Rivista Anarchica Online


Parmalat

Ma il capitalismo non è emendabile
di Antonio Cardella

 

Il recente tracollo della Parmalat ci rammenta che il sistema capitalistico è irredimibile.

Quando, sulle colonne di questa rivista, mi occupai del caso Enron, a conclusione di una disamina dei fatti e dei meccanismi interni ed esterni che lo avevano generato, avvertii che gran parte delle misure messe in atto per perpetrare la truffa, erano perfettamente legali e, per questa ragione, a mio giudizio, il sistema capitalistico, così come si configurava nelle sue dinamiche, era irredimibile.
Ne torniamo a parlare oggi per un «caso Italia», che registra il tracollo di due imprese agroalimentari che si erano strutturate a dimensione internazionale, e che ora lasciano sul campo decine di migliaia di lavoratori e centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori.
Si dirà: colpa di due imprenditori truffaldini, Tanzi e Cragnotti, che hanno tradito la famiglia e si sono portati il malloppo all’estero. Non è così. Sia nel caso della Cirio, che in quello della Parmalat è tutto un sistema di regole evanescenti, di controlli inesistenti, di complicità che ha consentito il disastro. Ma non soltanto: è l’evoluzione di tutto un sistema economico che istiga a delinquere e quanti sono scoperti con le mani nel sacco sono in fondo i più maldestri, gli scassapagghiari, come chiamano in Sicilia i ladruncoli che si riducono a scassinare i pagliai dove i contadini custodiscono gli attrezzi minimi per i lavori della terra. Sono quelli che, per incapacità o eccessiva ingordigia, non hanno saputo usare con discrezione le possibilità offerte dal sistema ed hanno ecceduto nel tirare troppo la corda.
Ci spieghiamo meglio.

Poche e semplici norme

Nel capitalismo delle origini (si parla ormai della preistoria), il sistema produttivo si reggeva su poche norme e tutte molto semplici: un’impresa si valutava per la capacità di realizzare utili dalla sua attività, per la propensione all’innovazione e per la duttilità nell’utilizzare al meglio le risorse destinate ai suoi processi produttivi, sia che derivassero dall’interno (utili reinvestiti) sia che provenissero dal ricorso al mercato dei capitali. Il complesso di questi dati ne determinava il suo valore in borsa. Gli investitori, cioè, valutavano la capacità dell’impresa di realizzare utili che consentissero di remunerare il capitale investito. Le azioni, quindi, erano lo specchio di un sistema produttivo che aveva i suoi tempi, le sue norme e le aspettative di tutti gli attori avevano il respiro della vita aziendale: poteva andar bene, poteva anche andar male, ma il bene e il male erano costretti all’interno di uno scenario certo, riconoscibile e valutabile da tutti.
Ma l’apertura dei mercati, l’espandersi del commercio internazionale, il moltiplicarsi di smisurate imprese multinazionali hanno radicalmente cambiato questo scenario e liberato capitali immensi, del tutto indifferenti alla produzione di beni e servizi, che cercano il massimo della retribuzione nel minimo spazio di tempo possibile. È il sovvertimento del rapporto tra capitale e produzione di beni e servizi: è la finanziarizzazione del capitale di rischio, che equivale alla finanziarizzazione del sistema economico. Intendiamoci: ho semplificato al massimo il processo reale, che ha impiegato almeno tre decenni per compiersi, ma il succo è tutto lì.
Cosa avviene nelle aziende di un certo livello in questo nuovo ed inedito scenario? Avviene che esse debbono attrezzarsi per attirare quel capitale di rischio che consenta loro sopravvivenza e sviluppo. La difficoltà maggiore – lo si comprenderà facilmente – è conciliare la necessità di remunerare adeguatamente il denaro che riescono ad ottenere dal mercato con i tempi che un prodotto impiega per produrre utili. Mi spiego meglio: per produrre un’automobile, allo stato attuale delle tecnologie correnti, occorrono in media quattro anni, ma per avviare il processo il capitale complessivo richiesto ci vuole tutto e subito. Quell’automobile, quindi, comincerà a rendere utili nel momento in cui sarà immessa sul mercato, avrà in qualche misura ottenuto il gradimento dei fruitori finali e sarà in grado di far rientrare l’azienda dei costi sostenuti. Ammesso che tutto vada bene, occorreranno almeno sei anni dall’inizio del processo per aprire gli occhi e non piangere.
Sul mercato, oggi, un capitale significativo cerca investimenti che gli rendano dal 13 al 15% annuo, un tasso da pagare impensabile per un’impresa che produce beni o servizi. Allora ci si rivolge al sistema bancario, il quale, di norma, esercita il credito includendo l’azienda debitrice nei suoi fondi di investimento, riversando, così, sugli acquirenti dei titoli azionari il rischio del capitale elargito. In sostanza, la sorte dell’intero sistema economico finisce col dipendere dagli andamenti borsistici. Questi, a loro volta, sono soggetti a tutta una serie di variabili assolutamente sganciate dai processi produttivi. Hanno una logica interna autonoma e i titoli che rappresentano finiscono in balia di suggestioni, di bolle speculative, di aggiotaggi, i cui effetti sono sotto i nostri occhi. Si calcola che, in poco meno di quattro anni, i fondi di investimento amministrati dalle banche in Italia abbiano polverizzato qualcosa come 73 miliardi di dollari, 150 mila miliardi di vecchie lire. E non è detto che sia finita.

