| Per quanti si richiamano alle idee libertarie di emancipazione 
                  e solidarietà, un momento irrinunciabile di riflessione 
                  è rappresentato dalla figura e dall’esempio di 
                  Errico Malatesta (Santa Maria Capua Vetere 1853 – Roma 
                  1932), l’anarchico campano che più di ogni altro 
                  ha contribuito alla vita dell’anarchismo organizzato e 
                  alle idee che l’hanno sostenuto. Questo spiega l’interesse 
                  costante destato dalla sua vita e dalle sue idee. Giampietro 
                  «Nico» Berti, docente di Storia contemporanea all’Università 
                  di Padova e autore di numerosi e importanti testi sull’anarchismo 
                  e il pensiero libertario (tra questi vogliamo ricordare Francesco 
                  Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo 
                  liberale, Angeli 1993, Un’idea esagerata di libertà, 
                  Elèuthera 1994 e Il Pensiero Anarchico dal Settecento 
                  al Novecento, Lacaita 1998), ha portato recentemente a termine 
                  quella che può essere considerata la biografia «definitiva» 
                  di Malatesta (Errico Malatesta e il movimento anarchico 
                  italiano e internazionale. 1872-1932, Angeli 2003), 
                  ricostruendo compiutamente, in più di 800 pagine, la 
                  vita e il pensiero del «più grande rivoluzionario» 
                  italiano. Dialogando con l’autore, abbiamo cercato di ripercorrere 
                  la complessità e il valore di questo importantissimo 
                  volume.
  M. O.
   Una biografia che mancava Di biografie di Malatesta già ne esistevano 
                  molte, quelle di Max Nettlau, di Luigi Fabbri, di Armando Borghi. 
                  Inoltre, negli anni, sono stati pubblicati altri studi che affrontavano 
                  aspetti più o meno complessivi del suo pensiero e della 
                  sua esperienza di lotta. Perché, dunque, questo libro 
                  su Malatesta?  Prima di tutto per la banale ragione che mancava, che ancora 
                  non c’era. Non c’era assolutamente nulla dal punto 
                  di vista di una storiografia scientifica che potesse essere 
                  all’altezza delle aspettative di un lettore medio. Infatti 
                  siamo fermi a biografie come quella di Luigi Fabbri, che risale 
                  a circa settant’anni fa. E anche se questa è per 
                  certi versi essenziale, perché avendo Fabbri frequentato 
                  a lungo Malatesta, poteva parlare di una esperienza personalmente 
                  vissuta, non ha però il carattere di un’opera storiograficamente 
                  scientifica. E poi perché Malatesta è stato indubbiamente 
                  il più grande rivoluzionario italiano, forse europeo, 
                  fra l’Otto e il Novecento, e ricostruire la sua vita significa 
                  ricostruire la vita del movimento anarchico italiano e internazionale. 
                 Un’opera così complessa, e completa, ha 
                  senza dubbio richiesto un notevole lavoro di documentazione. 
                  Quali sono state le fonti che hai maggiormente utilizzato?  Seguendo lo schema consueto e storiograficamente tradizionale, 
                  ho utilizzato tutte le fonti disponibili, sia di carattere archivistico 
                  che bibliografico, e non è certo stato un lavoro facile. 
                  Malatesta infatti ha avuto una vita eccezionale, fatta di sessant’anni 
                  di storia del movimento operaio e socialista e di esperienze 
                  politiche e sociali diverse in moltissimi paesi, quindi ho dovuto 
                  seguirne le tracce un po’ ovunque, utilizzando le fonti 
                  archivistiche non solo italiane, ma anche francesi e svizzere, 
                  senza dimenticare gli importantissimi fondi dell’IISG 
                  di Amsterdam. A questo va aggiunto lo spoglio dei giornali e 
                  degli opuscoli, e così, incrociando tutto questo materiale, 
                  ho potuto ricostruire la storia di Malatesta.  Perché tu hai scritto il libro su Malatesta 
                  e perché sul movimento anarchico italiano e internazionale? 
