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                 Quando, sulle colonne 
                  di questa rivista, mi occupai del caso Enron, a conclusione 
                  di una disamina dei fatti e dei meccanismi interni ed esterni 
                  che lo avevano generato, avvertii che gran parte delle misure 
                  messe in atto per perpetrare la truffa, erano perfettamente 
                  legali e, per questa ragione, a mio giudizio, il sistema capitalistico, 
                  così come si configurava nelle sue dinamiche, era irredimibile. 
                   
                  Ne torniamo a parlare oggi per un «caso Italia», 
                  che registra il tracollo di due imprese agroalimentari che si 
                  erano strutturate a dimensione internazionale, e che ora lasciano 
                  sul campo decine di migliaia di lavoratori e centinaia di migliaia 
                  di piccoli risparmiatori.  
                  Si dirà: colpa di due imprenditori truffaldini, Tanzi 
                  e Cragnotti, che hanno tradito la famiglia e si sono portati 
                  il malloppo all’estero. Non è così. Sia 
                  nel caso della Cirio, che in quello della Parmalat è 
                  tutto un sistema di regole evanescenti, di controlli inesistenti, 
                  di complicità che ha consentito il disastro. Ma non soltanto: 
                  è l’evoluzione di tutto un sistema economico che 
                  istiga a delinquere e quanti sono scoperti con le mani nel sacco 
                  sono in fondo i più maldestri, gli scassapagghiari, come 
                  chiamano in Sicilia i ladruncoli che si riducono a scassinare 
                  i pagliai dove i contadini custodiscono gli attrezzi minimi 
                  per i lavori della terra. Sono quelli che, per incapacità 
                  o eccessiva ingordigia, non hanno saputo usare con discrezione 
                  le possibilità offerte dal sistema ed hanno ecceduto 
                  nel tirare troppo la corda.  
                  Ci spieghiamo meglio.  
                  
                  Poche e semplici norme  
                Nel capitalismo delle origini (si parla ormai della preistoria), 
                  il sistema produttivo si reggeva su poche norme e tutte molto 
                  semplici: un’impresa si valutava per la capacità 
                  di realizzare utili dalla sua attività, per la propensione 
                  all’innovazione e per la duttilità nell’utilizzare 
                  al meglio le risorse destinate ai suoi processi produttivi, 
                  sia che derivassero dall’interno (utili reinvestiti) sia 
                  che provenissero dal ricorso al mercato dei capitali. Il complesso 
                  di questi dati ne determinava il suo valore in borsa. Gli investitori, 
                  cioè, valutavano la capacità dell’impresa 
                  di realizzare utili che consentissero di remunerare il capitale 
                  investito. Le azioni, quindi, erano lo specchio di un sistema 
                  produttivo che aveva i suoi tempi, le sue norme e le aspettative 
                  di tutti gli attori avevano il respiro della vita aziendale: 
                  poteva andar bene, poteva anche andar male, ma il bene e il 
                  male erano costretti all’interno di uno scenario certo, 
                  riconoscibile e valutabile da tutti.  
                  Ma l’apertura dei mercati, l’espandersi del commercio 
                  internazionale, il moltiplicarsi di smisurate imprese multinazionali 
                  hanno radicalmente cambiato questo scenario e liberato capitali 
                  immensi, del tutto indifferenti alla produzione di beni e servizi, 
                  che cercano il massimo della retribuzione nel minimo spazio 
                  di tempo possibile. È il sovvertimento del rapporto tra 
                  capitale e produzione di beni e servizi: è la finanziarizzazione 
                  del capitale di rischio, che equivale alla finanziarizzazione 
                  del sistema economico. Intendiamoci: ho semplificato al massimo 
                  il processo reale, che ha impiegato almeno tre decenni per compiersi, 
                  ma il succo è tutto lì.  
                  Cosa avviene nelle aziende di un certo livello in questo nuovo 
                  ed inedito scenario? Avviene che esse debbono attrezzarsi per 
                  attirare quel capitale di rischio che consenta loro sopravvivenza 
                  e sviluppo. La difficoltà maggiore – lo si comprenderà 
                  facilmente – è conciliare la necessità di 
                  remunerare adeguatamente il denaro che riescono ad ottenere 
                  dal mercato con i tempi che un prodotto impiega per produrre 
                  utili. Mi spiego meglio: per produrre un’automobile, allo 
                  stato attuale delle tecnologie correnti, occorrono in media 
                  quattro anni, ma per avviare il processo il capitale complessivo 
                  richiesto ci vuole tutto e subito. Quell’automobile, quindi, 
                  comincerà a rendere utili nel momento in cui sarà 
                  immessa sul mercato, avrà in qualche misura ottenuto 
                  il gradimento dei fruitori finali e sarà in grado di 
                  far rientrare l’azienda dei costi sostenuti. Ammesso che 
                  tutto vada bene, occorreranno almeno sei anni dall’inizio 
                  del processo per aprire gli occhi e non piangere.  
                  Sul mercato, oggi, un capitale significativo cerca investimenti 
                  che gli rendano dal 13 al 15% annuo, un tasso da pagare impensabile 
                  per un’impresa che produce beni o servizi. Allora ci si 
                  rivolge al sistema bancario, il quale, di norma, esercita il 
                  credito includendo l’azienda debitrice nei suoi fondi 
                  di investimento, riversando, così, sugli acquirenti dei 
                  titoli azionari il rischio del capitale elargito. In sostanza, 
                  la sorte dell’intero sistema economico finisce col dipendere 
                  dagli andamenti borsistici. Questi, a loro volta, sono soggetti 
                  a tutta una serie di variabili assolutamente sganciate dai processi 
                  produttivi. Hanno una logica interna autonoma e i titoli che 
                  rappresentano finiscono in balia di suggestioni, di bolle speculative, 
                  di aggiotaggi, i cui effetti sono sotto i nostri occhi. Si calcola 
                  che, in poco meno di quattro anni, i fondi di investimento amministrati 
                  dalle banche in Italia abbiano polverizzato qualcosa come 73 
                  miliardi di dollari, 150 mila miliardi di vecchie lire. E non 
                  è detto che sia finita.  
                  
