Rivista Anarchica Online


culture jamming

Sabotaggio culturale
di Tim Jordan

 

Un’analisi delle nuove forme della disobbedienza radicale, in un libro di Elèuthera appena uscito.

La realtà non è più quella che era.
Mark Dery (1)

Un giorno un tizio con opinioni simili alle mie si presentò con un adesivo dell’Australian Labour Party. Era tempo di elezioni e l’adesivo diceva «Employ Labour Now» [gioco di parole sul duplice significato di labour: manodopera e partito laburista; così lo slogan ha una duplice lettura: a favore della piena occupazione e/o a favore dei laburisti al governo; N.d.T.]. Ero scioccato: il Labour Party era, per come lo vedevamo, una spregevole organizzazione riformista. Il mio amico, però, aveva un’aria furbetta, come se avesse un qualche piano in mente. Andammo nel suo ufficio e, con qualche colpo di forbici, si fece un adesivo che era poco distinguibile da quelli bianchi e rossi che scongiuravano di «assumere» il partito laburista, solo che adesso diceva «No Labour Ploy» («Niente trucchi laburisti»). Era un atto di sabotaggio culturale, culture jamming.

Codici simbolici

Uno spot televisivo comincia nel modo più prevedibile. Si vede un’automobile e una voce fuori campo dice: «Sta per succedere... l’evento più portentoso della storia dell’automobilismo». Fin qui, tutto normale. L’auto avanza verso chi guarda, rivelandosi all’improvviso come una delle parti che compongono una specie di creatura. La creatura procede sempre di più in primo piano e si rivela essere un mostro formato da automobili che colpisce e devasta l’ambiente intorno a lui. La voce fuori campo continua: «Sta per succedere... la fine dell’era dell’automobile. Prova a immaginarlo: un mondo con meno auto». Ci accorgiamo a poco a poco che lo spot critica l’impiego massiccio dei mezzi di trasporto privati, affermando che le auto stanno distruggendo il pianeta. Alla fine, invece di dare un’occhiata distratta, ci troviamo a guardare lo spot con maggiore attenzione, cercando di capire se il messaggio sia davvero quello che abbiamo recepito e chi ne sia l’autore. Abbiamo visto migliaia di spot che ci hanno sollecitato a comprare un’automobile, ma fino a quel momento nemmeno uno che ci invitasse ad abbandonarla. Questa contaminazione tra tecniche pubblicitarie familiari e messaggi insoliti si chiama culture jamming (2).
Ogni esempio di culture jamming rappresenta un tentativo di ribaltare e di trasgredire il significato di codici culturali il cui scopo principale è quello di convincerci a comprare qualcosa o a conformarci a un certo modello. Il primo esempio descrive un intervento contro le tecniche di marketing di un partito politico, il secondo contro quelle che ci vogliono vendere uno stile di vita legato all’automobile. Non sono semplici azioni contro la pubblicità, perché i codici culturali contestati vanno da quelli che ci spingono ad acquistare un certo prodotto a quelli che formulano bisogni e desideri collettivi. Sono codici gestiti e controllati dalle grandi imprese private e dallo Stato che li finanziano a livelli straordinari. Lo scopo dei codici è di generare stili di vita, forme d’identità e bisogni che siano al servizio di chi li ha finanziati. È tuttavia possibile resistere e opporsi al tentativo di conformare le nostre esistenze a criteri che corrispondono non ai nostri bisogni, comunque li si definisca, ma a quelli delle grandi imprese, il cui scopo ultimo è di avere utili in attivo, e degli apparati statali, la cui finalità è di gestire i cittadini. Questi codici possono essere sabotati. È possibile rovesciare come un guanto la cultura che ci viene imposta e che non è generata da comunità, individui o ambiti familiari, ma da aziende finalizzate al profitto e da esperti di semiotica e comunicazione da queste stipendiati. Da una parte ci sono i creatori di simboli, «creativi» assoldati dalla pubblicità e dalle pubbliche relazioni, dall’altra la rete dei terroristi semiotici del culture jamming.
Quando i principali codici culturali sono colonizzati, quasi inevitabilmente, da alcuni settori della società e adattati ai bisogni di questi, sfruttando le ingenti risorse creative a loro disposizione, anche l’attivismo! si trova a dover resistere attraverso i simboli. I codici culturali delle grandi imprese e dello Stato hanno finito per prendere il sopravvento e costituiscono gran parte del panorama dei desideri, plasmando fin troppo esplicitamente le nostre passioni e adeguandole alle loro esigenze. Il linguaggio del desiderio determinato da logiche d’impresa o statuali è un linguaggio che troppi di noi parlano in modo fluente e inconsapevole. Le attività dei culture jammers prendono le mosse proprio dalla consapevolezza di questo disastro culturale, riprendendone i linguaggi per volgerglieli contro. Con questo attacco si spera di annullare la subordinazione dei nostri bisogni a quelli del profitto e di sviluppare nuovi linguaggi con cui gli individui e le comunità possano esprimere bisogni e desideri propri. Se il punto di partenza del culture jamming è quello di riprendere, deformandoli, i codici culturali predominanti che permeano i nostri linguaggi del desiderio e del bisogno, il punto di arrivo auspicato è di contemplare le rovine fumanti di questi codici e di assistere all’emergere di forme ancora inimmaginabili di produzione del desiderio.
Per comprendere le ambiguità, la forza e i punti deboli del culture jamming, dovremo analizzarne tre aspetti. Innanzi tutto sarà necessario delineare le tecniche di base del terrorismo semiotico. Dovremo poi allargare il quadro al campo più complesso dei codici culturali, soprattutto relativamente alla marca. Infine esamineremo quello che è il pericolo maggiore del culture jamming, cioè il suo costante recupero. In realtà è l’attivismo! nel suo insieme a dover affrontare questo problema, quando allenta la morsa e finisce all’interno di un cambiamento sociale deradicalizzato, ma è solo il culture jamming ad aver costituzionalmente questa suscettibilità al recupero. Il terrorismo semiotico, i codici e il recupero sono le tre coordinate o dimensioni del culture jamming.

