| Negli ultimi trent’anni 
                  la storiografia sull’anarchismo ha compiuto significativi 
                  progressi, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo. 
                  Opere di vario genere hanno gettato luce su figure, aspetti, 
                  momenti e problemi della storia libertaria italiana e internazionale, 
                  ampliando e approfondendo il quadro generale della sua conoscenza. 
                  Quasi tutti questi lavori, tuttavia, hanno posto l’attenzione 
                  sui personaggi e sugli avvenimenti più noti ed emblematici, 
                  con l’inevitabile conseguenza di delineare un quadro «elitario» 
                  del fenomeno. Mancava cioè, fino ad oggi, una storia 
                  «di base», una storia di quelle migliaia e migliaia 
                  di oscuri militanti che hanno costituito in gran parte il tessuto 
                  connettivo del movimento. Il presente dizionario, ovviamente, 
                  non può colmare tale lacuna; costituisce però, 
                  con le sue duemila voci, uno strumento fondamentale per progredire 
                  in tal senso. Gran parte dei personaggi qui biografati sono, 
                  infatti, «portati alla luce» per la prima volta, 
                  permettendo una conoscenza più ricca del fenomeno anarchico. 
                  Si tratta di uno squarcio della storia politica e sociale italiana 
                  del tutto inedito, che allarga notevolmente lo sguardo generale 
                  sul movimento operaio e socialista e anche, naturalmente, sulla 
                  storia del sovversivismo nazionale e internazionale. Complessivamente 
                  esso copre un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento 
                  alla fine degli anni Sessanta del Novecento, con alcuni prolungamenti 
                  biografici giunti fino ai nostri giorni.  
 Attilio Bulzamini, secondo da 
                  destra, in partenza per la Spagna  Tre anni di lavoro
 Frutto di un lavoro archivistico e bibliografico che per tre 
                  anni ha impegnato a vari livelli oltre un centinaio di studiosi, 
                  esso presenta alcune caratteristiche delle quali è necessario 
                  dar conto. Come si può vedere dalle fonti utilizzate, 
                  la ricerca si è mossa in varie direzioni, al fine di 
                  offrire uno spaccato documentario e interpretativo il più 
                  vario e articolato possibile. Sono stati utilizzati innanzitutto 
                  i documenti relativi al Casellario Politico Centrale depositati 
                  presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, che, come 
                  è noto, offrono la possibilità di ricostruire 
                  l’attività e i movimenti principali dei soggetti 
                  sottoposti al controllo; questi documenti sono stati integrati 
                  con altre carte di polizia e di prefettura provenienti da fonti 
                  diverse. Naturalmente la ricognizione è avvenuta sulla 
                  base della consapevolezza che tali testimonianze presentano 
                  due fondamentali caratteristiche: da una parte l’aspetto 
                  descrittivo e burocratico, dall’altra quello ermeneutico 
                  e storiografico. In generale, lo storico dell’anarchismo è interessato 
                  solo alla prima caratteristica. Questa, infatti, se gli informatori 
                  sono dei veri professionisti, è costituita dalla somma 
                  – a volte anche copiosa – delle relazioni stese 
                  dagli investigatori sull’attività dei soggetti 
                  sottoposti a sorveglianza. Possiamo così avere una mappa 
                  abbastanza dettagliata degli spostamenti e delle relazioni dei 
                  militanti, acquisendo anche la conoscenza del contesto sociale 
                  e geografico entro cui tutto ciò è avvenuto. Va 
                  tuttavia tenuto presente che queste stesse fonti non sempre 
                  sono attendibili perché la pura registrazione dei fatti 
                  svoltisi nel tempo e nello spazio dice comunque poco rispetto 
                  alla trama effettiva d’azione e d’intenti che animava 
                  veramente i protagonisti. Il movimento anarchico, infatti, è 
                  stato fin dal suo inizio un movimento antilegalitario e rivoluzionario: 
                  senza dubbio, in generale, il più antilegalitario e il 
                  più rivoluzionario dell’intero sovversivismo italiano. 
                  Data questa inequivocabile natura, molte azioni e, ancor più, 
                  molti intenti d’azione, non avendo avuto un seguito concreto 
                  e visibile, sono rimasti ignoti ai contemporanei e ai posteri. 
                  Gli stessi anarchici, poi, quasi mai hanno ricostruito le varie 
                  vicende che li hanno visti protagonisti. Naturalmente queste 
                  considerazioni non implicano affatto l’idea che tali zone 
                  d’ombra costituiscano la parte più interessante 
                  della storia dell’anarchismo: la parte più interessante 
                  e più importante della storia dell’anarchismo è 
                  quella che già conosciamo. Detto questo, vanno comunque 
                  considerati degni di studio tali anfratti storici ed è 
                  ovvio, a questo punto, che le uniche fonti utili per far luce 
                  su di essi siano fornite dagli archivi della questura, della 
                  prefettura e della magistratura.