Capitale fuori bilancio

A queste distorsioni del sistema bancario, si aggiunge la «creatività» dei manager aziendali che, pressati dalla necessità di produrre utili per remunerare gli azionisti e per consolidare ed accrescere la credibilità dell’impresa che dirigono, imboccano la strada del «fai da te». Il metodo è semplice ma assai rischioso: nei bilanci si gonfiano gli utili e li si destina alla remunerazione di servizi mai ricevuti da società di comodo a questo scopo create, le quali, naturalmente, non ricevono una lira, anche se sono pronte a certificare il pagamento. Si libera, così, un capitale fuori bilancio, che può essere indifferentemente impiegato per speculazioni di borsa «in proprio» (per titolari, top manager, funzionari compiacenti di istituzioni pubbliche, intermediatori occulti e via dicendo) oppure finire direttamente nei paradisi fiscali, come l’arcipelago delle Cayman a sud dell’isola di Cuba, di cui abbiamo scoperto l’esistenza per il caso Parmalat. Naturalmente il gioco può finir male. Le speculazioni possono rivelarsi fallimentari, come possono rivelarsi fallimentari gli investimenti destinati alla creazione di filiali che si aprono certamente per ampliare la sfera degli affari, ma anche per far lievitare il valore azionario della società. Può capitare – come nel caso Parmalat – che una filiale finisca per essere più importante della centrale che l’ha generata. La Parmalat americana praticamente gestiva le filiali dell’Ecuador, del Venezuela e del Brasile e rappresentava una presenza significativa nella borsa e nel sistema bancario americani, tanto è vero che dei circa dieci miliardi di dollari di buco (ancora le cifre sono approssimative e possono cambiare anche significativamente), le banche americane, la City, la Bank of America ed altre, sembrano le più esposte. Mentre scrivo non si sa bene se alcune giacenze vantate dalla Parmalat, soprattutto nella già citata Bank of America, siano reali o frutto di falsificazioni documentali. Certo è che nessuno degli attori di questo crac può chiamarsi fuori dall’imbroglio, perché è incredibile che esperti, laureati nelle più prestigiose università americane e facenti parte di istituzioni universalmente ritenute di eccellenza, non abbiano eccepito nulla quando la Parmalat ha tentato, per esempio, di vendere latte in polvere in Brasile o quando, nel bilancio ufficiale della società, la liquidità era alta, spesso eccessiva, senza che, contemporaneamente si riducesse l’indebitamento complessivo. E appare francamente tardivo l’intervento di tutte le autorità che istituzionalmente avrebbero dovuto controllare, in Italia e in America, la credibilità delle operazioni che in borsa e nel sistema creditizio compiva il colosso agroalimentare italiano. Anche se – è bene ricordarlo – nessun codice penale o sistema carcerario è mai riuscito ad eliminare i comportamenti delittuosi.
Ai primi di gennaio la Securities and Exchange Commission, l’organo di controllo americano sul mercato finanziario, ha inviato a Milano la sua vice direttrice, Linda Thomsen, per tutelare gli interessi degli investitori USA e, in quella occasione, ebbe conferma una voce che era già circolata fin dai primi di dicembre 2003 e cioè che Tanzi aveva tentato di vendere l’intera Parmalat ad acquirenti americani, chiamando come intermediario il Blackstone Group (il nome mi ricorda qualcosa in cui mi imbattei quando mi occupai del caso Enron, ma non ci giurerei). La trattativa – che, in pratica, se portata a compimento, avrebbe decretato lo smembramento dell’Azienda italiana attraverso un procedimento complicato detto del Leveraged buyout – non andò a buon fine perché Tanzi si rifiutò di denunciare i debiti reali della sua società ai mercati, prima che il procedimento fosse avviato.
Questo è lo stato delle cose mentre scrivo queste righe e mi pare che nulla di nuovo si muova sotto il cielo, considerato che storie simili si verificano sempre più spesso nei cinque continenti (l’ultima ha investito la rigorosa Olanda con il crac della Ahold, per ampiezza ed importanza la terza catena di supermercati in Europa). Né mi commuove la sorte della famiglia Tanzi e di quegli investitori internazionali che, per una volta tanto, pagano il loro gusto per il rischio e la speculazione.
Sono viceversa angosciato per i circa quarantamila lavoratori che in Italia e all’estero rischiano di rimanere senza lavoro e per le centinaia di migliaia di piccoli azionisti, che hanno affidato i loro spesso esigui risparmi alla Parmalat. Per questi ultimi, e per i primi, non vedo molte vie d’uscita: mi sembra che siano avviati a perdere rispettivamente e il lavoro e i risparmi. Ma anche questo è uno scenario tutt’altro che inedito.