Jamming della pubblicità di Benetton

Il terrorismo semiotico

Il terrorismo semiotico si riferisce a specifici atti del culture jamming. Con l’aggettivo semiotico intendo riferirmi a un terreno di lotta interamente simbolico, che è appunto l’ambito in cui si praticano gli atti di sabotaggio culturale. Il campo della semiotica è complesso e richiede analisi particolareggiate, teoriche ed empiriche, delle modalità di funzionamento dei segni e del loro significato. Un pensiero tanto complesso non è estraneo al culture jamming, ma è temperato dall’esigenza immediata dell’attività politica. Non è qui necessaria una digressione che offra una definizione elaborata del termine «semiotico», basterà osservare che per l’attivismo! questa rimanda tanto ai singoli simboli, per esempio all’immagine di un manifesto, quanto ai codici di significanza cui i singoli simboli appartengono, come le molteplici convenzioni che servono per produrre e cogliere i messaggi pubblicitari. Scopo del culture jamming è di spargere il terrore tra i simboli e i codici che compongono la semiotica della subordinazione dei nostri bisogni e desideri agli imperativi delle grandi imprese e dello Stato. È un terrore incruento, come lo sono i simboli che terrorizza, che non colpisce gli esperti di semiotica (se si esclude qualche torta alla crema brandita in nome della liberazione). Il terrorismo semiotico contesta i significati del mondo in cui viviamo. La forza e l’efficacia di un suo intervento si basano sull’impiego dello stesso linguaggio che si vuol criticare. L’effetto ottenuto trasformando «Employ Labour Now» in «No Labour Ploy» era dato dal fatto che i due adesivi avevano lo stesso aspetto. L’adesivo laburista utilizzava certi colori e caratteri che anche quello modificato conservava, per fare in modo che le persone che conoscevano bene lo slogan politico fossero sorprese da un significato insolito sotto la maschera di uno ormai noto. Un atto efficace di terrorismo semiotico opera su questi due livelli: il primo tende a colpire direttamente un obiettivo particolare, il secondo cerca di portare il linguaggio con cui il messaggio è offerto a noi, il pubblico, fuori della sua condizione assunta come normale ed esplicita. Una volta che si verifica una scissione tra il messaggio e il mezzo, il mezzo stesso diventa oggetto di discussione.
Vediamo come la cosa funziona in pratica. Nell’ottobre 1978, a San Francisco, un tabellone che pubblicizzava certe sigarette mostrava un uomo baffuto e seminudo («il Turco») con una donna bellissima al fianco che lo fissava estatica. Inutile dire che l’uomo fumava una sigaretta. Un attivista lo ha descritto così: «Il Turco era molto anni Settanta: macho, a torso nudo, sguardo d’acciaio, roba da ‘disco inferno’ fatta e finita» (3). Il sabotaggio culturale attuato dagli attivisti del Billboard Liberation Front (blf, ovvero Fronte di liberazione dei cartelloni pubblicitari) consistette nel mettere al macho man un elegante reggiseno rosa (4). Nella versione jammed lo slogan del tabellone «One of the kind» («Un tipo del genere») sembrava finalmente azzeccato. Gli interventi di questa natura richiedono inventiva, capacità di progettazione e disponibilità a trasgredire la legge. Ecco come il blf illustra questo tipo di intervento:
L’idea è stata del nostro vecchio pr, Simon Wagstaff. Di fronte al suo appartamento c’era un cartellone della Camel e Simon era costretto a guardare il Turco ogni mattina mentre si beveva il suo caffè. Ha pensato di dover chiarire il fatto che la maggior parte di noi fumatori non è poi così macha. Magari ci capita di tossire quando fumiamo... Il blf si è mobilitato.