 
 Alberico Angelozzi  40 paesi 5 continenti
 Il fatto che tale documentazione governativa sia stata quasi 
                  sempre presente in questa ricerca, costituendone per molti aspetti 
                  la base principale, è dovuto anche alla ovvia considerazione 
                  che l’azione degli anarchici è, per sua natura, 
                  un’azione immediatamente politica. Il suo carattere 
                  fortemente antilegalitario e rivoluzionario li ha continuamente 
                  posti in un rapporto diretto con le autorità costituite, 
                  attraverso una lotta che si è svolta – come dire 
                  – in prima persona. Ciò spiega perché molti 
                  militanti, al fine di sottrarsi ai vari mandati di cattura, 
                  hanno dovuto sottoporsi a continui e logoranti spostamenti tra 
                  diverse città e regioni e anche, molte volte, a ripetuti 
                  espatri in vari Paesi. Rispetto all’intera massa dei biografati 
                  qui considerata, sono circa il 60% quelli che sono emigrati 
                  dall’Italia almeno per una volta nella propria vita, rimanendovi 
                  lontani oltre sei mesi. Gli anarchici biografati emigrano in 
                  tutto il mondo, toccando oltre 40 destinazioni diverse, dalle 
                  Antille all’Argentina, dalla Bulgaria al Paraguay. Raccogliendo 
                  – per semplicità – i paesi di destinazione 
                  per continente, risulta che gli anarchici italiani soggiornano 
                  prevalentemente in altri paesi europei (70% delle migrazioni 
                  registrate), in particolare in Francia, Spagna, Svizzera e Belgio, 
                  che sono anche fra i paesi più toccati in assoluto (rispettivamente 
                  700, 260, 230 e 130 soggiorni di almeno 6 mesi ciascuno). Seguono 
                  come aree di destinazione l’America latina (13,5%), dove 
                  spicca soprattutto l’Argentina (120 soggiorni), e l’America 
                  del nord anglofona (9,7%, con 150 soggiorni negli Stati Uniti). 
                  L’Africa nel complesso accoglie il 6,2% dei movimenti 
                  migratori, diretti in particolare verso i paesi dell’Africa 
                  mediterranea (Algeria, Egitto e Tunisia). Asia e Australia, 
                  invece, sono mete marginali, con uno 0,3% di soggiorni. Ovviamente 
                  questo dato non è tutto politico, perché molte 
                  emigrazioni sono avvenute anche per altri motivi, soprattutto 
                  per cercare lavoro, ma non si deve dimenticare che spesso la 
                  disoccupazione dei militanti – anche nella più 
                  tranquilla età giolittiana – non era il semplice 
                  portato dell’andamento del mercato del lavoro, ma il risultato 
                  di un processo di emarginazione (licenziamenti e sfratti) del 
                  quale era in larga misura responsabile il continuo e assillante 
                  controllo poliziesco. Il dato in ogni caso conferma ulteriormente 
                  l’idea che, in generale, la vita del militante anarchico, 
                  migrante irrequieto o continuo soggetto di espulsione da una 
                  patria «matrigna», sia stata sempre molto movimentata. 
                  Lo testimonia, del resto, la somma davvero impressionante delle 
                  denunce, delle ammonizioni, degli arresti, delle detenzioni, 
                  dei domicili coatti e di qualsiasi altra forma repressiva collezionata 
                  dagli anarchici (ad esempio, solo nel 1894 risultano 560 gli 
                  anarchici finiti al domicilio coatto). Da questo punto di vista 
                  è incomparabile il tasso di repressione esercitato dalle 
                  autorità governative verso i libertari, rispetto alle 
                  altre forze politiche di segno antimonarchico e anticapitalistico. 
                  Il che, naturalmente ha degli effetti non secondari, nel moltiplicare 
                  ed accelerare i movimenti migratori. Tutto ciò emerge 
                  in modo inequivocabile da quasi tutte le biografie raccolte 
                  nella presente opera. Di qui la difficoltà, per lo studioso, 
                  di ricostruire i percorsi dei militanti, sia sotto il profilo 
                  puramente materiale, sia sotto quello politico e sociale, considerando 
                  anche il dato della forte valenza internazionalistica dell’anarchismo. 
                  Si deve infatti osservare che la ripetuta circolazione europea 
                  e atlantica dei suoi maggiori esponenti deriva, per l’appunto, 
                  da questa caratteristica, che appare del tutto unica rispetto 
                  alle altre formazioni del movimento operaio e socialista. Quest’ultimo, 
                  tra Otto e Novecento, subisce un processo di nazionalizzazione, 
                  mentre l’ala libertaria mantiene inalterata la dimensione 
                  transnazionale della sua azione politica.  
 Pasquale Binazzi  «Immaginario» poliziesco
 Di scarsa – per non dire nulla utilità – 
                  è invece il secondo aspetto accennato sopra, vale a dire 
                  quello propriamente storiografico ed ermeneutico. I rapporti 
                  di polizia e le varie relazioni sugli intenti d’azione 
                  degli anarchici, stilati dagli investigatori, rimangono inevitabilmente 
                  «fuori» dalla vera natura delle cose. Tali documenti, 
                  che pretendono di interpretare l’anarchismo, non solo 
                  sono quasi sempre «grossolani» per l’utilizzo 
                  costante di categorie definitorie burocratiche e precostituite, 
                  ma anche viziati da un ovvio pregiudizio a favore dell’ordine 
                  costituito, che spinge inevitabilmente l’occhio dell’indagatore 
                  a «demonizzare» ogni mossa dell’avversario, 
                  rendendo insignificanti anche quegli elementi di rilievo che 
                  potrebbero verificarsi in un determinato contesto. E ciò 
                  perché tutte le azioni e tutti gli intenti sono posti 
                  sullo stesso piano: il risultato, quasi sempre, è quello 
                  di dedicare la medesima attenzione sia ad un insignificante 
                  episodio sia ad un fondamentale avvenimento. Volendo spingere 
                  in avanti tali considerazioni, potremmo dire che il panorama 
                  delle biografie degli anarchici qui presentate costituisce, 
                  semmai, una ricca e avvincente documentazione dell’«immaginario» 
                  poliziesco in relazione alle sue capacità di valutare 
                  i pericoli reali (dopo Bresci l’ossessione dell’attentato 
                  ai reali determina situazioni che sfiorano la comicità 
                  dell’assurdo) e di difendere lo Stato dagli assalti del 
                  sovversivismo. Ma ciò apre un capitolo di storia istituzionale 
                  che non costituisce oggetto precipuo di questa trattazione. 