                   Malatesta è stato un personaggio assolutamente fuori 
                  dal comune, non paragonabile a nessun altro. A differenza di 
                  altri esponenti dell’anarchismo, come ad esempio Francesco 
                  Saverio Merlino (solo una parte della sua vita, la prima, si 
                  incrocia con quella del movimento anarchico italiano e internazionale) 
                  non si può scriverne la biografia prescindendo dal contesto 
                  italiano e internazionale in cui si muove, quindi il titolo 
                  del libro diventa obbligato. Perché «io» 
                  ho scritto questo libro? Finora mi ero occupato più del 
                  pensiero anarchico, e infatti la biografia di Merlino era sostanzialmente 
                  una biografia intellettuale, mentre Un’idea esagerata 
                  di libertà e Il Pensiero Anarchico dal Settecento 
                  al Novecento riguardano la storia delle idee. Qui invece 
                  ho voluto affrontare Malatesta fino in fondo, come dire «la 
                  carne e il sangue» dell’anarchismo, nel senso di 
                  un’idea che si fa storia, movimento. E anche se altri 
                  anarchici hanno avuto questa dimensione, nessuno è più 
                  rappresentativo di Malatesta. Si pensi a Bakunin, che è 
                  considerato il fondatore dell’anarchismo; ebbene, lui 
                  è stato anarchico per soli 10-12 anni, da quando, fuggito 
                  dalla Russia, arrivò in Italia, nel 1863-64, fino al 
                  1876. Prima era rivoluzionario ma non anarchico. E anche Kropotkin 
                  ha fatto attività rivoluzionaria anarchica, di pensiero 
                  ed azione, solo dal 1872, la prima volta che venne in Europa, 
                  e fino al 1883 e al processo di Lione. Quando va in Inghilterra, 
                  nel 1886, ha ancora un pensiero rivoluzionario, ma passa trent’anni 
                  a Brighton a fare il naturalista e il geografo. E lo stesso 
                  Reclus ha fatto il rivoluzionario durante la Comune di Parigi, 
                  ma dopo? Chi è stato rivoluzionario tutta la vita? Solo 
                  Malatesta, e non per 10 anni ma per 60, basti pensare che conosce 
                  Bakunin nel 1872 e muore al tempo di Alida Valli e dei telefoni 
                  bianchi, in pieno fascismo. È uno stato di servizio eccezionale 
                  che nessun anarchico, nessun altro rivoluzionario, nessun uomo 
                  d’azione del movimento operaio e socialista può 
                  esibire.  In effetti dal libro emerge chiaramente che il percorso 
                  di vita e di lotta di Malatesta è al tempo stesso il 
                  percorso di vita e di lotta del movimento anarchico. C’è 
                  una identificazione completa, e Malatesta dà un’impronta 
                  di sé a un movimento che non sarebbe stato e non sarebbe 
                  quello che è senza di lui.  Senza dubbio. Malatesta esprime una grande modernità 
                  perché pur mantenendo una salda radice materialistica, 
                  spezza e abbandona il determinismo positivistico ed evoluzionistico, 
                  immettendovi una idea forte di volontà, e quindi di eticità. 
                  Facendo così del movimento anarchico italiano qualcosa 
                  di molto diverso da quello francese, che oscilla fra una concezione 
                  partitica e una spontaneistica. Al contrario, la sintesi equilibrata 
                  fra volontarismo, spontaneismo e concezione scientifica della 
                  realtà, tipica del movimento italiano, è dovuta 
                  a Malatesta. In questo senso il movimento anarchico italiano, 
                  anche se Malatesta è stato per lunghi periodi fuori dall’Italia, 
                  è modellato sul suo pensiero e sulla sua azione.  Un altro elemento che esce con forza dalle tue pagine 
                  è la qualità di vita di Malatesta. La sua, infatti, 
                  è una vita straordinaria, non solo per l’attività 
                  svolta, ma anche per la grande dignità che l’ha 
                  sempre caratterizzata. Tu lo definisci il vero grande rivoluzionario. 
                  Spiegami come puoi arrivare a questa definizione, dato che nella 
                  storia italiana ed europea di grandi rivoluzionari ce ne sono 
                  stati molti. Forse perché in loro vita pubblica e privata 
                  non hanno coinciso, a differenza che in Malatesta?  Malatesta è l’anarchico integrale, che vive in 
                  coerenza assoluta fino alla fine. E la profonda radice etica 
                  di questa coerenza è quella mazziniana, unire cioè 
                  pensiero e azione e modellare la propria vita al servizio di 
                  questa idea. In tal senso Malatesta è un rivoluzionario 
                  di professione, ma anomalo, perché a differenza di altri 
                  rivoluzionari di professione che vivevano, quasi tutti, facendo 
                  i pubblicisti, i giornalisti o gli intellettuali (basti pensare 
                  a Lenin, a Costa e, in campo anarchico, a Galleani, Fabbri, 
                  Gori), Malatesta è l’unico che vive facendo un 
                  lavoro manuale, guadagnandosi così, presso i compagni, 
                  una grande forza e autorevolezza morale. Il punto fondamentale 
                  è che, pur essendo un grande pensatore, non concepiva 
                  minimamente il pensiero staccato dall’azione, e questo 
                  spiega la sua capacità di affrontare costantemente la 
                  realtà.     Grandezza morale
 Nonostante che nel corso della sua lunghissima esperienza 
                  rivoluzionaria l’elaborazione teorica di Malatesta sia 
                  in continua evoluzione, l’aspetto etico e morale non cambiano 
                  mai. È forse questa la sua qualità maggiore?  Indubbiamente. La grandezza dell’uomo è dovuta 
                  alla statura morale. Questo spiega anche perché non esista 
                  una documentazione sufficientemente chiara che faccia luce sulla 
                  sua vita privata. Io ho tentato di dire qualcosa parlando dell’esilio 
                  londinese, ma espongo i risultati in modo problematico, perché 
                  non possiamo avere la certezza che quanto si diceva della sua 
                  vita privata fosse effettivamente ciò che era. Personalmente 
                  propendo a crederlo, ma non completamente, solo in parte, e 
                  quindi lascio un margine di dubbio: lui non ha lasciato scritto 
                  niente al proposito e nemmeno i suoi biografi e i compagni che 
                  l’hanno conosciuto hanno detto qualcosa, quindi come possiamo 
                  fidarci delle fonti di polizia, che potrebbero dire solo una 
                  parte di verità? Quanto invece emerge chiaramente è 
                  che l’aver avuto una vita così privata testimonia 
                  che a questa ha lasciato uno spazio talmente poco rilevante 
                  da non condizionare quella di militante. È veramente 
                  un uomo votato a una missione totale.  Tutto questo effettivamente trova un grande risalto 
                  nel tuo libro, non solo la sua integrità, ma anche la 
                  capacità di dare un significato profondo all’esistenza. 
