Rivista Anarchica Online


lettere

 

Tramonto di un regime

Desidero complimentarmi con Francesco Berti per il suo articolo Quando i miti son duri a morire, apparso sul numero 295 di «A». L’articolo ha suscitato l’entusiasmo soprattutto di mia moglie Anita, che non è anarchica ma è cubana (è nata nel dicembre 1953 a La Habana e vi ha vissuto fino al 1996, attraversando praticamente tutte le fasi del regime salvo gli ultimi sviluppi). Anita è molto grata a Berti per ciò che ha scritto, che corrisponde perfettamente a ciò che lei pensa. Sostiene di non avere mai letto finora una posizione così netta sulla questione cubana, da quando vive qui in Italia.
Il mio giudizio personale è un poco più articolato. Avrei qualche obiezione su alcuni giudizi espressi nel testo, che non riguardano però l’argomento centrale ma piuttosto lo sfondo. Sul ruolo assunto dagli Stati Uniti nella politica mondiale, sul conflitto arabo-israeliano, sulla scelta stessa da parte dei libertari degli interlocutori politici privilegiati, mi sembra di capire che tra il mio approccio e quello di Berti ci siano differenze di non poco conto. Su questi aspetti potremo tornare in futuro, se ce ne sarà l’occasione. Qui mi interessa affrontare il tema principale dell’articolo, cioè la questione cubana, e su tale aspetto ritengo che quello di Berti sia un contributo valido e serio.
Conosco abbastanza la realtà cubana, non solo per le ragioni familiari a cui ho già accennato. Oltre ad avere letto nel corso degli anni qualche testo, io stesso ho trascorso complessivamente alcuni mesi a Cuba in occasione di tre diversi viaggi tra il 1995 e il 2000. Nei miei viaggi cerco sempre di conoscere la realtà sociale, culturale e politica dei paesi che visito, nei limiti in cui questo è possibile a uno straniero che dispone in genere di un tempo limitato. In questo caso specifico, avere una moglie cubana mi ha consentito di conoscere più facilmente delle persone e di entrare in confidenza con loro, stabilendo relazioni meno superficiali di quelle che normalmente si creano tra i residenti e un semplice turista.
Sulla base delle mie esperienze e conoscenze, trovo assolutamente giustificate e corrette le critiche di Berti al regime castrista e ai suoi estimatori. Riprendo sinteticamente le sue principali argomentazioni: 1) A Cuba i diritti umani vengono pesantemente violati e il fatto che le violazioni avvengano anche in altri paesi non è un valido argomento per evitare di parlarne. «Qualunque violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali dei cittadini merita (…) di essere denunciata: a Cuba come in Iraq, in Italia come in qualunque altro paese». 2) Non è vero che la causa principale delle sofferenze del popolo cubano dipende dall’embargo degli Stati Uniti. In realtà, le difficoltà del paese e la miseria di gran parte della popolazione derivano da un sistema economico fallimentare e da errori dei dirigenti politici. L’embargo si è risolto invece in un comodissimo alibi per il regime, per giustificare i propri fallimenti. 3) La pressione economica e politica esercitata dagli Stati Uniti non può giustificare in alcun modo il terrore poliziesco che vige a Cuba. In realtà, il potere dispotico e poliziesco a Cuba iniziò poco dopo che il gruppo rivoluzionario di Fidel Castro e di Che Guevara aveva preso il potere e prima che gli Stati Uniti decretassero il loro embargo (entrato in vigore nel 1961). Lo sanno bene gli anarchici cubani, eredi di una lunga tradizione di lotte sociali, in prima fila contro tutte le dittature insediatesi nel paese caraibico (ultima quella di Batista). A partire dal 1960 molti libertari cubani furono costretti a espatriare per sfuggire alle persecuzioni, mentre i loro compagni meno fortunati venivano incarcerati o fucilati. Naturalmente, non furono solo gli anarchici ad essere repressi dal regime totalitario: tutte le forze di opposizione, di qualsivoglia matrice ideologica, furono eliminate coi metodi più brutali e polizieschi. 4) Le conquiste sociali della rivoluzione – nell’istruzione e nella sanità – non giustificano né potranno mai giustificare la mancanza di libertà. Non è necessario creare delle dittature per far funzionare i servizi pubblici. 5) La pretesa di alcuni estimatori del regime, secondo i quali a Cuba non ci sarebbe affatto una dittatura bensì una vera democrazia, una ‘democrazia socialista’, è palesemente falsa e ridicola e non meriterebbe neppure di essere presa in considerazione. Come osserva giustamente Berti, «dove vi è un partito unico al potere; dove mancano libertà di stampa, di associazione, di pensiero; dove i dissidenti politici vengono perseguiti anche sulla base di semplici sospetti; dove si infliggono condanne enormi per «reati» attinenti alla libertà di pensiero; dove non c’è una società civile indipendente dallo Stato; dove non è possibile svolgere libera attività sindacale; dove non c’è libertà economica; dove non c’è separazione dei poteri dello Stato; dove il potere non è limitato da altri poteri: ebbene, in quel fortunato paese vige un regime che nel linguaggio politico delle persone civili si chiama dittatura. Nel caso di Cuba si tratta di una dittatura totalitaria, con tutte le differenze che ciò comporta da altri tipi di dittature».
Tutte queste argomentazioni, e altre riferite a Cuba su cui non mi soffermo contenute nell’articolo, sono a mio giudizio corrette e ampiamente condivisibili. Su ciascuno di questi aspetti potrei intervenire con ulteriori considerazioni, ma anche se potrebbe risultarne ancora più ricco il quadro conoscitivo, la sostanza non cambierebbe. Mi limito piuttosto a riprendere un breve accenno di Berti sul fatto che il regime di Fidel sembrerebbe godere di un «consenso di massa, come dimostrerebbero le oceaniche adunate in occasione dei logorroici comizi del lider maximo». Berti aggiunge giustamente che, pur ammettendo che tale consenso sia reale, questo fatto non può ribaltare la classificazione del regime politico cubano (del resto, anche il fascismo italiano e il nazismo tedesco hanno goduto per un certo periodo di un ampio consenso di massa, ma nessuno si sognerebbe di definirli per questo delle democrazie). A queste giuste considerazioni vorrei aggiungere un’opinione personale che si basa sulla mia diretta conoscenza del paese caraibico, certo limitata ma credo non del tutto trascurabile. Ritengo che a Cuba il regime comunista abbia perso da tempo il consenso della maggioranza della popolazione (consenso di cui ha indubbiamente goduto nei primi decenni dopo la rivoluzione contro Batista). Certo, le piazze si riempiono ancora di centinaia di migliaia di persone in occasione delle adunate di regime, ma sono convinto che solo una minoranza di loro lo fa per convinzione, gli altri vanno ormai solo perché ritengono più prudente non attirare su di sé l’attenzione di un apparato di controllo e di repressione ancora molto efficiente e ramificato. Del resto, chi può se ne va, anche su imbarcazioni precarie a rischio della propria vita (sono oltre due milione i cubani esuli in altri paesi, contro una popolazione residente nell’isola di circa 11 milioni). Nonostante i notevoli rischi, sono ormai migliaia i dissidenti aperti e dichiarati che cercano coraggiosamente di modificare il sistema con una lotta nonviolenta condotta all’interno del paese. La cosa che più mi ha impressionato, fin dal primo mio viaggio nel 1995, è il fatto che la quasi totalità dei cubani che ho conosciuto nelle più diverse province dell’isola, si lamentavano apertamente con me che ero uno straniero, e affermavano di non poterne più del sistema. Tra queste persone ce n’erano molte che per anni avevano dato alla rivoluzione la parte migliore della loro vita. Credo proprio che il lento e tormentato tramonto del regime castrista sia fatale e irreversibile.