                  Naturalmente è stata tenuta in debito conto la differenza 
                  tra le carte prodotte dalla polizia e dalla magistratura durante 
                  l’età liberale e quelle prodotte dalla polizia 
                  e dalla magistratura nel periodo fascista. La differenza consiste 
                  nel fatto che durante la dittatura tutto diventa illegale ed 
                  è perciò facile, per il ricercatore, cadere nella 
                  trappola di «caricare» d’eccessiva importanza 
                  alcuni avvenimenti minori: molti documenti che affollano e appesantiscono 
                  i faldoni archivistici del Casellario Politico Centrale sono 
                  il frutto maniacale di un enfatico rigore poliziesco che giunge 
                  a punte parossistiche (continui e isterici allarmi per questa 
                  o quest’altra possibile azione contro il regime). Quante 
                  «reti» di cospiratori, quanti complessi movimenti 
                  sospetti sono risultati, a un più attento esame, il semplice 
                  frutto della casualità o del modesto sforzo di piccolissimi 
                  gruppi. In conclusione, per lo storico dell’anarchismo 
                  le fonti di polizia sono indispensabili per ricostruire la cornice 
                  dei fatti, quasi mai, invece, per interpretare il quadro esistente 
                  entro tale cornice.
  Analisi di testi e opuscoli
 Oltre alle fonti offerte dalle carte di polizia, della prefettura 
                  e della magistratura, la ricerca si è avvalsa anche della 
                  stampa periodica anarchica e socialista. Questa ricognizione 
                  è stata poi arricchita dall’analisi dei testi e 
                  degli opuscoli (compresa la memorialistica) pubblicati dai militanti. 
                  In questo caso si è proceduto ad un raffronto continuo 
                  tra la documentazione archivistica e la documentazione bibliografica, 
                  onde individuare il più possibile i punti di consonanza 
                  e i punti di contraddizione. In tal modo si è avuta la 
                  possibilità di «limare» e di rendere più 
                  coerenti molte voci biografiche. Un ulteriore raffronto è 
                  avvenuto comparando molte biografie tra loro, consultando gli 
                  archivi familiari, quelli del movimento libertario e raccogliendo 
                  testimonianze orali, con lo scopo di eliminare eventuali discrepanze 
                  e con il fine di individuare, nel contempo, situazioni ed avvenimenti 
                  comuni, considerandoli alla luce dei grandi momenti della storia 
                  politica e sociale italiana. Si è trattato di un lavoro 
                  complesso rivelatosi lungo e minuzioso e che ha dato buoni frutti, 
                  anche se, inevitabilmente, sono rimaste alcune zone d’ombra 
                  difficili da rischiarare. Poiché l’oggetto di indagine è stato il 
                  movimento anarchico italiano, lo scavo storiografico si è 
                  modellato sulla base di un criterio metodologico preciso: porre 
                  in primo piano l’azione dei suoi aderenti, cercando di 
                  calarla nel contesto più generale della storia politica 
                  e sociale del tempo. Di qui il tentativo di correlare gli eventi 
                  del mondo libertario con quelli del mondo repubblicano, socialista 
                  e operaio-sindacalista. Si può notare, a questo proposito, 
                  come la forte contiguità fra le varie formazione dell’Estrema 
                  si rinsaldi in modo particolare nei momenti di maggior scontro 
                  sociale e politico. Il quadro complessivo che ne è uscito 
                  rivela in modo assai preciso la natura storica del fenomeno 
                  anarchico, che in parte conferma e in parte smentisce alcune 
                  idee storiografiche rimaste pressoché dominanti fino 
                  ad oggi.
 Nel Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale 
                  dello Stato di Roma – Casellario istituito alla fine dell’Ottocento 
                  e rimasto in vigore fino alla Seconda Guerra mondiale – 
                  risultano conservati complessivamente, per l’intero periodo, 
                  152.652 fascicoli personali, di cui 26.626 (pari al 17% circa) 
                  sono schedati come anarchici. Secondo una stima governativa 
                  ufficiale stilata nel 1913, gli anarchici italiani militanti 
                  risultavano allora 4.968, mentre i biografati raggiungevano 
                  il numero di 9.198. Era considerato anarchico militante chi 
                  aderiva alle organizzazioni ufficiali, mentre il biografato 
                  era giudicato tale indipendentemente dall’appartenenza 
                  o meno a un’associazione. Si tratta di una cifra di tutto 
                  riguardo, qualora si considerino i numeri presenti contemporaneamente 
                  nello schieramento della sinistra italiana. In termini «partitici», 
                  cioè di stretta militanza e appartenenza, l’inferiorità 
                  numerica dei libertari non era così significativa rispetto 
                  alle altre formazioni anticapitalistiche e antimonarchiche: 
                  gli anarchici (circa 9.000) risultavano poco meno di un terzo 
                  dei repubblicani (33.000) e circa un quarto dei socialisti (40.000). 