Denaro che remunera se stesso

Non me ne vogliano i lettori se in qualche passo di questo scritto ho accentuato il tono didascalico, ma occorreva sottolineare quei passaggi che rendono la mia tesi sostenibile, e cioè che il capitalismo non è emendabile.
Il rendere assoluto il valore simbolico del denaro, il progressivo abbandono della sua funzione originaria, che era quella strumentale di motore per la produzione di beni e per la facilitazione degli scambi, hanno finito per esaltarne l’aspetto meno nobile e più inessenziale: l’accumulazione. Un tempo la rendita parassitaria consisteva nel possesso monopolistico della terra e dei mezzi di produzione: oggi è il denaro che remunera se stesso e si compiace della sua capacità di moltiplicarsi all’infinito.
È come se una comunità contadina assumesse come valore assoluto la propria capacità di moltiplicare all’infinito la produzione di aratri, dimenticando che essi servono solo ad arare la terra e possederne uno in più del necessario, più che uno spreco, è impegno demenziale.
Siamo membri di una società di fuori di testa che invidiano Berlusconi perché possiede trecentomila ombrelli, e lo invidiamo non perché può scegliere quello che meglio lo proteggerà dalla pioggia, ma per la sua capacità di comprarne degli altri, capacità che vorremmo avere anche noi, indifferenti all’ovvia considerazione che anche a noi uno soltanto ne serve per non bagnarci. Per intenderci sino in fondo: viviamo in un mondo in cui 800 milioni di abitanti posseggono 4 miliardi e 800 milioni di ombrelli, tanti quanti ne occorrono perché ciascuno dei 6 miliardi circa degli uomini che abitano il pianeta possa proteggersi dalla pioggia. E continuiamo a produrne, senza sospettare che, per la nostra stessa sopravvivenza, dovremmo pure distribuirli, in primo luogo perché sarebbe giusto così, poi perché, altrimenti, faremmo scoppiare inutilmente i portaombrelli di casa nostra.
Ecco quello che siamo, così ci ha ridotti la logica interna al capitalismo, che abbiamo assunto acriticamente come nostra e che ha finito con lo scandire la nostra vita quotidiana.
Certo, ci saranno tra di noi i perversi, i malversatori che acuiranno le sofferenze, che renderanno più evidenti gli effetti di una società squilibrata e ormai priva di valori fondanti. Ma è questa società che non regge ed è fuorviante addossarne le colpe, tutte le colpe a chi ne accentua i difetti.

Antonio Cardella