Gianpiero Landi
(Castel Bolognese)

 

Per Faber e gli “esclusi”

La smisurata preghiera con cui, strappatoci cinque anni fa da un male crudele, Fabrizio De André ha concluso la sua straordinaria opera di cantautore e poeta, sempre “disobbediente alle leggi del branco” e sempre vicino “a chi viaggia in direzione ostinata e contraria”, è un vero e proprio manifesto di umanità, di giustizia e di pietà, nel senso più autentico e profondo della parola. Nelle sue canzoni, senza retorica e senza compiacenti buonismi, vivono e ci parlano gli esclusi, gli emarginati, i diversi, le anime sofferenti e solitarie, e con loro, anzi soprattutto grazie a loro, tutti quelli che continuano a volere un mondo giusto di liberi ed eguali. Il nostro amato poeta anarchico non c’è più, ma continua a vivere in noi e nelle sue parole, che sono le nostre parole. Per questo motivo, pur essendo del tutto insensibili ad ogni forma di culto della personalità, proponiamo di intitolare una piazza o una via delle nostre città a Fabrizio De André; anche attraverso il suo nome non dobbiamo mai dimenticare chi è rimasto “tagliato fuori”, chi non si è voluto “intruppare” o chi semplicemente non ha neppure avuto la possibilità di scegliere. Ci piacerebbe anzi che questo atto simbolico fosse l’inizio di una nuova spinta collettiva in favore di una piena valorizzazione delle differenze e della lotta all’esclusione e all’emarginazione. Intitoliamo dunque una piazza a Fabrizio, diamo vita in città e in provincia ad un tavolo di confronto sulle nuove povertà, opponiamoci con forza a chi esorcizza le diversità e difende pregiudizi di ogni tipo, ed apriamo una nuova fase di sensibilità e impegno. Giustizia, pace, libertà, i valori di sempre.