                  Comunque, dei 26.626 anarchici schedati, annoverati per tutto 
                  il periodo in cui è rimasto in vigore il Casellario, 
                  il presente dizionario ne riporta, sotto forma di lemma, circa 
                  un decimo. In realtà, la cifra è decisamente superiore, 
                  perché spesso sotto una voce apparentemente singola vengono 
                  segnalati più individui. È il caso tipico di alcuni 
                  gruppi familiari biografati sotto il nome dell’esponente 
                  più significativo, padre, madre, fratello, compagno che 
                  fosse, quando non è parso opportuno dare loro uno spazio 
                  autonomo per povertà di notizie o per scarsità 
                  di rilievo del personaggio. Un esempio per tutti. Di Angelo 
                  Galli, morto poco più che ventenne, e i cui funerali 
                  sono entrati nella storia della pittura grazie ad un fortunato 
                  quadro di Carlo Carrà, non si conosce quasi nulla, ma 
                  Angelo figura nella voce dedicata al fratello Alessandro, importante 
                  organizzatore sindacale. A volte, però, non sono i legami 
                  familiari a tenere assieme più individui ma eventi o 
                  azioni collettive che in qualche modo ne esauriscono la parte 
                  recitata nella storia dell’anarchismo e che sono stati 
                  collegati nel dizionario ad una figura che finisce per costituire 
                  il capofila di un gruppo più o meno nutrito.
 
 Carlo Cafiero  Fugace apparizione
 Tenuto conto poi che in numerosi casi i personaggi presenti 
                  nel Casellario Politico Centrale (non per tutti esiste un cenno 
                  biografico vero e proprio) hanno fatto solo una fugace apparizione 
                  nel mondo libertario, possiamo senz’altro dire che il 
                  campione considerato è più che rappresentativo 
                  e riflette in modo abbastanza attendibile le caratteristiche 
                  generali dell’intero movimento. La scelta è avvenuta 
                  tenendo conto dell’incidenza e dell’importanza che 
                  i soggetti presi in esame hanno avuto nei confronti della più 
                  generale storia anarchica e socialista, aggiuntovi il criterio 
                  elementare dell’autodichiarazione ideologica dei militanti 
                  stessi e dell’effettiva attività da loro svolta. 
                  Per la maggior parte si tratta di individui che sono rimasti 
                  politicamente sulla breccia per molti anni, nella quasi totalità 
                  sono uomini, le donne rappresentano solo il 3% circa dei biografati. 
                  Questo dato è comune con il resto delle formazioni politiche 
                  dell’epoca e conferma il fatto che la politica, nel periodo 
                  considerato, è un fenomeno soprattutto «maschile» 
                  nel senso che essa è figlia di una cultura dominante 
                  legata ad un mondo dove le donne sono ancora considerate solo 
                  un’appendice dell’umanità. Nel nostro caso 
                  specifico la conferma viene dalle stesse fonti di polizia che 
                  considerano l’attività politica svolta dalla donna 
                  quasi sempre subalterna a quella del marito/compagno tant’è 
                  che spesso i suoi dati sono inseriti nella scheda di quest’ultimo 
                  con pochi riferimenti e notazioni. Tuttavia, le poche biografie 
                  di donne che sono state inserite nel presente dizionario sono 
                  l’esempio di un cambiamento culturale e di costumi. Si 
                  tratta in alcuni casi di figure assai significative nel panorama 
                  italiano, come Virgilia D’Andrea, Nella Giacomelli e Leda 
                  Rafanelli, che rappresentano anche la viva testimonianza della 
                  presa di coscienza del mondo femminile di allora. Dalla ricerca sono stati deliberatamente esclusi tutti coloro 
                  che sono diventati anarchici durante e dopo gli anni della contestazione 
                  studentesca perché il loro anarchismo è molto 
                  diverso da quello «tradizionale», anche se, ovviamente, 
                  esistono elementi di forte continuità.
 Prima di affrontare questioni specifiche, vogliamo premettere 
                  che i dati raccolti sono stati inseriti in un data base che 
                  verrà periodicamente aggiornato in relazione al progresso 
                  delle ricerche storiche tramite il sito web http://www.dbai.it. 
                  Il quadro sintetico dei dati statistici, qui di seguito riportato, 
                  si riferisce appunto a tutte le schede biografiche giunte in 
                  redazione, comprese quelle che per motivi tecnici o per scelte 
                  redazionali non sono state inserite in questa edizione. Queste, 
                  comunque, rappresentano una percentuale minima dell’intero 
                  patrimonio della ricerca.
  Classi decennali
 Osserviamo innanzitutto che il 73% circa dei biografati è 
                  nato nel periodo che va dal 1860 al 1899; scomponendo il dato 
                  per classi decennali d’età, risulta che la percentuale 
                  di anarchici biografati nati nel decennio 1870-1879 è 
                  pari al 19,7%, e sale rispettivamente al 20,7% e al 22,1% nei 
                  due decenni successivi. Nell’arco dei vent’anni 
                  seguenti – 1900-1919 – la percentuale si riduce 
                  al 14,5%, mentre tra il 1920 e il 1939 si scende all’1,2% 
                  e tra il 1940-1959 allo 0,27%. Sono dati molto significativi 
                  perché individuano il periodo storico entro cui vi è 
                  stata la massima fortuna del movimento, vale a dire l’età 
                  coincidente con il primo cinquantennio della vita unitaria del 
                  Paese. Durante il regime fascista e, posteriormente, nel Secondo 
                  dopoguerra, l’anarchismo italiano subisce un calo numerico 
                  assai vistoso, fin quasi a segnalare, di fatto, una sua estinzione. 
