Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

Storia di Jean-Roger Caussimon

Vedendo i tremori, le risacche
Lungo tutta la riva rettilinea
Per un momento ti ho creduto degna
Di ascoltarmi vuotare il sacco
[…]
Ma la tua onda passa via
Insensibile, seguendo il suo corso
[…]
Ed è normale: tu sei un personaggio
Ti sei scavata un vero corso al sole
Sei, in fondo, come gli uomini
Non c’è pietà che affiori…

Era appena la seconda metà degli anni ’40 quando un giovane musicista Monegasco sbarcato di fresco a Parigi per tentare di intraprendere quella carriera d’artista fin lì solo sognata, si recò al mitico cabaret di Montmartre “Le lapin agile”. Qualche mese prima, facendo lo speaker radiofonico, gli era capitata per le mani la registrazione di una serata tipo in quel tempio della Bohème, con tutto quello che comportava di canzoni primo ’900, gag cabarettistiche e poesie recitate; una voce suadente che scandiva versi impeccabili, l’aveva intrigato…
Ecco dunque il nostro caparbio musicista arrampicarsi sulla mitica collina, entrare in quel luogo di leggenda, che a vederlo da vicino era una ben miserabile stamberga, e individuato in qualche modo il suo uomo farglisi contro con aria quasi aggressiva:
– Signore posso mettere in musica quella sua poesia in cui insulta la Senna?
– Ma certo.
Fu l’inizio di una grande amicizia e di una feconda collaborazione… il poeta si chiamava Jean-Roger Caussimon, ed in realtà era un attore che si dilettava a scrivere a tempo perso, il musicista, che in realtà era un meraviglioso poeta pure lui, si chiamava Léo Ferré.
Di quest’ultimo ci siamo occupati e torneremo a occuparci spesso, Jean-Roger Caussimon – fuori dai confini dei paesi francofoni – è invece per tutti un illustre sconosciuto.
Caussimon era nato a Bordeaux nel 1918, nel momento in cui la sua famiglia, pur essendo suo padre dottore, attraversava una crisi finanziaria tremenda, conobbe dunque da bambino la povertà e lunghi periodi di allontanamento dai genitori…
Fragile, taciturno, sensibilissimo, sognatore sviluppò presto un grande amore per il teatro e dopo il suicidio della madre nel ’36, raggiunse Parigi dove iniziò una dura gavetta in ruoli minori e comparsate. Il servizio militare gli arrivò addosso come una vera mazzata: “entrai in quest’universo vessante, distruttivo, abbrutente, schifoso e smerdato (e lo dico pesando le parole) il 3 ottobre 1938” “Ho scoperto tutto d’un botto alcool, fumo e bronchite cronica. Il vino rosso, nelle sere d’inverno, dà il coraggio di scendere nelle stalle, slacciarsi gli stivali, rompere il ghiaccio degli abbeveratoi, restare dieci minuti immersi fino ai ginocchi. Si risale in camerata e ci si corica discretamente. Bisogna tenere addosso calzini e stivali zuppi tutta la notte. È infallibile. In ventiquattr’ore arriva la bronchite, la febbre, l’infermeria, con un po’ di fortuna l’ospedale con, come corollario, la convalescenza: una licenza di parecchi giorni…”. Per il nostro eroe – a seguire – arrivò subito la guerra, la prigionia in un campo tedesco, da cui, con un inizio di tubercolosi addosso, fu rimandato a Parigi a dicembre del ’42; lì riprese contatto con gli ambienti del teatro e del cabaret; fu ingaggiato quasi subito nella compagnia del grandissimo Charles Dullin, ma si formò altrettanto presto anche una reputazione di personaggio centrale della tarda bohème pre-esistenzialista. Finito lo spettacolo di teatro serio il nostro si recava a fare le ore piccole nei cabaret recitando le sue poesie che cominciarono di lì a poco a diventar canzoni, alcune, celeberrime, per Ferré (niente meno che Comme a Ostende, Nous deux, Monsieur William, Mon Sebasto, Le temps du tango, ecc.), altre per alcuni dei più bei nomi della canzone francese (Catherine Sauvage, Philippe Clay, Maurice Chevalier …).
Il nostro, riconosciuto come poeta e come attore, volto noto del cinema e della televisione francese di cui fu un pioniere, si avviava a un onorato finale di carriera, quando l’illuminato Pierre Barouh, che con i proventi di una sua canzonetta di grandissimo successo aveva aperto una casa discografica – la Saravah – dedita agli artisti più sperimentali e anticommerciali della scena francese (Jacques Higelin, Brigitte Fontaine, Areski Belkacem, ecc.), gli si rivolse, un po’ per caso e un po’ per curiosità:
mi porti qualcosa di tuo?
– vuoi dire i dischi dei miei interpreti?
– perché non hai mai inciso dischi tuoi?
– non credo potrebbero interessare a qualcuno
– mettiamola così: a me fa piacere avere un tuo disco nella mia collezione!