Come in tutte le nostre operazioni meticolosamente studiate ed eseguite con precisione chirurgica, intendevamo ritoccare tutti i cartelloni pubblicitari con la nuova immagine «migliorata» del manifesto. Siamo riusciti a montare tre reggiseni... in tre posti diversi. Al terzo, Simon è inciampato nel secchio pieno di colla. È successo proprio mentre saltavamo sulla pedana appena sotto il Turco reggisenato per non farci vedere dall’auto di pattuglia del San Francisco Police Department che era entrata nel parcheggio e si era fermata quasi sotto di noi. Il poliziotto stava seduto là, sei metri sotto, e si faceva i fatti suoi, mentre una brezza lieve spingeva l’odore acre della colla che sgocciolava proprio verso il finestrino aperto... Siamo rimasti lì per più di un’ora senza muovere un muscolo. Più tardi abbiamo lasciato impronte vischiose in una fabbrica di bibite del posto (5).
In questa azione si porta alla luce il linguaggio pubblicitario attraverso una scomposizione della sessualità machista, in particolare mettendo a nudo il meccanismo che induce a comprare certi prodotti con l’idea di acquistare così un maggiore sex appeal. In questo caso si mettono in discussione sia il linguaggio sia il messaggio del cartellone.
Le società che producono sigarette sono fra i bersagli preferiti delle organizzazioni che fanno culture jamming, come blf e Buga-Up (Billboard Utilizing Graffiti Against Unhealthy Products, ovvero Cartelloni che ricorrono ai graffiti contro i prodotti malsani), ma l’obiettivo principale resta la pubblicità in sé più che un particolare prodotto. Lo si vede in un’altra azione del blf dell’aprile 2001. La rivista «Fortune» aveva realizzato un manifesto con il volto di Jeff Bezos e lo slogan «Nella terra dei ciechi, l’orbo è re». Bezos era a capo di Amazon.com, una delle principali aziende dell’e-commerce esplose negli anni Novanta. Il manifesto affrontava la questione del grosso calo azionario del settore delle nuove tecnologie evidenziando l’impegno di Bezos a costruire un’azienda solida invece che a ricavarne un profitto (cosa che non gli era riuscita) e paragonandolo alla saggezza dell’orbo. Questo messaggio, a sua volta, pubblicizzava la rivista come uno spazio in cui si può trovare la saggezza dell’orbo, che può servire a orientarsi con profitto sul mercato. Il blf ha messo due grosse monete da un centesimo sugli occhi di Bezos, per simbolizzarne il decesso, e ha modificato lo slogan così: «Nel Paese dei morti, l’orbo è re». Anche in questo caso la critica tocca sia il contenuto sia il linguaggio. Il suggerimento di riviste come «Fortune» di investire in azioni high-tech ha fatto precipitare nei debiti un buon numero di risparmiatori americani, perché molti di quei titoli hanno perso ogni valore o, come si dice nel gergo della finanza, sono morti. Non era questo il messaggio che voleva dare «Fortune», ma è quello che ha realizzato il blf. Il linguaggio del manifesto, che in origine tentava di creare un significato coniugando lo slogan alla foto di Bezos, era messo in luce dalla sua revisione radicale. Il blf aveva già condotto analoghe azioni di sabotaggio su un gran numero di manifesti che pubblicizzavano aziende on line, attaccando un adesivo che riproduceva un messaggio di errore del computer con la scritta: «Fatal Error: Invalid Stock Value» (6) («Errore fatale: valore delle azioni nullo»).