                  Si dovrà attendere l’ondata del ’68 affinché 
                  esso ritorni in auge, tuttavia con forme, sentimenti e ideologie 
                  molto mutati rispetto al passato. Dunque l’espansione massima del movimento si ha soprattutto 
                  negli anni 1880-1914. Dopo la fase della Prima Internazionale, 
                  l’anarchismo italiano scandisce tre momenti fondamentali 
                  della sua storia: gli anni Novanta, che lo vedono particolarmente 
                  colpito dalla repressione crispina, suggellata dalla «crisi 
                  di fine secolo» (si aggiunga a questo, naturalmente, anche 
                  la dolorosa scissione con i socialisti avvenuta nel 1892); l’età 
                  giolittiana, in cui si assiste ad una sua parziale metamorfosi 
                  sotto la forma del sindacalismo rivoluzionario; infine il moto 
                  della Settimana rossa, dove si consuma – e si frantuma 
                  – la sua maggiore occasione rivoluzionaria e con la quale, 
                  si può dire, si chiude anche l’Ottocento barricadiero. 
                  I militanti che si trovano al centro di queste fasi storiche 
                  costituiscono la parte più ricca, sotto il profilo politico 
                  e ideologico, del movimento. Molti, naturalmente, fanno avanzare 
                  la propria vicenda biografica anche negli anni seguenti; tuttavia 
                  è qui che, per gran parte, si forma e si consolida l’eredità 
                  ideale dell’anarchismo: si tratta, in sostanza, di militanti 
                  pervasi da una «fede» antiautoritaria, anticapitalistica 
                  e socialista; donne e uomini, quasi tutti, formatisi nell’humus 
                  culturale del positivismo e dell’anticlericalismo. Essi 
                  sono altresì animati dalla profonda convinzione che sia 
                  cosa ovvia, giusta e indispensabile lottare per l’avvento 
                  della rivoluzione liberatrice. Sono quella parte dell’Italia 
                  che non si è arresa alla vittoria istituzionale della 
                  monarchia e che rifiuta radicalmente ogni sorta di compromesso 
                  politico e sociale, crede nel progresso ma, ancora più, 
                  nell’azione risolutrice prodotta da minoranze agenti. 
                  Non sono giacobini, ovviamente, però hanno alle spalle 
                  i miti rivoluzionari prodotti dall’Ottocento: il ’48, 
                  il Risorgimento, la Comune di Parigi (molto diverso sarà 
                  invece l’Ottobre del 1917); miti, peraltro, che sono giunti 
                  fino ai giorni nostri.
 L’entrata dell’Italia in guerra provoca un piccolo 
                  scossone nelle file libertarie perché una parte, peraltro 
                  molto minoritaria (anche se rumorosa), si dichiara a favore 
                  dell’intervento. Dal punto di vista numerico, l’interventismo 
                  anarchico italiano è irrilevante. Il fenomeno, però, 
                  è significativo in quanto evidenzia alcuni elementi eterogenei 
                  e contraddittori del carattere culturale dell’anarchismo 
                  dovuti all’evidente insorgenza idealistica e irrazionalistica, 
                  nel momento stesso in cui entrano in crisi molte credenze positivistiche 
                  ed evoluzionistiche; non a caso un certo numero di questi interventisti 
                  aderirà in seguito al fascismo. Nello stesso tempo, però, 
                  mette in luce la persistenza di modelli culturali contigui a 
                  quelli del mondo repubblicano, che affondano le proprie radici 
                  nella tradizione risorgimentale delle guerre di liberazione 
                  nazionale e in una ricca vena di tensioni di tipo garibaldino 
                  alla Cipriani. A questo proposito, le biografie riportate risultano 
                  assai emblematiche: da una parte, infatti, esse testimoniano 
                  un percorso che, oggi, potrebbe sembrare del tutto logico e 
                  scontato, dall’altra mettono in luce alcune ambivalenze 
                  dell’idea libertaria, la quale può effettivamente 
                  prestarsi a interpretazioni non completamente «canoniche» 
                  rispetto ai suoi fini ultimi.
 
 Maria Giaconi  Disgregazione lenta, ma irreversibile
 Con il Primo dopoguerra e poi il periodo fascista, la situazione 
                  cambia moltissimo perché, dopo un momentaneo protagonismo 
                  culminato nei moti per il caroviveri dell’estate del 1919 
                  e nell’occupazione delle fabbriche dell’agosto-settembre 
                  1920, inizia il periodo della disgregazione del movimento; disgregazione 
                  che sarà lenta, ma irreversibile. La lotta degli anarchici italiani contro il fascismo è 
                  stata fin dall’inizio una lotta radicale e senza esclusione 
                  di colpi. Anche in questo caso le voci biografiche riportate 
                  danno un supporto notevole a tale giudizio: laddove i militanti 
                  hanno potuto mettere in atto la propria autonoma azione, senza 
                  che questa fosse condizionata dai tatticismi e dalle titubanze 
                  delle altre forze politiche antifasciste (specialmente in alcune 
                  zone della Toscana, della Liguria, delle Marche e del Lazio), 
                  si è assistito alla notevole capacità di rispondere 
                  colpo su colpo alle azioni squadriste. Segno evidente che esisteva 
                  in queste aree un rapporto osmotico tra anarchici e popolazione 
                  locale. Possiamo osservare il fatto, molto significativo, che 
                  sono un centinaio i militanti, qui biografati, «arruolatisi» 
                  nelle formazioni degli Arditi del popolo (l’unico serio 
                  tentativo «militare» di risposta allo squadrismo 
                  nero); formazioni, peraltro, quasi sempre promosse e sostenute 
                  dagli anarchici stessi.