Per Alessandriacolori e per tutti quelli amano le canzoni di De André e il pensiero libertario.

Giorgio Barberis
(Alessandria)

 

Pacchi postali, pacchi bomba

Care compagne e compagni,
alcuni giorni fa ho ricevuto per posta un paio di cose molto interessanti, la prima riguarda una mostra internazionale di «spazzole d’artista» per gentile interessamento di Tania Lorandi «The big Bosse de Nage» dell’Istituto Patafisico; la seconda una raccolta di libretti artistici sul mestruo, proprio così, sulle mestruazioni, s’intitola: MOSTRIAMO IL MESTRUO ed è a cura di Strega Troglodita (Troglodita Tribe).
E ancora debbo terminare il «sasso» da dipingere... già, un sasso, un ciottolo tondo e liscio, che mi ha mandato un compagno di Alessandria, affinché io lo dipinga. Anche questo è arrivato per posta, meno male per posta, non come i sassi dal cavalcavia, e non era diretto a ferirmi...
Mi è venuto da sorridere pensando: ecco, c’è ancora chi fa della posta un servizio creativo!
Che dire della resistenza a Internet, che ormai ci ha fatto perdere l’uso delle mani? Mi commuove Remy Perrot da Parigi, che utilizza i timbri con le anatre che volano.
Ci sono ancora artiste, artisti, e sono tantissimi ve lo assicuro, che inondano le borse dei postini con le loro missive colorate, facendo lo slalom fra pubblicità tasse scadenze balzelli multe e ridondanza d’informazioni patinate, con le loro carte riciclate, con la loro povertà sbandierata, con i loro indirizzi scritti a mano, coi loro pacchi e pacchetti pieni di stelline. Poesia postale che non aspetta natale, arte povera, anarchia della comunicazione, se ne fotte del consumismo, è tutto gratis, tutto circolare, una linea orizzontale continua.
Io e il mio compagno usammo la posta per quattro anni, per rompere i muri del carcere dov’era recluso... erano i nostri i veri «pacchi bomba», trasgressivi, animati di vita propria, guardati con sospetto dai secondini, talvolta sequestrati se il regolamento sessuofobico non accettava il pizzo di un body dentro una busta. Troppi colori, troppo profumo, troppa fantasia, troppo erotismo, troppa vita!
Nulla a che vedere con gli anonimi (acronimi omonimi e via dicendo) che utilizzano la posta per distruggere, per ferire, per mutilare, per insultare, come il pazzo che per anni, ingegnandosi a imbucare le lettere da varie località pensando di non essere riconosciuto (il mostro...), tormentò Horst Fantazzini in galera con lettere diffamatorie, deliranti, infarcite di volgarità e di fotomontaggi pornografici sulla sottoscritta, quasi fossi una diva colpevole di non distribuire la mia fighetta a chi ne era rimasto sprovvisto.
Ma quale azione diretta? Della posta ci si può servire per creare contatti, tendere fili o interrompere rapporti, progettare, ricordare, augurare, criticare, polemizzare, esercitare i propri diritti; restituire un corpo fisico a un’idea sempre più asettica con Internet; dare tepore e consistenza alle parole di due innamorati; far sentire la propria solidarietà ai prigionieri e alle prigioniere che non sono raggiungibili in altro modo nemmeno per telefono; creare intralcio al potere con proteste concrete... altri usi o meglio: abusi, sono soltanto l’ultima spiaggia di frustrati che non sanno come incanalare il loro odio represso, la loro frustrazione moscia come il loro pisello... e questo è possibile e fattibile soltanto perché la POSTA può essere usata in modo anonimo.
Anonimo, come sono i pacchi bomba, che per me non hanno differenze sostanziali con le lettere anonime del cazzo, volevo dire del pazzo.
Anche il pazzo rivolgendosi a Horst si firmava: «un anarchico che ti stima», e questi plichi incendiari vengono rivendicati con un volantino assolutamente inconcludente da un punto di vista politico, che tira in ballo, con grande gioia dei mass media più fetenti che si cibano unicamente di queste porcherie, una sedicente inesistente «Federazione Anarchica informale», e poi c’è anche il nome di Horst Fantazzini, perché vogliono ricordarlo così.
Sì, vogliono ricordarlo così, con le confidenze «da uomo a uomo» o con l’esaltazione maschia guerriera, sprecando fiumi di inchiostro (e magari prefazioni barocche auto-celebrative nei libri che Horst non si è mai occupato, perché non aveva più interesse o voglia, di ripubblicare)... ma senza avere avuto mai il CORAGGIO di guardarlo in fondo agli occhi.
Perché, comunque, Horst era molto più donna di quanto potessero sopportare e accettare.
Un abbraccio libertario e femminista,