                  E al tempo stesso di trascinare le masse, di esercitare su di 
                  loro un grandissimo ascendente. E non solo sugli anarchici, 
                  ma anche sui militanti di altri partiti.  Negli anni novanta, per fare esempio, Malatesta ha grande influenza 
                  fra i portuali londinesi, e un italiano che avesse ascendente 
                  su lavoratori inglesi era davvero un fatto eccezionale. Purtroppo 
                  non abbiamo molta documentazione al riguardo ma le descrizioni 
                  fatte dall’ambasciatore a Londra sono significative. Questo 
                  era possibile perché viveva fra questa gente, non giungeva 
                  da fuori, ne era parte organica.  Lo stesso si può dire a proposito della Settimana 
                  rossa, quando esplose – come tu evidenzi – laddove 
                  Malatesta aveva predicato nei mesi precedenti. Se infatti si 
                  segnano su una cartina geografica le località dove aveva 
                  parlato (e tu le citi per intero in un elenco puntiglioso e 
                  completo) balza agli occhi che sono le stesse dove la Settimana 
                  rossa prese fuoco. Questa efficacia nell’influenzare tutti 
                  i sovversivi, e non solo gli anarchici, mi sembra uno dei motivi 
                  per cui, se si eccettuano forse gli ultimi anni, Malatesta parlerà 
                  sempre di fronte unico, o meglio della necessità di allearsi 
                  con i repubblicani, i socialisti rivoluzionari e le altre forze 
                  politiche.  È un’idea che ha sempre avuto. Risale già 
                  agli anni novanta, poi l’ha modellata, articolata, perfezionata. 
                  Capiva che gli anarchici non avrebbero potuto fare la rivoluzione 
                  da soli e quindi ci si doveva alleare con altre forze. Fatta 
                  la rivoluzione, vi fosse poi campo libero, perché tutti 
                  potessero propalare le proprie idee.  Dal 1900, per molti anni, se si escludono alcuni rari 
                  interventi come quello al Congresso anarchico internazionale 
                  di Amsterdam del 1907, Malatesta rimane sostanzialmente assente 
                  e silenzioso, tanto che questo suo comportamento preoccupa, 
                  e non poco, Fabbri e gli altri anarchici italiani. Che interpretazione 
                  dai di questo comportamento così anomalo per un uomo 
                  d’azione come Malatesta?  Premetto che la mia è solo una supposizione, una deduzione 
                  che non si basa su alcun documento, anche se tutto conduce a 
                  questo. Parto dall’ipotesi che, in una certa misura, Malatesta 
                  avesse a che fare con l’attentato di Bresci, che quasi 
                  sicuramente sapesse che Bresci avrebbe cercato di uccidere Umberto. 
                  Bresci ha avuto sicuramente dei complici e questo è assodato, 
                  è già stato dimostrato da altri che hanno ricostruito 
                  le sue mosse. Comunque non intendo «complici» in 
                  senso stretto, vale a dire compagni che sapevano, contribuivano 
                  e concorrevano all’azione, ma altri anarchici che si sono 
                  trovati a dare una mano nell’impresa. Non parlo quindi 
                  di impresa collettiva, perché questa rimane, a tutti 
                  gli effetti, un’impresa individuale, sia in termini ideologici 
                  che fattuali. Sono convinto che anche Malatesta sapesse e lo 
                  si capisce quando parla di Bresci come di un amico intimo, di 
                  quello che a Paterson gli salva la vita perché fa deviare 
                  il proiettile sparatogli contro. Veniamo allora al silenzio 
                  di Malatesta. Malatesta sbaglia (anche lui ha fatto errori ma 
                  questo forse è il più grave, comunque non è 
                  che, diversamente, avrebbe potuto modificare il corso della 
                  storia) perché si illude che l’attentato scateni 
                  una forte reazione in grado di innescare una insurrezione popolare, 
                  e per due o tre anni resta fermo su questa convinzione. Solo 
                  attorno al 1903-1904 capisce, si rende conto del suo errore 
                  di valutazione. In effetti mentre nel 1898, dopo i moti milanesi, 
                  poteva pensare che la polveriera stesse per scoppiare, ed era 
                  quindi legittimo nutrire questa convinzione, ora, allorché 
                  vede che nulla si muove, cade in una sorta di depressione. Malatesta 
                  infatti, pur abitando a Londra, andava spesso a Parigi, anche 
                  tre o quattro volte l’anno, e lì si incontrava 
                  con gli esuli anarchici italiani che erano in contatto con l’Italia 
                  più di quelli che risiedevano in Inghilterra. E sentendo 
                  il polso della situazione per nulla promettente, si costringe 
                  all’inazione, e questa inazione forzata lo spinge a una 
                  forte depressione (qui troviamo ancora il mazziniano, l’uomo 
                  d’azione, portato a intendere, in un certo senso, l’insurrezione 
                  come «colpo di mano») per cui nemmeno scrive, perché 
                  a differenza di Fabbri, non riteneva che in quella situazione 