 Tra il 1922 e il 1927 vi è la diaspora drammatica degli 
                  esponenti maggiori e dei militanti più attivi; gli altri, 
                  quelli che non possono espatriare, sono messi a tacere o con 
                  il carcere o con il confino (per quest’ultimo aspetto, 
                  è possibile costatare che, a fronte del numero complessivo 
                  delle biografie prese in esame, i confinati risultano 228, pari 
                  al 12%). Molti militanti, anzi la stragrande maggioranza, ancor 
                  prima dell’istituzione del Tribunale Speciale, sono sottoposti 
                  a lunghi procedimenti penali che in gran parte si riferiscono 
                  alle lotte del Biennio rosso e all’opposizione armata 
                  al fascismo, subendo condanne durissime, come nel caso dei processi 
                  collettivi avvenuti in Toscana e Emilia Romagna. Coloro che 
                  sfuggono alle maglie della giustizia statale e fascista sono 
                  sorvegliatissimi ed impossibilitati ad agire. Si lacera, per 
                  i libertari, un tessuto politico-sociale stratificatosi nel 
                  corso dei decenni precedenti, con la perdita secca dell’aggancio 
                  organico con la realtà; una perdita che, in generale, 
                  non sarà più recuperata. È vero che la 
                  repressione dittatoriale colpisce anche le altre forze politiche, 
                  tuttavia si può affermare, senza alcun dubbio, che il 
                  movimento anarchico è quello che subisce, più 
                  di qualsiasi altra formazione antifascista, gli effetti devastanti 
                  dell’esilio politico. Sotto il profilo delle vicende strettamente 
                  biografiche (personali e pubbliche), si deve, infatti, sottolineare 
                  che molti militanti saranno bersagliati dalla repressione governativa 
                  anche nei Paesi che avevano concesso loro l’iniziale ospitalità, 
                  con il risultato di fiaccare in modo pesante le energie del 
                  movimento, spese soprattutto nell’opera di difesa politica 
                  e giudiziaria. Anche in questo caso, le voci esaminate testimoniano 
                  le drammatiche vicende di tali excursus, quasi sempre del tutto 
                  eccezionali rispetto a quelli offerti dalla maggior parte del 
                  fuoriuscitismo italiano. La mancanza di punti di riferimento 
                  internazionali – se escludiamo gli aiuti della vasta comunità 
                  libertaria italo-americana del Nord America, la Cnt spagnola 
                  durante la prima fase della Guerra Civile e la debole Ait berlinese, 
                  sostenuta soprattutto dalle piccole formazioni anarcosindacaliste 
                  svedesi e olandesi – impedisce agli anarchici di costituire 
                  robuste reti di appoggio che non siano quelle prodotte dal consueto 
                  volontarismo solidale.
  Contributo alla lotta antifascista
 A questo punto corre l’obbligo di ricordare l’enorme 
                  contributo degli anarchici italiani alla lotta antifascista 
                  combattuta in terra iberica. Sono quasi 250 – il 13% circa 
                  sul totale dei biografati – i militanti che sono accorsi 
                  nel 1936 a difendere la repubblica dall’assalto nazifascista 
                  e, ancor più, ad aiutare i compagni spagnoli nello sforzo 
                  titanico di costruzione di una nuova società: ci riferiamo, 
                  naturalmente, a quella Spagna rivoluzionaria descritta da Orwell 
                  nel suo Omaggio alla Catalogna. Gli anarchici nel complesso 
                  delle forze di volontari italiani che combatterono durante la 
                  Guerra civile sono secondi e di poco solo ai comunisti. Le ricerche 
                  storiografiche hanno individuato in poco più di 4.000 
                  gli italiani accorsi in Spagna, di questi circa un migliaio 
                  sono comunisti mentre le cifre riguardanti gli anarchici parlano 
                  di 700/800 volontari. In rapporto alla propria consistenza numerica, 
                  lo sforzo esercitato in Spagna dagli anarchici italiani con 
                  la perdita di molte vite si è rivelato, per alcuni aspetti, 
                  esiziale. Ciò spiega perché gli anarchici non 
                  abbiano avuto una parte determinante nella Resistenza: il movimento, 
                  per molti aspetti, era esangue. Tuttavia non sono nemmeno pochi 
                  – poco più di 200, pari al 10,6% delle biografie 
                  – coloro che hanno combattuto, anche con formazioni proprie, 
                  contro i nazifascisti. Venendo ora alla dislocazione geografica del movimento anarchico, 
                  che ratifica in un certo senso gli snodi principali della sua 
                  storia collettiva, anche qui abbiamo una conferma di alcune 
                  precedenti acquisizioni storiografiche perché si nota, 
                  senza ombra di dubbio, che la stragrande maggioranza del «popolo» 
                  anarchico si colloca nell’Italia centrosettentrionale. 