Alla tenera età di 52 anni debuttava dunque come interprete questo grande cantautore francese che, nei quindici anni che gli restavano da vivere, avrebbe inciso altri 6 dischi, dato oltre 300 recital di canzoni (molti anche in sostegno di associazioni libertarie e umanitarie), vinto innumerevoli premi, ricevuti i più alti riconoscimenti. Soprattutto però costruito un’opera solida, fuori dal tempo nelle forme, nella precisione della costruzione di rime e versi, profondamente ribelle, antiautoritaria e non conformista nei temi.
Antimilitarismo, ecologia, intransigente posizione antinuclearista, anticlericalismo si accompagnano nella sua opera a temi più intimi, riflessivi, a una visione esistenziale fra le più profonde e sensibili che si possano incontrare in canzone… il tutto poi armonizzato da una costruzione scrupolosa, da un’interpretazione gradevolissima a metà fra canto e recitazione, ma sempre non enfatica, anzi quasi ironica, nei toni… basti dire che le sue versioni delle canzoni scritte a quattro mani con Léo Ferré non sfigurano affatto accanto a quelle del leone monegasco, anzi ne rivelano sfaccettature inedite.
Dalla sua, Ferré, di cui Caussimon fu l’unico “paroliere” propriamente detto, scrisse per l’amico una bella e lunga prefazione a un’antologia poetica uscita per i prestigiosi tipi della Seghers, e in extremis ne musicò un intero nuovo disco, Les loubards registrato nel marzo dell’85… fu l’ultimo regalo che il gigante gentile della canzone francese poté ricevere. In punta di piedi uscì di scena il 20 ottobre di quell’anno, le sue ceneri furono sparse nell’oceano, la sua opera, tutta da riscoprire, resta viva e palpitante per chi possiede orecchie e cuore degno.

Alessio Lega
amoreanarchia@tiscalinet.it

Jean-Roger Caussimon

Le milizie

Lucidate i fucili, approntate milizie
Nostalgici del tiro a segno, cacciatori cittadini
Semmai quei delinquenti mettessero piede nel quartiere
Seguite il vostro istinto, siate sbirri
Al riparo delle persiane, delle vostre tristi camere
Mobilitate le vostre paure, fino a non si sa quando
Che la strada si riempie di oscuri anarchici
Di neri, di portoghesi e di nordafricani

Voi sì che siete francesi, francesi accertati
Forse reduci, a volte partigiani
E quest’oscuro cammino di tortura e di sangue
C’è chi lo rifarebbe, se ci fosse bisogno...
Voi si che avete meritato, prima dell’ultimo respiro
Di vivere calmi e tranquillamente
D’indossare i gilet, di stare in pantofole
E di chiudere gli occhi sulla realtà...

Però è la realtà che vi bussa alla porta
Non riuscite a capire il confuso rumore
Di un segno premonitore che il vento vi porta...
Percepite il pianto, le grida di dolore
I canti di libertà, l’eco di un attentato
E pensate che la guerra è lontana dalla Francia.

Studenti e farabutti, sono la stessa razza!
Sta scritto bianco su nero sui vostri quotidiani
Innalzate i muri e allertate i cani
Pensate già da ora all’autodifesa...!
E quando questi ragazzi sfilano in corteo
E ve li dipingono: ladri e lavativi
Voi rinnegandoli cadete nella trappola.
Dimenticando che sono figli dei vostri figli!...

Sanno, meglio di noi, di cosa il mondo crepa
Che il tempo dei robot ci sta calpestando
Che si sacrifica lo spirito in cambio dell’oro
E si uccide natura, gioia e sogno...
Perciò lucidate i fucili, approntate milizie
Nostalgici del tiro a segno, cacciatori cittadini
Seguite il vostro istinto, siate sbirri
Semmai quei delinquenti mettessero piede nel quartiere.