Un’altra serie di esempi si può trovare in «Adbusters», che è al contempo una rivista e una rete di sabotaggio culturale. La rivista segue le attività tanto del culture jamming che delle imprese private, con articoli di cronaca e di analisi sulle battaglie che sconvolgono i codici culturali. Sulle sue pagine si ritrovano numerose parodie di pubblicità. C’è un ritratto di Ronald McDonald con la parola «Grease» («Unto») sovrastampata sulle labbra e con le due «e» che riproducono le due «m» del logo McDonald’s. La vodka Absolut, a sua volta, aveva fatto una campagna in cui la parola absolut era abbinata ad alcuni sostantivi che segnalavano i motivi di attrazione per la bevanda, come per esempio fun (divertimento). Su «Adbusters» viene pubblicata una pubblicità che sembra della stessa serie ma con lo slogan «Absolut Impotence» («Impotenza assoluta») sotto una bottiglia flaccida e con il collo piegato, e una con la scritta «Absolut End» («Fine assoluta») con il profilo di una bottiglia disegnato per terra come se fosse la scena di un delitto. Un’altra ditta di superalcolici, la Smirnoff, propone una serie di inserzioni pubblicitarie che contengono immagini ripetute, una delle quali è alterata perché filtrata dal vetro della bottiglia. In un caso, per esempio, si vede una sequenza di persone annoiate in un party convenzionale interrotta dall’immagine di una festa scatenata vista in trasparenza. Adbusters ha cambiato il nome della vodka, «Smirkoff» [da smirk, sorriso ebete; N.d.T.], riproducendo una pubblicità dove si vedono bambini sorridenti, tranne uno dietro al vetro della bottiglia che è stato brutalmente picchiato. La finta pubblicità del profumo «Obsession» di Calvin Klein è già stata ricordata in un capitolo precedente. In una seconda versione lo slogan «Obsession for Women» (la versione per le donne) è posto sul dorso flessuoso di una donna nuda che sembra sul punto di vomitare nella tazza del gabinetto, svuotandosi lo stomaco per conservare la magrezza imposta dalle immagini pubblicitarie (7).
In ogni parodia di Adbusters si cerca di far sembrare la pubblicità il più possibile identica all’originale. Si ottengono così risultati opposti rispetto alle intenzioni originali, smontando il senso del messaggio pubblicitario: il profumo serve a smascherare il narcisismo maschile e l’autodistruzione femminile; la bottiglia di vodka è presentata come una minaccia mortale. In ogni caso, si riproduce fedelmente il linguaggio originale perché si vuole che il linguaggio stesso sia messo in discussione. Il tentativo dei pubblicitari teso ad accomunare un corpo perfetto a un profumo o il divertimento e la virilità a una bevanda alcolica viene messo in luce ricorrendo allo stesso linguaggio, ma producendo un ribaltamento del messaggio. Adbusters, come tutte le organizzazioni di culture jamming, vuole colpire contemporaneamente la singola pubblicità e i codici culturali che vogliono mettere i nostri desideri al servizio delle grandi imprese e non delle persone e delle comunità.
Si possono trovare molti altri esempi di terrorismo semiotico (8): adesivi che dicono «Sto cambiando il clima: chiedimi come» da attaccare alle auto che consumano tanta benzina; un timbro con la scritta «Scusateci, abbiamo messo un timbro sulla vostra lettera» da applicare sulle buste al posto dei timbri pubblicitari; l’annuncio di una lotteria canadese sostituito con la dicitura: «Vincere: solo quattordici volte più difficile che indovinare il codice pin di qualcuno»; lo slogan di un manifesto della McDonald’s che dice «Improvvisamente ti è venuta fame?» ribaltato in «Improvvisamente ti è venuto un peso allo stomaco?»; un parcheggio in una strada affollata riadattato con zolle erbose, sedie a sdraio e bibite fresche. La domanda che sorge è ovviamente questa: c’è un senso più generale in queste azioni che le renda qualcosa di più di semplici atti isolati frutto dell’ironia o della rabbia? Il culture jamming tocca davvero il sistema o è qualcosa di effimero?