                  Spicca, in primo luogo, la Toscana con il 31% dei biografati, 
                  seguita dall’Emilia Romagna con il 15,5%, la Lombardia 
                  con il 10%, le Marche con il 7,3%, il Lazio con il 5,8%, il 
                  Veneto con il 4,7%, il Piemonte con il 4,6% e finalmente la 
                  Sicilia con il 4,2%; le altre regioni presentano un numero di 
                  militanti inferiore (considerando il medesimo periodo temporale, 
                  si tratta di una distribuzione che non è molto lontana 
                  da quella registrata dal partito socialista). Questi dati fotografano 
                  una situazione stabilitasi fin dall’ultimo ventennio dell’Ottocento 
                  (e protrattasi fino al Secondo dopoguerra), quando il movimento, 
                  dopo un’iniziale espansione nelle regioni meridionali, 
                  si era concentrato nella fascia centrale e centrosettentrionale 
                  della penisola.
 Il parziale spostamento del movimento dal Sud al Centro-Nord, 
                  avvenuto dopo gli anni Settanta dell’Ottocento, riflette 
                  indubbiamente il suo tasso di radicamento nel tessuto sociale 
                  ed economico del Paese, nel senso che il mutamento va letto 
                  considerando il contesto italiano della lotta antagonista fra 
                  capitale e lavoro. Certamente gli anarchici non rappresentano 
                  la punta più avanzata del movimento operaio in termini 
                  di stretto sviluppo industriale (se si considera, cioè, 
                  il classico triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria). Però, 
                  sotto questo riguardo, non sono neppure legati a una situazione 
                  di arretratezza, come è documentato dalla loro parziale 
                  metamorfosi nel sindacalismo rivoluzionario. Sono molte le voci 
                  biografiche dedicate a personaggi che hanno avuto anche posti 
                  di notevole responsabilità nel movimento sindacale (Camere 
                  del Lavoro, Leghe di Resistenza, Federazioni di categoria). 
                  Va ribadita perciò un’acquisizione che deve essere 
                  definitivamente fatta propria dalla storiografia: fino all’avvento 
                  del fascismo, il movimento anarchico è parte organica 
                  e attiva del movimento operaio e, più in generale, di 
                  tutto il movimento dei lavoratori. Lo è non soltanto 
                  sotto il profilo dell’azione politica, ma anche sotto 
                  quello della composizione sociale.
  Clamorosa smentita
 E veniamo, così, ad un altro elemento importante emerso 
                  dalla ricerca. I dati che essa offre smentiscono clamorosamente 
                  alcuni precedenti stereotipi storiografici relativi all’ambito 
                  sociologico. Se rammentiamo, infatti, ciò che è 
                  stato asserito quasi sempre sull’argomento – secondo 
                  cui il movimento anarchico era composto, per la maggior parte, 
                  dai ceti artigianali e piccolo borghesi (di qui la connessa 
                  – e sconnessa – idea della sua arretratezza politica, 
                  sociale e culturale) – si deve invece costatare che la 
                  stragrande maggioranza dei suoi aderenti proveniva dalle fasce 
                  sociali più basse. Si tratta, cioè, di un movimento 
                  autenticamente popolare, qualora si consideri che esso conta 
                  il 64,75% di lavoratori salariati, il 25% di lavoratori autonomi 
                  e poco più dell’8% di liberi professionisti. In 
                  realtà queste macro aggregazioni ci dicono ancora poco. 
                  Molto più significativo il fatto che circa il 32% del 
                  campione preso in esame è composto da operai del comparto 
                  industriale ed estrattivo, con una considerevole presenza di 
                  metallurgici e di minatori; più del 9% da edili, mentre 
                  nell’ambito artigianale abbondano calzolai (6%) e falegnami 
                  (3,6%). Altrettanto significativa è la scarsa presenza 
                  di lavoratori della terra, con solo il 3,5% di braccianti, segno 
                  di una quasi totale egemonia socialista nell’area del 
                  bracciantato classico, della preponderanza cattolica nell’ambito 
                  degli obbligati e di quella repubblicana tra i mezzadri. Nonostante 
                  la diffusione del sindacalismo rivoluzionario in alcune aree 
                  agricole padane (piacentino, ferrarese, mantovano, parmense, 
                  basso modenese ecc.) si può affermare che gli organizzati 
                  abbiano più recepito il messaggio dell’azione diretta 
                  tout court che non accolto quello di una società 
                  libertaria. Il debole radicamento nelle campagne evidenzia il 
                  volto urbano dell’anarchismo, la sua geografia dei mestieri 
                  cittadini o che comunque gravitano sulla città oppure 
                  la sua dislocazione in zone periferiche ma ad alta concentrazione 
                  operaia e del tutto interne allo sviluppo capitalistico (come 
                  i centri minerari). Sarebbe tuttavia limitativo cercare di individuare 
                  un gruppo sociale o specifiche categorie di lavoratori alla 
                  base del movimento anarchico italiano. Per fare un esempio relativo 
                  alla Toscana, la regione più ricca di umori libertari, 
                  l’anarchismo si attesta solidamente tra i cavatori di 
                  Carrara, i minatori del Valdarno, i siderurgici di Piombino, 
                  i portuali e i lavoratori dei cantieri di Livorno, i ceramisti, 
                  i vetrai, i ferrovieri, i muratori e i «pigionali» 
                  di Pisa, i muratori di Firenze. In città come Milano, 
                  dove era concentrata gran parte dell’attività editoriale 
                  nazionale, consistente ad esempio è il gruppo dei tipografi, 
                  mentre ad Ancona assume rilievo la presenza di scaricatori di 
                  porto. Questi elementi, puntualmente ricavabili dalle biografie, 
                  fanno definitivamente giustizia di tutte le affermazioni categoriche 
                  volte a trasformare, in un senso o nell’altro, l’universo 
                  libertario in una sorta di «idealtipo» ad uso di 
                  letture tutte politiche.  
