «Tribun de peuple». In quell’occasione, il 14 vendemmiaio anno III, Babeuf scrive un articolo in cui spiega perché, cambiando titolo al giornale, cambiò nome anche a se stesso.
La tesi è preoccupante. Il «dispotismo sacerdotale» ci impone «nomi fanatici» senza il nostro consenso, ma questi nomi, riferendosi a qualcuno che li ha già portati, devono costituire per noi una sorta di «modello da imitare». La Convenzione, con la sua legge, vuole «obbligarci per decreto» a conservare i nomi che ci sono stati imposti e, pertanto, vada al diavolo la Convenzione.
Ecco perché François-Noel è Gracchus. Così come l’autonominatosi «oratore del genere umano» Jean-Baptiste Cloots (1755-1794) era diventato Anacharsis, così come Pierre Gaspard Chaumette (1763-1794), che fa l’errore di voler de-cristianizzare la rivoluzione, era diventato Anaxagoras, così come Camille Desmoulins (1760-1794), avvocato progressista presto giacobino, era rimasto tale o pressappoco, perché Camillo gli andava bene. Sarà per via del nome, sarà perché sulla propria strada hanno incontrato Robespierre, sarà per altri motivi, ma, fatto sta, che, per quanto rivoluzionari, la testa ce l’hanno rimessa tutti – magari prima loro di altri che rivoluzionari non erano.
Nel Manifesto dei plebei – è un altro esempio fra i tanti possibili –, Babeuf parla dei tribuni e dice che «i primi che mostrano sufficiente energia per attaccare di petto gli oppressori, sono riconosciuti e acclamati dagli oppressi». E correda la teoria con la sua bella citazione di storia romana: Lucio Giunio, detto Bruto, primo tribuno di Roma, al tempo della secessione del popolo sul Monte Sacro. Lui si vede lì, più che sotto la ghigliottina. Nei suoi scritti e in quelli dei suoi colleghi la cosiddetta «cultura classica» fa capolino spesso. Troppo spesso. La stessa cultura che emerge dai nomi da rivoluzionari che si scelgono. È presumibilmente grazie al fascismo – che nella cultura romanistica ci aveva dato dentro – che i nomi di battaglia di coloro che hanno combattuto nella Resistenza erano nomi comuni, privi di reminiscenze classicistiche.
Certe ingenuità si pagano. Nell’idea del nome proprio come modello da imitare c’è la ratifica di quella storia essenzialmente mitologica che è poi la storia prodotta dai regimi di cui ci si vorrebbe liberare. In un tribuno che si vorrebbe trascinapopoli un po’ di coerenza non guasterebbe.

Felice Accame

P.s.: Gli articoli citati di Babeuf sono rinvenibili, insieme ad altri, in Il tribuno del popolo, a cura di Bruno Maffi, Muggiani editore, Milano 1945.