 

Le Havre

Il cielo è d’inchiostro
Neri i rimorchiatori
Le navi all’ancora mi spaccano
il cuore
Amo il porto di Le Havre
E da tanto tempo
Ma un pensiero mi ossessiona
E mi segue nella notte

Che male ho fatto?
Che bene ho mancato?
Ho trovato nell’ultimo bicchiere
Un gusto di rimorso e di rimpianto

La vita scorre dalle sorgenti
Me lo dissero i miei
Il torrente correndo
Ci trascina con lui
E di torrente in fiume
Si corre all’oceano
Ma cosa c’è sul fondo
Un’altra vita o il nulla?

Che male ho fatto?
Che bene ho mancato?
Arrivati all’estuario
Tocca partire soli

Alla marea che sale
Vanno incontro i marinai
Mogli, amanti
Per un po’ piangeranno
Ho lasciato le dame
E le ragazze in fiore
Senza mai versare una lacrima

Che male ho fatto?
Che bene ho mancato?
Amavo gli amori fuggitivi
E ne fui sempre insoddisfatto

Si mettono in quarantena
I passeggeri dubbi
Lasciate quindi alla mia pena
Ancora un’ora o due
Ostinatamente avanzo
In questa notte d’inverno
Cercando Le Havre, cercando l’arca
In cui forse… potrei sapere…

Che male ho fatto?
Che bene ho mancato?
La mia anima sarebbe più leggera
Se alla fine… lo scoprissi…

 

Come a Ostenda

Sul mare vedevi i cavalloni che spingevano il muso avanti
per fracassarsi la criniera sotto il Casinò deserto.
La cameriera di diciott’anni ed io vecchio come l’inverno
per non affogare in un bicchiere mi spinsi nella primavera
nel taglio obliquo dei suoi occhi...

Né grigi né verdi
né grigi né verdi.
Come a Ostenda, come ovunque
quando piove sui cortili
e ti chiedi a cosa serva
a cosa serva essere vivi.

Ci muovemmo tutti abbracciati verso la via delle vetrine
dove ti paghi i sogni ubriachi prendendo a fitto ragazzine
ma poi dal fondo della strada si fece avanti un carretto
con un’antica melodia, una tempesta di singhiozzi
tanto che quella compagnia...

Andò perduta
andò perduta.
Come a Ostenda, come ovunque
quando piove sui cortili
e ti chiedi a cosa serva
a cosa serva essere vivi.

Così partivo verso il destino, ma un improvviso odor di birra
di patatine e cozze, mi spingevano a una bettola...
Là c’era gente che beveva, ridanciani, rubicondi
che urlavano, si sganasciavano, e la birra ve la servivano
Senza lasciarvi il tempo di chiederla...

Come piovesse
Come piovesse...
Come a Ostenda, come ovunque
Quando piove sui cortili
E ti chiedi a cosa serva
A cosa serva essere vivi.

 

La Comune sta lottando

Senza dubbio, amore mio, di fortuna ne avemmo poca
C’era la guerra, mentre noi avevamo vent’anni
L’inverno del 1870 fu inverno di sofferenza
E peggio è la miseria in questa primavera

I lillà stanno per fiorire le alture di Belleville
Il versante della collina, il parco di Meudon,
Ma per raccoglierli aspettiamo tempi migliori
La comune sta lottando e domani vinceremo

Abbiamo sentito le voci dei compagni
I Versagliesi infami sono già a Parigi
Tu hai detto Vengo con te sulle barricate
Dove c’è posto per un uomo c’è posto per la sua donna

Quando il primo dei nostri è scivolato sulle pietre
In un ultimo volo, un proiettile in testa,
Tu ti sei chinata per chiudergli gli occhi
La comune sta lottando e domani vinceremo.

Operai, contadini uniamo la nostra rabbia
Guai a chi ci deruba umiliandoci
Vogliamo rispetto e giusti salari
E l’uscio delle scuole aperto ai nostri figli

I nostri vecchi non sapevano né leggere né scrivere
Li trattavano da bruti, loro piegavano la testa
La vera libertà ce l’ha chi la vuole
La comune sta lottando e domani vinceremo.

I valletti dei tiranni erano davvero troppi
Così ci siamo arresi e ora ci fucilano
Ma il grido di speranza che sgorga da quest’ombra
Il mondo lo ha sentito e non potrà scordarlo

Soldati obbedite agli ordini dei capi
Sparateci addosso mirando dritti al cuore
Dal nostro sangue sparso la libertà germoglia
La comune sta lottando e noi abbiamo vinto!