                  avesse una qualche importanza. Se guardiamo quanto ha pubblicato 
                  Malatesta in questo periodo, vediamo che sono tutte cose uscite 
                  precedentemente, che di nuovo c’è ben poco, l’intervento 
                  ad Amsterdam e poco altro. In questi anni quel poco che scrive 
                  o fa lo aveva già scritto in precedenza. Quando invece 
                  sente che l’aria comincia a cambiare, dopo il settembre 
                  del 1911 e la guerra di Libia, allora scalpita e si dà 
                  da fare per tornare, anche se poi riesce a rientrare solo nel 
                  1913.     Cambiamento di rapporti
 Sono gli anni in cui il giolittismo getta la maschera, 
                  dunque, visto che nel primo decennio, dopo la morte di Umberto 
                  «si aprono i cordoni» al movimento. Se non ricordo 
                  male affermi che Malatesta non comprende che con Giolitti cambiano 
                  i rapporti tra governo e governati, ma forse questa incomprensione 
                  è dovuta anche al fatto che si succedono scontri di piazza 
                  con decine, se non centinaia, di morti.  Indubbiamente il riformismo giolittiano è un riformismo 
                  machiavellico come tutti i riformismi, ma i cosiddetti eccidi 
                  proletari non sono il frutto della repressione, ma piuttosto 
                  il contraccolpo di una liberalizzazione. Mi spiego. Con la liberalizzazione, 
                  e il maggior spazio concesso alla attività sindacale 
                  (la politica di Giolitti era di non intromettersi nel rapporto 
                  tra lavoratori e capitale), le prime organizzazioni di resistenza 
                  hanno un margine d’azione più ampio e questo significa 
                  che possono scendere in piazza, che la polizia reprime più 
                  di prima e ci sono i morti, ma i morti non sono dovuti a una 
                  precostituita volontà di reprimere, ma al contraccolpo 
                  dovuto a questa liberalizzazione. Sotto Crispi e le leggi speciali, 
                  le masse non avrebbero nemmeno potuto manifestare e quindi, 
                  paradossalmente, non ci sarebbero stati neppure i morti.  Torniamo a Malatesta. Finalmente nel 1913 riesce a 
                  rientrare e poco dopo scoppia la Settimana rossa.  Certo, e la fa scoppiare lui. Il più grande tentativo 
                  rivoluzionario verificatosi in Italia è dovuto all’azione 
                  di Malatesta. In sei mesi è riuscito a costruire un movimento 
                  e, se ha compiuto un errore, questo è dovuto alla sua 
                  troppa bravura, al non aver fatto le cose con più calma. 
                  Senza considerare, poi, che lo scoppio della guerra, poco dopo, 
                  avrebbe fortemente spiazzato tutto il movimento anarchico. Senza 
                  la guerra, invece, la Settimana rossa sarebbe stata seguita 
                  da altri movimenti insurrezionali, perché Malatesta aveva 
                  davvero messo in moto qualcosa di rivoluzionario, difficile 
                  da fermare.  Dopo la guerra comunque c’è il biennio 
                  rosso e l’occupazione delle fabbriche e il ruolo e l’attività 
                  di Malatesta sono nuovamente determinanti.  Sì, però è la situazione che cambia. Durante 
                  la Settimana rossa il principale protagonista, la punta di diamante, 
                  chi trascina l’elemento sovversivo è il movimento 
                  anarchico, seguito dai repubblicani, mentre i socialisti fanno 
                  ben poco, a parte alcuni sindacalisti e i massimalisti (si ricordi, 
                  comunque, che è il massimalista Serrati a proclamare 
                  la cessazione dello sciopero da Venezia). Dopo la guerra non 
                  è più così, la punta di diamante non è 
                  il movimento anarchico e nemmeno quello socialista: chi trascina 
                  il movimento è qualcosa all’esterno, che si chiama 
                  rivoluzione bolscevica. Dopo il ’17 tutto il movimento 
                  sovversivo ha il problema di confrontarsi con la rivoluzione 
                  russa e anche se gli anarchici non sono mai stati così 
                  importanti, incisivi e numerosi come nel biennio rosso, raggiungendo 
                  il punto più alto del proprio sviluppo (si pensi alla 
                  fondazione dell’Unione anarchica italiana e alla pubblicazione 
                  del quotidiano «Umanità Nova»), però 
                  non sono più i maggiori protagonisti, perché ora 
                  ci sono i comunisti e tutto è cambiato. Inoltre si parla 
                  del biennio rosso come di una grande situazione rivoluzionaria, 
                  ma in realtà la vera situazione rivoluzionaria si era 
                  verificata nel 1919 perché successivamente si va da una 
                  situazione di empasse all’altra e l’apice 
                  è l’occupazione delle fabbriche che in realtà 
                  rappresenta il fallimento del biennio rosso. Se vuoi fare la 
                  rivoluzione devi distruggere il potere, cosa che non si ottiene 
                  occupando le fabbriche. E difatti, una volta occupate le fabbriche, 
                  ci sono rimasti chiusi dentro un mese, ma poi sono dovuti uscire. 