 Armando 
                  Borghi  Pochi i borghesi e i benestanti
 Rispetto all’intera massa che viene qui biografata, sono 
                  pochi gli individui provenienti dai ceti borghesi e benestanti, 
                  come pochi, del resto, sono coloro che hanno raggiunto la laurea 
                  (3,4%) o hanno frequentato le scuole liceali o altre scuole 
                  superiori equivalenti (5,3%). La ricerca ha messo bene in evidenza 
                  altresì come gli anarchici pongano un’attenzione 
                  particolare alla formazione culturale propria e dei lavoratori 
                  cercando di colmare autodidatticamente le lacune derivate da 
                  un’istruzione che per la gran parte dei biografati si 
                  ferma al ciclo scolastico delle scuole elementari. Il militante 
                  autodidatta è protagonista di molte iniziative editoriali, 
                  che, benché spesso di breve durata a causa della scarsità 
                  dei mezzi o della repressione poliziesca, hanno ricoperto un 
                  ruolo rilevante sia nel campo propriamente giornalistico sia 
                  in quello più ampio della formazione culturale delle 
                  avanguardie politiche e sindacali delle classi subalterne italiane 
                  tra Otto e Novecento. Altri elementi, di più difficile identificazione e con 
                  minore possibilità di comparazione, si possono comunque 
                  desumere da una lettura complessiva dell’opera. Tra questi, 
                  il livello di integrazione degli anarchici nell’ambiente 
                  sociale che li circonda traspare dall’analisi della struttura 
                  stessa delle famiglie, nonché dai tramiti e dall’età 
                  di approccio alle idee libertarie. Prendono così forma 
                  le «comunità» proletarie urbane e dei borghi, 
                  la cui ossatura è formata dal variegato associazionismo 
                  operaio e laico, di cui gli anarchici sono parte integrante; 
                  «comunità» con una forte carica «antagonista» 
                  e una prassi solidale e ribelle che negli anni ha costituito 
                  uno dei tratti più caratteristici di questa «contro 
                  società» in divenire contrapposta, con i suoi riti 
                  laici e modelli comportamentali etico morali, a quella borghese. 
                  E in questo contesto la scelta anarchica è per i più 
                  non una fase di ribellione giovanile ma un’opzione politica 
                  ed esistenziale durevole. Nella presente opera, tuttavia, vengono 
                  prese in considerazione anche figure che hanno legato all’anarchismo 
                  solo una fase della propria vita, o la cui presenza può 
                  essere stata costante ma sempre sottotono, e questo spiega perché 
                  molte biografie siano brevi, per non dire scarne. Abbiamo però 
                  voluto inserirle ugualmente perché, considerate complessivamente, 
                  forniscono il senso di una rivisitazione storiografica che si 
                  è mossa deliberatamente anche verso lo scavo archivistico 
                  e bibliografico dell’elemento locale e particolare al 
                  fine di fornire una rappresentazione a «tutto tondo».
  Irriducibile federalismo
 Proprio quest’ultima considerazione ci introduce all’ultimo 
                  aspetto preso in esame, nel senso che l’analisi della 
                  dislocazione geografica ci rivela pure un carattere «forte» 
                  dell’anarchismo: il suo fondamentale e irriducibile federalismo. 
                  Il movimento anarchico italiano, ancor più di quello 
                  francese e di quello spagnolo, è, infatti, costituito 
                  da una base al plurale, nel senso che ogni gruppo e 
                  ogni federazione, e persino singoli militanti, tendono a fare 
                  politicamente in proprio, dando vita ad una serie svariatissima 
                  di iniziative, specialmente di carattere editoriale e culturale 
                  (stampa di periodici e numeri unici e pubblicazione, in proprio, 
                  di testi anarchici classici; la diffusione regionale della produzione 
                  cartacea, ripropone la distribuzione geografica del movimento: 
                  è maggiormente presente, ancora una volta, in Toscana, 
                  Emilia Romagna, Marche e Lombardia). Sono queste diversificate 
                  realtà che costellano e formano la sua azione complessiva. 
                  La molteplicità dell’azione anarchica è 
                  del tutto consona alla sua diversificazione ideologica, nel 
                  senso che nel movimento esistono e convivono, fin dall’inizio 
                  – anche se a volte in modo rissoso – differenti 
                  tendenze ideali e politiche: comunista, socialista, mutualista, 
                  individualista, sindacalista, antimilitarista, educazionista, 
                  pacifista; oltre alla costante divisione fra organizzatori e 
                  antiorganizzatori. Si delinea, insomma, una struttura decentrata, 
                  costituita da innumerevoli punti attivi nei quali è possibile 
                  rintracciare l’esistenza di questo irriducibile pluralismo 
                  fondato sulla pratica dell’«azione diretta» 
                  e sulla preminenza assegnata all’opera di «apostolato» 
                  espressa con la propaganda orale e scritta. Emerge, in tal modo, l’antropologia dell’anarchico: 
                  ribelle e orgoglioso del proprio sapere e della propria scelta 
                  politica. Un elemento quest’ultimo che, senza nulla togliere 
                  ai militanti di base di altri partiti e organizzazioni, rende 
                  sempre più significativo un approccio volto a cogliere 
                  la specificità dei singoli anarchici attraverso le loro 
                  biografie nel tentativo di intessere le storie individuali nella 
                  più vasta trama della vicenda collettiva di ampi settori 
                  della società italiana.
  Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele 
                  e Pasquale Iuso
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