                  Capitale fuori bilancio  
                A queste distorsioni del sistema bancario, si aggiunge la «creatività» 
                  dei manager aziendali che, pressati dalla necessità di 
                  produrre utili per remunerare gli azionisti e per consolidare 
                  ed accrescere la credibilità dell’impresa che dirigono, 
                  imboccano la strada del «fai da te». Il metodo è 
                  semplice ma assai rischioso: nei bilanci si gonfiano gli utili 
                  e li si destina alla remunerazione di servizi mai ricevuti da 
                  società di comodo a questo scopo create, le quali, naturalmente, 
                  non ricevono una lira, anche se sono pronte a certificare il 
                  pagamento. Si libera, così, un capitale fuori bilancio, 
                  che può essere indifferentemente impiegato per speculazioni 
                  di borsa «in proprio» (per titolari, top manager, 
                  funzionari compiacenti di istituzioni pubbliche, intermediatori 
                  occulti e via dicendo) oppure finire direttamente nei paradisi 
                  fiscali, come l’arcipelago delle Cayman a sud dell’isola 
                  di Cuba, di cui abbiamo scoperto l’esistenza per il caso 
                  Parmalat. Naturalmente il gioco può finir male. Le speculazioni 
                  possono rivelarsi fallimentari, come possono rivelarsi fallimentari 
                  gli investimenti destinati alla creazione di filiali che si 
                  aprono certamente per ampliare la sfera degli affari, ma anche 
                  per far lievitare il valore azionario della società. 
                  Può capitare – come nel caso Parmalat – che 
                  una filiale finisca per essere più importante della centrale 
                  che l’ha generata. La Parmalat americana praticamente 
                  gestiva le filiali dell’Ecuador, del Venezuela e del Brasile 
                  e rappresentava una presenza significativa nella borsa e nel 
                  sistema bancario americani, tanto è vero che dei circa 
                  dieci miliardi di dollari di buco (ancora le cifre sono approssimative 
                  e possono cambiare anche significativamente), le banche americane, 
                  la City, la Bank of America ed altre, sembrano le più 
                  esposte. Mentre scrivo non si sa bene se alcune giacenze vantate 
                  dalla Parmalat, soprattutto nella già citata Bank of 
                  America, siano reali o frutto di falsificazioni documentali. 
                  Certo è che nessuno degli attori di questo crac può 
                  chiamarsi fuori dall’imbroglio, perché è 
                  incredibile che esperti, laureati nelle più prestigiose 
                  università americane e facenti parte di istituzioni universalmente 
                  ritenute di eccellenza, non abbiano eccepito nulla quando la 
                  Parmalat ha tentato, per esempio, di vendere latte in polvere 
                  in Brasile o quando, nel bilancio ufficiale della società, 
                  la liquidità era alta, spesso eccessiva, senza che, contemporaneamente 
                  si riducesse l’indebitamento complessivo. E appare francamente 
                  tardivo l’intervento di tutte le autorità che istituzionalmente 
                  avrebbero dovuto controllare, in Italia e in America, la credibilità 
                  delle operazioni che in borsa e nel sistema creditizio compiva 
                  il colosso agroalimentare italiano. Anche se – è 
                  bene ricordarlo – nessun codice penale o sistema carcerario 
                  è mai riuscito ad eliminare i comportamenti delittuosi. 
                   