                  Il vero atto rivoluzionario è occupare la questura, le 
                  poste, le caserme, la prefettura, in modo che non ci sia più 
                  il prefetto a diramare gli ordini.  Questo, però, può essere interpretato 
                  come un «colpo di mano», ben differente dalla lotta 
                  di massa. In Russia hanno occupato il Parlamento, ma hanno occupato 
                  anche le fabbriche. Forse vanno fatte entrambe le cose.  Sì, però devi prendere i centri del potere, altrimenti 
                  non fai la rivoluzione. Questo potrebbe sembrare un retaggio 
                  giacobino, ma gli anarchici la volevano fare o no, la rivoluzione? 
                  Comunque Malatesta non era certamente un giacobino, lui, a differenza 
                  dei giacobini, non vuole occupare, ma distruggere i centri del 
                  potere.  Malatesta a volte fa errori di valutazione, ma più 
                  spesso è preveggente. A proposito della rivoluzione russa, 
                  tu ricordi una sua «profezia», quando prefigura 
                  la fine che faranno non solo la rivoluzione russa ma i suoi 
                  dirigenti. Non c’è ancora Stalin, ma lui già 
                  prevede che ci sarà uno Stalin, e che questo Stalin ucciderà 
                  Trotsky.  È davvero una profezia straordinaria, che dimostra la 
                  sua capacità di comprendere dove avrebbe inevitabilmente 
                  condotto la via autoritaria al socialismo.  Tu individui tre fasi fondamentali nella evoluzione 
                  del suo pensiero, al cui interno però permangono sempre 
                  alcuni principi fondamentali, quali la coerenza tra mezzi e 
                  fini, la concezione volontaristica della rivoluzione, il laicismo 
                  visto come antitesi rispetto al fideismo. E dimostri che la 
                  sua lucidità si esprimeva nell’apprezzamento delle 
                  differenze e nella comprensione della loro necessità. 
                  Questo si riscontra anche nell’elaborazione teorica dell’anarchismo. 
                  Tanto che mi sembra davvero la parabola del movimento.  Il primo periodo è quello che si chiude nel 1884, quando 
                  Malatesta è ancora immerso in una sorta di positivismo 
                  fortemente influenzato dal marxismo. Il secondo è il 
                  periodo che nasce con «L’Agitazione», e nel 
                  quale maturano i concetti del volontarismo, del socialismo anarchico, 
                  dell’etica come coerenza tra mezzi e fini, della libertà 
                  intesa come entità laica. Il terzo periodo parte dal 
                  1922-1924 e può essere definito come quello del gradualismo. 
                  È importante osservare che, mentre nel periodo centrale, 
                  che va dal 1897 al 1914, pur essendosi emancipato dal positivismo, 
                  non ha ancora formulato chiaramente questi concetti, è 
                  solo nell’ultimo periodo che si verifica il distacco completo 
                  dal positivismo e dal determinismo. Tutto diventa più 
                  chiaro soprattutto quando ha queste intuizioni formidabili sul 
                  ruolo della scienza. È eccezionale se si pensa che nessuno 
                  diceva quello che diceva Malatesta sulla scienza, ad esempio 
                  che questa non può rispondere alle domande ultime della 
                  vita. E lo dice in un famoso articolo apparso su «Volontà» 
                  nel 1913, una critica radicale alla scienza e alla valutabilità 
                  della scienza. Se la scienza non può produrre né 
                  bene né male e la conoscenza scientifica è solo 
                  un mezzo, a sua volta anche la concezione anarchica non è 
                  «scientifica»: l’anarchia è qualcosa 
                  che verrà se si vorrà farla, è una eterna 
                  possibilità ma non insita nello sviluppo della storia, 
                  è una possibilità latente della civiltà 
                  umana, ma non un suo esito ineluttabile.     “O facite, o vi futtite”
 Mi sembra che lui lo sintetizzi splendidamente quando, 
                  rivolto ai contadini del Matese, li apostrofa così: «I 
                  fucili e le scuri ve li avimo dato, i curtelli li avite. Se 
                  volete facite, e se no vi futtite». A tuo parere questo 
                  è uno dei momenti fondamentali della consapevolezza di 
                  Malatesta su come affrontare il problema rivoluzionario.  Certo, quando comprende che le minoranze possono rompere una 
                  situazione, ma non costruirla, perché questo possono 
                  farlo solo le masse. È come una minoranza che entra in 
                  una prigione e apre le porte, ma non può poi costringere 
                  i detenuti ad uscire.  Tornando alle tre fasi evolutive di cui stavamo parlando, 
                  ci sono cesure fra queste oppure c’è un unico filo 
                  che le lega?  C’è la cesura alla fine degli anni novanta, quando 
                  si rende conto che la rivoluzione non può essere fatta 
                  da quattro gatti, ma deve essere un’impresa collettiva. 
                  E che come tale va contestualizzata in un determinato spazio 
                  e in un determinato tempo, e tu non puoi determinarli astrattamente, 
                  ma devi calartici e fartene pervadere. In questo senso è 
                  tra i primi a concretizzare l’incontro con il sindacalismo, 
                  e lo stesso Pelloutier riconoscerà che gli spunti fondamentali 
                  gli erano stati dati nel 1893 da Malatesta assieme a Merlino. 