Patrizia Diamante «Pralina»
(Bologna)

 

Un passo indietro e due avanti?

In riferimento alla lettera di Luigi Veronelli apparsa su A rivista n. 9 dicembre 03 – gennaio 04 dal titolo Propongo una lista mi permetto di dare il mio contributo come segue.
Sì, l’anarchia come vita collettiva (che non può escludere a priori l’approccio individualista e comunque l’intreccio della sfera individuale con quella sociale) potrebbe avverarsi in tempi assai ridotti rispetto alle pre-visioni di Benedetto Croce, ammesso che noi sedicenti anarchici ci chiarissimo le idee (oltre alle pratiche) su cosa possa e potrà mai essere questa anarchia «pura, armonica e razionale». Lavoro duro con se stessi e con gli altri!
Sì, ci si deve confrontare con tutto e con tutti e non arroccarsi in torri d’avorio tra mitologia e purismo, forse anche senza esclusioni a priori.
Non ho riflettuto e dibattuto a sufficienza per poter dire se un ritorno un passo indietro (società rural-artigianal-commercial-pre o post industriale?) possa aiutare a farci fare due passi avanti verso la realizzazione dell’anarchia.
Dubito che le odierne autorità (civili, militari, religiose), anche volendo privilegiare il rapporto con quelle locali, con cui si dovrebbe trattare, possano essere considerate eticamente degne di sostenere la trattativa, quantomeno per forma mentis: in ogni caso nulla escludo a priori!
Fatico a capire se i mercati che verrebbero ad aprirsi ai prodotti delle «Denominazioni di Origine Comunale» ed i profitti da questi derivati si possano intendere alternativi al sistema economico-finanziario che ci domina (attuale mia condizione sine qua non per passeggiare verso Anarchia, ma potrei sbagliarmi vista la mia assoluta ignoranza in materie economiche); fatico ancor di più a capire come arrivare socialmente a partorire dei «Sindaci che debbono essere autorità amministrative e non politiche» (quindi con una «forma mentis» assai diversa dagli attuali appartenenti a quelle autorità con cui si dovrebbe trattare!).
Infine non ho capito, evidentemente, «il successo clamoroso ed eversore dei mercati sociali» almeno nella misura in cui credo di poter rilevare un potenziale anarchico (la messa in discussione dell’autorità?) in leggi di iniziativa popolare con il passaggio del potere «dallo Stato – non alle Regioni, non alle Province – diretto al Comune» (non conosco la legge costituzionale n. 3 del 2001, ma è interessante conoscere cosa le autorità odierne abbiano inteso per «iniziativa popolare col passaggio del potere di legislazione e di modifica della legislazione»: leggerò Reclus).
L’eventuale opzione elettorale non mi trova pregiudizialmente contrario (né credo sia nuova in area libertaria) fosse solo perché di fronte all’incapacità di realizzare purezza, armonia e razionalità con le «nicchie utopiste» capisco si possa ad un certo punto ritenere di combattere il sistema «se lo vivi, se ci sei dentro, se vuoi operare con trattative continue» facendosi portavoce di un riformismo radicale fino al limite dell’«eversione». Ma mi pare la strada seguita dalle rispettive maggioranze dei Verdi, di Rifondazione assieme ai Centri sociali del Nord-Est e di qualche altra parte d’Italia; a costoro si deve aggiungere la variegata ed attivissima area dei cattolici di base che comunque fanno più cose e spesso migliori di tutti gli altri soggetti messi assieme.
Per concludere, caro Veronelli, credo ci sia molto da lavorare in area libertaria per arrivare a scegliere di provare l’opzione elettorale come da te ventilato, intendo dire che bisogna discuterne con l’idea di trovare risposte e decisioni in tempi brevi (anche in tempo per le prossime europee se vuoi), ma più il traguardo che ci si darà è vicino nel tempo e più dovremo mettere a disposizione del nostro tempo e delle nostre energie alla politica. In ogni caso sinceramente trovo equivoco, a differenza di te, oltre che prematuro il simbolo ed il nome all’eventuale lista di «Centri Sociali» proprio perché richiamano all’operazione Verdi-Rifondazione-Disobbedienti con tutto il portato di autoritarismo e verticismo che comporta restare nella logica del sistema politico e partitico attuale come questi signori continuano a fare. Preferisco pensare ad un nome in cui compaia il termine Libertario piuttosto che Anarchico se proprio non si vuole spaventare i benpensanti o per aggirare la potenza del fuoco mediatico e di preconcetti che ci caricherebbero addosso. Va bene pure scomparire in un qualche cosa di neutro che assorba la poliedricità dei soggetti da te citati. In ogni caso non credi che caratterizzarsi per dei politici non di mestiere, che timbrino il cartellino e non percepiscano assegni che li pongono anni luce distanti dal paese reale, che contestino ogni spreco di denaro delle pompemagne istituzionali sarebbe già un passetto avanti? Se sì riesci a renderti conto di quale cambio di mentalità e prassi politica comporta raggiungere un così minimo e parziale obiettivo anche solo sulla strada della democrazia ?! La fretta è la peggior consigliera ed il modo con cui il dominio ti fa restare sempre a 90 gradi, in ogni caso c’è bisogno di darsi una mossa perché a star sempre seduti a piangere sugli allori si finisce per non aver più il coraggio di cambiare almeno il paesaggio che si ha di fronte.
Salute!