                  Ai primi di gennaio la Securities and Exchange Commission, 
                  l’organo di controllo americano sul mercato finanziario, 
                  ha inviato a Milano la sua vice direttrice, Linda Thomsen, per 
                  tutelare gli interessi degli investitori USA e, in quella occasione, 
                  ebbe conferma una voce che era già circolata fin dai 
                  primi di dicembre 2003 e cioè che Tanzi aveva tentato 
                  di vendere l’intera Parmalat ad acquirenti americani, 
                  chiamando come intermediario il Blackstone Group (il nome mi 
                  ricorda qualcosa in cui mi imbattei quando mi occupai del caso 
                  Enron, ma non ci giurerei). La trattativa – che, in pratica, 
                  se portata a compimento, avrebbe decretato lo smembramento dell’Azienda 
                  italiana attraverso un procedimento complicato detto del Leveraged 
                  buyout – non andò a buon fine perché 
                  Tanzi si rifiutò di denunciare i debiti reali della sua 
                  società ai mercati, prima che il procedimento fosse avviato. 
                   
                  Questo è lo stato delle cose mentre scrivo queste righe 
                  e mi pare che nulla di nuovo si muova sotto il cielo, considerato 
                  che storie simili si verificano sempre più spesso nei 
                  cinque continenti (l’ultima ha investito la rigorosa Olanda 
                  con il crac della Ahold, per ampiezza ed importanza la terza 
                  catena di supermercati in Europa). Né mi commuove la 
                  sorte della famiglia Tanzi e di quegli investitori internazionali 
                  che, per una volta tanto, pagano il loro gusto per il rischio 
                  e la speculazione.  
                  Sono viceversa angosciato per i circa quarantamila lavoratori 
                  che in Italia e all’estero rischiano di rimanere senza 
                  lavoro e per le centinaia di migliaia di piccoli azionisti, 
                  che hanno affidato i loro spesso esigui risparmi alla Parmalat. 
                  Per questi ultimi, e per i primi, non vedo molte vie d’uscita: 
                  mi sembra che siano avviati a perdere rispettivamente e il lavoro 
                  e i risparmi. Ma anche questo è uno scenario tutt’altro 
                  che inedito.  
                  
                  Denaro che remunera se stesso  
                Non me ne vogliano i lettori se in qualche passo di questo 
                  scritto ho accentuato il tono didascalico, ma occorreva sottolineare 
                  quei passaggi che rendono la mia tesi sostenibile, e cioè 
                  che il capitalismo non è emendabile.  
                  Il rendere assoluto il valore simbolico del denaro, il progressivo 
                  abbandono della sua funzione originaria, che era quella strumentale 
                  di motore per la produzione di beni e per la facilitazione degli 
                  scambi, hanno finito per esaltarne l’aspetto meno nobile 
                  e più inessenziale: l’accumulazione. Un tempo la 
                  rendita parassitaria consisteva nel possesso monopolistico della 
                  terra e dei mezzi di produzione: oggi è il denaro che 
                  remunera se stesso e si compiace della sua capacità di 
                  moltiplicarsi all’infinito.  
                  È come se una comunità contadina assumesse come 
                  valore assoluto la propria capacità di moltiplicare all’infinito 
                  la produzione di aratri, dimenticando che essi servono solo 
                  ad arare la terra e possederne uno in più del necessario, 
                  più che uno spreco, è impegno demenziale.  
                  Siamo membri di una società di fuori di testa che invidiano 
                  Berlusconi perché possiede trecentomila ombrelli, e lo 
                  invidiamo non perché può scegliere quello che 
                  meglio lo proteggerà dalla pioggia, ma per la sua capacità 
                  di comprarne degli altri, capacità che vorremmo avere 
                  anche noi, indifferenti all’ovvia considerazione che anche 
                  a noi uno soltanto ne serve per non bagnarci. Per intenderci 
                  sino in fondo: viviamo in un mondo in cui 800 milioni di abitanti 
                  posseggono 4 miliardi e 800 milioni di ombrelli, tanti quanti 
                  ne occorrono perché ciascuno dei 6 miliardi circa degli 
                  uomini che abitano il pianeta possa proteggersi dalla pioggia. 
                  E continuiamo a produrne, senza sospettare che, per la nostra 
                  stessa sopravvivenza, dovremmo pure distribuirli, in primo luogo 
                  perché sarebbe giusto così, poi perché, 
                  altrimenti, faremmo scoppiare inutilmente i portaombrelli di 
                  casa nostra.  
                  Ecco quello che siamo, così ci ha ridotti la logica interna 
                  al capitalismo, che abbiamo assunto acriticamente come nostra 
                  e che ha finito con lo scandire la nostra vita quotidiana.  
                  Certo, ci saranno tra di noi i perversi, i malversatori che 
                  acuiranno le sofferenze, che renderanno più evidenti 
                  gli effetti di una società squilibrata e ormai priva 
                  di valori fondanti. Ma è questa società che non 
                  regge ed è fuorviante addossarne le colpe, tutte le colpe 
                  a chi ne accentua i difetti.                    
                  Antonio Cardella 
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