                 E quando questa elaborazione arriva a completa evoluzione, 
                  il problema della organizzazione diventa centrale.  Se analizziamo il Patto associativo della Unione anarchica 
                  italiana, scritto da Fabbri nel 1920, ma in effetti ispirato 
                  da Malatesta, vediamo che è di grandissima modernità, 
                  perché vi troviamo il massimo concetto di organizzazione 
                  compatibile con il massimo concetto di libertà individuale 
                  e collettiva. Questo è il punto più alto dello 
                  sforzo, perché prefigura un equilibrio che definirei 
                  addirittura artistico. È davvero eccezionale e vi è 
                  condensato tutto il pensiero di Malatesta: l’organizzazione 
                  è indispensabile, ma solo se piegata al fine e non il 
                  fine piegato all’organizzazione. Questa è la chiave 
                  di volta per capirne la modernità.  Quindi cesure da un punto di vista tattico e strategico, 
                  ma non da un punto di vista etico.  Lui rimane sempre contro la storia. Fino alla fine. Tutte le 
                  forme storiche mutano e bisogna avere la consapevolezza di questo 
                  mutamento, ma questo non deve condizionare i nostri fini. Noi 
                  dobbiamo prendere questi fini e relazionarli alle diverse circostanze, 
                  ma senza mutarli.  Il momento centrale è sempre la volontà 
                  che determina l’etica. In questo si differenzia da tutti 
                  gli altri.   Certo. Per questo è il più grande rivoluzionario, 
                  ma anche come statura intellettuale, perché lui riusciva 
                  a vedere oltre anche grazie alla sua esperienza di vita. Uno 
                  che è stato in tutto il mondo, in America latina e in 
                  America del nord, in Inghilterra e in Francia, in Spagna e in 
                  Olanda, ma chi altri? Turati, oltre Milano, cosa aveva visto? 
                  E Costa, a parte un pezzo di Francia? Tieni poi presente che, 
                  purtroppo, il mio lavoro riporta alla luce solo un 20% di quello 
                  che ha fatto Malatesta, mentre il resto è sommerso in 
                  una coltre coperta dal tempo e che nessuno potrà più 
                  ricostruire. Ad esempio, non sappiamo nulla dei tentativi che 
                  non sono andati a buon fine, ma questo non significa che, per 
                  il fatto che non siano andati a buon fine, siano da considerare 
                  degli aborti. Non possiamo sapere se e cosa hanno effettivamente 
                  provocato, conosciamo solo gli effetti, e può essere 
                  che non sappiamo quale sia stata la vera causa che li ha generati. 
                 Quali sono gli aspetti più importanti del pensiero 
                  malatestiano, della sua elaborazione teorica, come della sua 
                  riflessione intellettuale?  La cosa più importante consiste nell’aver scisso 
                  l’etica dalla conoscenza scientifica, affermando così 
                  che l’etica non ha un fondamento oggettivo. Poi c’è 
                  la critica del positivismo e dello scientismo, e la grande lucidità 
                  nel capire che nella storia umana non contano i rapporti di 
                  forza, ma quelli esistenziali. E che le costruzioni razionali 
                  del mondo non hanno fondamento, perché il mondo si muove 
                  non per cause razionali, ma esistenziali. Qui Malatesta ha una 
                  lucidità davvero spaventosa, perché comprende 
                  che, cambiando i rapporti di forza, cambiano anche le visioni 
                  razionali della vita e della storia. Questo nella pratica, lo 
                  porta a pensare che gran parte delle diatribe di carattere ideologico 
                  in fondo sono fasulle, perché sui problemi veri ci si 
                  trova uniti e, se si guarda alla sostanza, la realtà 
                  impone un approccio esistenziale che immediatamente risolve 
                  le fumisterie di carattere ideologico.  Questo si riflette anche nel fatto che Malatesta, pur 
                  essendo un grande realista, non è mai per la Realpolitik. 
                   Eh, no, perché altrimenti sarebbe per il compromesso. 
                  Lui è invece realista, e questo realismo è al 
                  tempo stesso la sua forza e la sua debolezza, perché 
                  determina anche continue sconfitte: sarebbe infatti facile vincere 
                  inseguendo la Realpolitik, ma così piegheresti il fine 
                  che ti sei proposto, scardinando in tal modo la necessarietà 
                  della coerenza. A lui interessava creare una situazione rivoluzionaria, 
                  pensava che fosse necessario che tutte le forze sovversive potessero 
                  manifestare i propri progetti, ed era sicuro che, poiché 
                  il movimento anarchico è il più razionale e universale, 
                  in una libera concorrenza di idee avrebbe vinto lui. In questo 
                  senso possiamo dire che in lui c’era una forte matrice 
                  illuminista.  Si parla del gradualismo rivoluzionario, riformatore, 
                  del senso della sperimentazione.  Il gradualismo non è riformismo, perché questo 
                  è un accomodamento con la realtà, mentre lui vuole 
                  fare la rivoluzione. Solo che la rivoluzione e la costruzione 
                  della società futura non possono essere fatte dalla sera 
                  alla mattina, ma devono passare attraverso la libera sperimentazione. 