Ruggero Lazzari
Poet’attore libertario (Venezia)

 

La replica di Veronelli

Nella lettera di Ruggero vi sono numerose suggestioni. Lo ringrazio. Ho riletto a lungo una frase di Noam Chomsky (in Capire il Potere, Marco Tropea Editore, 2002): “L’opposizione della gente alla politica non ha fatto altro che intensificarsi: era già forte in partenza ed è aumentata per tutti gli anni ottanta. Prendiamo in considerazione i media: qualcosa è cambiato, vi è una maggiore apertura, maggiore franchezza. Oggi è più facile, per i dissidenti, trovare accesso ai mezzi di informazione di quanto non fosse vent’anni fa e in realtà oggi all’interno delle istituzioni ci sono addirittura persone uscite dalla cultura e dalle esperienze degli anni sessanta, persone che si sono fatte strada nei media, nelle università, nelle case editrici e in una certa misura perfino nel sistema politico”. Il problema più grande dell’anarchismo nasce dall’equivoco, voluto da secoli, sulla parola anarchia e sugli atti che ha dovuto – sottolineo: dovuto – compiere. Oggi abbiamo un estremo bisogno di corretta informazione e visibilità. Di qui l’invito a partecipare. Col proposito – ben diverso da quello dei partiti citati – di una eversione, senza violenza fisica alcuna.
Senza saperlo e senza la possibilità di comunicarlo, con quegli spazi, anche radiofonici e televisivi, cui avremmo diritto – mi sia permesso il paradosso – noi siamo già maggioranza.

Luigi Veronelli
(Bergamo)

 