                  Il suo è un atteggiamento laico, perché non prevede 
                  nessuna formula, né il comunismo, né il socialismo, 
                  né il mutualismo. Sarà la realtà a dire 
                  come andranno le cose. In questo senso, il suo è un pluralismo 
                  sperimentatore.      Non dogmatico
 Questo concetto della sperimentazione, che è 
                  alla base del suo laicismo, questa capacità di prefigurare 
                  varie possibilità di realizzazione dell’anarchia, 
                  tutto questo forse spiega come si sia potuto far comprendere 
                  ovunque. E lo dimostra la sua fortuna editoriale, con le innumerevoli 
                  traduzioni delle sue opere. Secondo alcuni calcoli, solo in 
                  Italia sarebbero state tirate circa 300.000 copie del Fra 
                  Contadini e, contando le traduzioni estere, ci si avvicina 
                  al milione. Questo ci parla della sua universalità, fatta 
                  di laicismo ideologico e di aderenza del suo pensiero alle situazioni 
                  reali. In sessanta anni di attività rivoluzionaria, Malatesta 
                  viene a confrontarsi con tutti i problemi inerenti all’essenza 
                  dei movimenti rivoluzionari, sia etici che politici, sia strategici 
                  che tattici. Tra questi, tra i più importanti, il rapporto 
                  tra democrazia e dittatura, il problema dell’insurrezionalismo, 
                  quello della violenza. Nel confrontarsi con questi, a volte, 
                  offre risposte differenti.  Non essendo un dogmatico, le circostanze hanno molta importanza, 
                  quindi anche le risposte possono non essere sempre uguali. La 
                  violenza è una dolorosa necessità e un rivoluzionario 
                  non può rifiutarla per principio, però bisogna 
                  che ce ne sia sempre il meno possibile. Ecco perché dice 
                  che bisogna usare tutta la violenza necessaria subito, così 
                  da non doverla usare dopo, e che deve essere intesa solo come 
                  la risposta all’offesa altrui, e non come violenza pura. 
                  Anche rispetto al problema delle concezioni ideologiche, comunismo, 
                  collettivismo, individualismo, ecc., Malatesta non li considera 
                  problemi essenziali perché sono solo formulazioni ideologiche. 
                 A un certo punto però passa definitivamente 
                  dal collettivismo al comunismo.  Certo, ritiene che il comunismo sia la soluzione migliore, 
                  però non dice mai che è l’ultima parola, 
                  perché alla fine quello che veramente interessa agli 
                  anarchici è la libertà.  Se, in quella prima fase di cui parlavamo, le sue posizioni 
                  potevano apparire, non dico settarie, ma molto interne al movimento 
                  e rigide rispetto al dialogo con una realtà più 
                  ampia, progressivamente, e soprattutto nella terza fase, diventa 
                  più possibilista, più disposto ad accettare e 
                  accentuare il gradualismo. Questa sua parabola mi sembra la 
                  stessa del movimento anarchico.  E qui si inserisce il problema del fascismo e la comprensione 
                  di quel fenomeno. Nel mio libro affermo che, soprattutto agli 
                  inizi, Malatesta non si rende conto della «originalità» 
                  del fascismo (e in questo si trova in buona compagnia, con Gramsci, 
                  Togliatti, Nenni, Salvemini...), del suo carattere totalitario. 
                  Ma quando, tra il 1924 e il 1926, subisce direttamente la dittatura 
                  e gli viene impedito qualsiasi movimento, quando avverte lo 
                  smantellamento dello stato liberale, allora comprende l’importanza 
                  del suo retaggio storico. Questo è il maggiore contraccolpo 
                  del fascismo sul pensiero di Malatesta, che si riflette anche 
                  in quelle considerazioni su democrazia e dittatura che, una 
                  ventina di anni prima, erano state al centro della sua polemica 
                  con Merlino. Ora non dice più che la democrazia è 
                  uguale alla dittatura, ma piuttosto che gli anarchici non sono 
                  democratici, e questo è ben differente.  Quindi, probabilmente, se la polemica con Merlino fosse 
                  stata fatta in altri momenti, per certi versi avrebbe detto 
                  molte delle cose dette da Merlino?  Indubbiamente, ma questo non toglie nulla alla sua eticità 
                  rivoluzionaria, perché avrebbe riaffermato anche le sue 
                  convinzioni. Ciò su cui si deve intervenire, che bisogna 
                  rimettere a posto, è l’apparato dei mezzi, non 
                  quello dei fini. Non bisogna mai, infatti, intaccare i fini, 
                  perché questi non dipendono dalla circostanza. Qui sta 
                  la grandezza, ma anche la drammaticità, del pensiero 
                  di Malatesta. Un lettore superficiale potrebbe pensare che fosse 
                  un idealista, mentre lui è un materialista, ma drammatico, 
                  e proprio perché é un materialista, non può 
                  fondare gli ideali nella circostanza materiale. È questo 
                  il punto più alto della riflessione di Malatesta.  Un altro aspetto fondamentale del lavoro e dell’attività 
                  di Malatesta è la comprensione della dimensione sociale 
                  dell’anarchismo rivoluzionario. Sappiamo che in più 
                  momenti, nella storia dell’anarchismo, si incontrano una 
                  dimensione filosofica avulsa dalla realtà o una individualista 
                  di carattere asociale, e con queste tendenze Malatesta ha dovuto 
                  polemizzare per anni e anni.  Basti pensare a tutto il tempo che Malatesta ha perso con gli 
                  individualisti. Parlare della mancanza di una dimensione sociale 
                  sarebbe come chiedersi se possiamo fare a meno dell’aria. 
                  Questa è un’ipotesi che, ovviamente, non può 
                  neppure essere messa in discussione, eppure Malatesta doveva 
                  dibattere anche con chi voleva togliere l’aria. La sua 
                  dimensione della socialità, comunque, è intesa 
                  nella sua complessità, nel fatto che l’uomo è 
                  un essere complesso e quindi, essendo complesso, è anche 
                  un essere sociale. Anche con una dimensione individualistica, 
                  se vogliamo, comunque sempre sociale, perché non puoi 
                  toglierlo dal suo contesto.  Descrivendo i testi propagandistici e divulgativi di 
                  Malatesta, Al caffè, Fra contadini 
                  e L’Anarchia, che definisci il grande trittico 
                  di questo rivoluzionario, tu parli di metodo socratico, di un 
                  metodo dialogico e pedagogico.  Questo è molto evidente sia in Fra contadini 
                  sia in Al caffè. Cosa si intende per metodo 
                  socratico? Dare la possibilità all’interlocutore 
                  di giungere in modo autonomo alla «verità» 
                  senza imporgli dogmaticamente dei principi, ma aprendogli tutte 
                  le possibilità. Vediamo come si svolge. Malatesta fa 
                  dire a un interlocutore: tu fai questa affermazione; bene, questa 
                  a sua volta implica tot possibilità e allora 
                  le vai a esaminare, e ognuna di queste ne implica altre ancora; 
                  e vai a vedere anche queste e si va avanti così finché, 
                  di deduzione in deduzione, si arriva a una conclusione. Questo 
                  è veramente un metodo socratico!  
  Dalla Bulgaria all’Argentina
 E in questa complessità, riesce sempre a conservare 
                  una straordinaria semplicità espositiva.  E come spiegheresti, altrimenti, che Fra contadini 
                  venga letto dalla Bulgaria all’Argentina? È talmente 
                  universale e geniale quel dialogo! E guarda anche Al caffè, 
                  dove i personaggi sono il repubblicano, il conservatore, il 
                  rivoluzionario, il socialista, l’anarchico e così 
                  via. Attraverso gli attori rappresenta tutti i movimenti.  Veniamo ora a quella che forse è la sua opera 
                  «definitiva», il Programma anarchico, scritto a 
                  cavallo del secolo e poi riveduto, fino alla stesura conclusiva, 
                  discussa e accettata al Congresso dell’UAI del 1920. La 
                  sua accettazione, tra l’altro, è ancora il presupposto 
                  per l’adesione alla FAI. È ancora valido, e credi 
                  anche che Malatesta lo riscriverebbe uguale?  A mio parere è ancora più che valido. Al massimo 
                  potrebbe essere ritoccato qua e là, ma i punti restano 
                  quelli, i fini restano quelli, cosa potresti dire di più? 
                  Quando ad esempio parla di «Organizzazione della vita 
                  sociale per opera di libere associazioni e federazioni, fatte 
                  e modificate secondo la volontà dei componenti, guidati 
                  dalla scienza e dall’esperienza e liberi da ogni imposizione 
                  che non derivi dalle necessità naturali, a cui ognuno, 
                  vinto dal sentimento stesso della necessità ineluttabile, 
                  volontariamente si sottomette». Questo cosa vuol dire? 
                  Che è inutile che discutiamo perché la circostanza 
                  impone la consapevolezza del principio di realtà. Ad 
                  esempio, se noi cerchiamo di realizzare un progetto, possiamo 
                  ovviamente discutere su come farlo andare avanti, ma se ci scontriamo 
                  con un fatto oggettivo, allora dobbiamo sottometterci a un qualcosa 
                  che non si può determinare. Quindi la libertà 
                  è in rapporto con questa necessità naturale, ma 
                  quel «fatte e modificate» sta a significare che 
                  nulla è definitivo. È tutto in tre parole. E anche 
                  quando parla della famiglia! «Ricostruzione della famiglia 
                  in quel modo che risulterà dalla pratica del libero amore 
                  da ogni vincolo legale, da ogni oppressione economica o fisica, 
                  da ogni pregiudizio religioso». Lui non è per l’abolizione 
                  della famiglia, del nucleo famigliare, perché dice che 
                  è un’entità insuperabile.  Per concludere. Finora abbiamo parlato del Malatesta 
                  politico, dell’agitatore, del Malatesta pensatore e divulgatore 
                  dei principi anarchici. Un tuo giudizio umano su Malatesta. 
                   Malatesta è il più grande rivoluzionario dei 
                  suoi tempi, questo è scontato. Ma, secondo me, per la 
                  sua levatura etica e morale, è anche uno dei più 
                  grandi uomini di questa epoca, alla pari con un Gandhi, un Tolstoj, 
                  con questi giganti dell’Otto e Novecento. E questa ormai 
                  sta diventando opinione comune anche fra storici di estrazione 
                  marxista. Proprio recentemente D’Orsi, recensendo il mio 
                  libro su «La Stampa», definisce Malatesta come uno 
                  dei più grandi protagonisti della scena antagonista del 
                  Novecento. Come si fa a negarne la grandezza? Certo, Bakunin 
                  ha inventato l’anarchismo, ma Malatesta è l’anarchico 
                  integrale e anche il più moderno, e il movimento anarchico 
                  e l’anarchismo sono impensabili senza di lui.   Massimo Ortalli
  Errico 
                  Malatesta visto da Fabio Santin
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