Chiarezza e semplicità

Ringrazio Antonio Cardella per l’articolo Ma il capitalismo non è emendabile (“A” 296).
Prima di leggerlo avevo intuito, con un sesto senso più vicino all’ignoranza che alla sicumera della conoscenza per queste cose, che nel tracollo della Parmalat, come in quello di altri «giganti» internazionali di cui le cronache recenti danno notizia, qualcosa di «grottesco» e al contempo di «normale» riassumeva il corso dei fatti.
Giacché – lo capivo anch’io tanto era evidente – la buona salute industriale e commerciale del gruppo agroalimentare non era né è in discussione. La perderà, la buona salute, molto probabilmente per far tornare i conti delle speculazioni e dei salti mortali finanziari. Presagivo che il fatto cinico sarebbe stato (sarà?) che a pagare il debito fosse proprio la fetta societaria che non l’aveva contratto o che comunque ne era esente. In altre parole, verrà smantellato quello che funzionava?!…
Faccio una proposta alla commissione governativa addetta a risolvere la questione: lasci la ditta nelle mani di chi ci lavora. Chissà se il suggerimento di autogestione verrà recepito come una provocazione terroristica?…
Torno all’articolo di Cardella. La semplicità è una grazia rara e fa tutt’uno con la chiarezza saputa da lui far valere. Cosa che per esempio non è riuscita a trasmissioni benpensanti come «Ballarò», da me insolitamente seguita per cercare di capirci qualcosa sulla faccenda. Ho capito che i presenti interpellati erano tutti intenti a colpevolizzare gli altri. Insomma parlavano di come sarebbero dovute andare le cose e non di come stavano.
Non so se l’articolo sulla rivista è stato scritto dal suo autore anche con l’intenzione di suscitare riso in chi lo avrebbe letto. A me ha scatenato risate addirittura incontenibili tanto le rappresentazioni – e il loro ripensamento da parte mia – sono così alla lettera da cogliere di una tragica farsa la pura allegoria dei fatti.
E grazie al Ma il capitalismo non è emendabile resto appresso all’antico adagio di Brecht: «Che cos’è un grimaldello in confronto a un titolo bancario?…».

Monica Giorgi
(Bellinzona - Svizzera)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Angelo Zanni (Sovere) 10,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Cesare Fuochi e Alfonso Failla, 500; Enrico Bruzzo (Arenzano) 5,00; Massimo Ortalli (Imola) 10,00; Salvo Vaccaro (Palermo) 5,00; Salvo Pappalardo (Acireale) 10,00; Fabio Canton (Milano) 5,00; Fernando Ainsa (Saragozza – Spagna) 10,00; Giancarlo Nocini (San Giovanni Valdarno) 65,00; Andrea Gaspardo (Pordenone); Massimo Locatelli (Inverigo) 20,00; Giampiero Manuali (Perugia) 16,27; Massimo Bellini (Riola) 20,00; Piero Bertero (Cavallermaggiore) 20,00; Luca Sini (Milano) 5,00; Edy Zarro (Massagno – Svizzera) 10,00; Andrea Cassol (Cesio Maggiore) 30,00; Libreria Voltapagina (Genova) 28,00; Felice Riboli (Crema) 5,00; G. Tomasini (Milano) 5,00; Marcello Motta (Milano) 5,00; Danilo Vallauri (Dronero) 15,00; Marco Gotta (Torino) 3,00; Massimo Ortalli e Cristina Valenti (Imola) ricordando Cesare Fuochi, 100,00; Antonio Pedone (Ponte Felicino) 10,00; Giancarlo Zilio (Selvazzano) 6,00; Giorgio Nanni (Lodi) 20,00; Angela Sacco (Milano) 10,00; Marco Buraschi (Roma) 5,00; Riccardo Caneba (Grottaferrata) 10,00; Enrico Panzeri (Valgreghentino) 30,00; Piero Cagnotti (Dogliani) 20,00; AB (Milano) 30,00; Roberto Bardelli (Arezzo) 5,00; Oreste Roseo (Savona) ricordando Giovanna Berneri, Elvira e Umberto Marzocchi, Amelia e Alfonso Failla, Ugo Mazzucchelli, 11,00; Vittorio Carsana (Napoli) 10,00; Fabio Rosana (Cuneo) ricordando Nuto Revelli, 15,00; G.A. (Marsiliana) 20,00; Paolo Scarioni (Milano) 10,00; Cesare Ambrosone (Como) 5,00; Alessandro Marozzi (Riccione) 10,00; Michele Vaccaro (Pompei) 5,00; Tiziano Viganò (Casatenovo) 10,00.
Totale euro 1.189,27.

Abbonamenti sostenitori.
Cosimo Valente (Grugliasco) 250,00; Aimone Fornaciari (Liutuntie – Finlandia) 100,00; Stefano Quinto (Maserada sul Piave) 100,00; Livio Ballestra (Nizza – Francia) 200,00; Luigi Piccolo (Padova) 100,00; Gianluca Botteghi (Rimini) 100,00; Luca Todini (Brufa Torgiano) 100,00; Arturo Schwarz (Milano) 100,00.
Totale euro 1.050,00.