Jamming di una pubblicità di Calvin Klein

«È la marca, cretino...!», ovvero del capitalismo dell’informazione

La marca è l’elemento centrale per analizzare il culture jamming nel suo senso politico più ampio. Non perché si tratta dell’unico nemico sotto tiro, ma perché è il modo più diretto per capire con chi ce l’hanno e per che cosa si battono i terroristi semiotici. La marca è l’ambito ideale per attaccare i codici culturali predominanti che sono gli obiettivi reali del culture jamming.
La marca è alla base di una certa strategia pubblicitaria che cerca di vendere un’immagine o uno stile di vita più che un prodotto. La più famosa in tal senso è stata quella della Nike, il cui simbolo, lo swoosh, come viene chiamato, si vede quasi dappertutto: sull’orecchio del più famoso giocatore di cricket australiano come sul berretto da baseball in testa a milioni di persone. Nike non vende tanto la qualità delle scarpe, dell’abbigliamento, dei cappelli o di qualsiasi altra riporti il suo simbolo, quanto la marca in sé. Assolda gente famosa, soprattutto campioni sportivi, e poi studia campagne che dicono poco del prodotto e che invece seducono il consumatore facendolo sognare di essere un Michael Jordan o un Tiger Woods. Una campagna Nike, in effetti, esortava: «Be like Mike» («Sii come Mike»). A un secondo livello, spesso quasi inconscio, la Nike cerca di invadere i desideri più profondi, irriflessi, con immagini che ci dicono come può essere meravigliosa la vita con sopra il simbolo dello swoosh. Gente che pedala in mezzo alla natura selvaggia, che gioca un basketball estatico, fisici perfetti che si esprimono al «limite». Queste e altre ancora sono immagini dell’universo Nike. Nell’insieme ciò che la Nike e altre aziende di marca cercano di fare è di essere riconoscibili al consumatore e di avere la sua approvazione. Il sito Nike riservato al pubblico femminile si chiama «Nike Goddess» («Le dee Nike»): se compri Nike, non compri scarpe, ma la possibilità di essere una dea.
Questo metodo pubblicitario si astiene dal fare direttamente le lodi di un prodotto, ma aspira ad acquisire un vantaggio di lungo periodo: poter vendere qualsiasi cosa su cui si può applicare un simbolo, perché è il simbolo che risponde ai desideri cullati nel più profondo. È questa produzione di codici simbolici, che attenta alla struttura stessa dei bisogni e dei desideri inconsci, il principale nemico del terrorismo semiotico. Al centro c’è la marca, che evidenzia con la massima chiarezza dove e perché il culture jamming attacca certi modi di guardare, di sentire, di ascoltare.
Per quanto possa essere ossessionato dalla pubblicità, il culture jamming non si ferma alla critica della marca. Dery ha detto che sta emergendo quello che si può definire l’Impero dei Segni:
In America, al capitalismo industriale si è sostituita un’economia dell’informazione caratterizzata dalla riduzione del lavoro alla manipolazione informatica di simboli, che prende il posto dei processi di produzione. I meccanismi della produzione industriale rallentano, lasciando strada a un capitalismo fantasmatico che produce merce virtuale: film hollywoodiani, sitcom televisive, slogan, jingle, immagini, ultratendenze che durano un istante, transazioni finanziarie che corrono sulle reti a fibre ottiche. Le guerre sono guerre stile Nintendo, con bombe intelligenti dotate di telecamera che coniugano spettacolo e armamenti per una televisione letale (9).
Dery collega i codici culturali del corporate branding (marchio d’impresa), che offrono seduzione in cambio del consumo, a quelli più generali con cui si costruiscono i nostri universi. La definizione di guerra stile Nintendo è stata spesso applicata alla Guerra del Golfo del 1991, perché si è svolta davanti agli occhi di una audience in certi casi orripilata, in certi casi esultante, con immagini prese in diretta dal campo di battaglia. Erano immagini che sembravano tratte di sana pianta dal più recente videogioco. Da allora ne abbiamo viste tante, ma è difficile sottovalutare l’impatto di quelle prime immagini viste in tutto il mondo di una bomba che raggiunge l’obiettivo o di un aereo che lancia un missile. La somiglianza con i videogiochi ha al contempo attirato gli spettatori, ai quali sembrava di partecipare direttamente, di premere direttamente il grilletto, e banalizzato la morte. Baudrillard si è spinto ad affermare che «la Guerra del Golfo non ha mai avuto luogo» o che non è stata altro che un evento mediatico. Il senso positivo che si può ricavare dalla frase di Baudrillard non sta nel fatto che non ci sarebbe stato spargimento di sangue, soprattutto visto che le vittime irachene sono state probabilmente più di centomila e quelle alleate sono state poco meno di trecento. Il senso è che la guerra vista e quella combattuta son state due cose ben diverse: la guerra che non ha mai avuto luogo è quella guardata sullo schermo, quella rappresentata come una simulazione adattata alle esigenze delle forze armate e degli Stati dominanti. I militari hanno così messo il loro marchio sulla Guerra del Golfo.
Possiamo rendere più concreto questo meccanismo se pensiamo al controllo esercitato sulla stampa dalle forze armate degli Stati Uniti e degli alleati nel corso di quella guerra. Tutti i giornalisti erano scortati da soldati nel corso delle interviste. I comunicati erano emessi collettivamente, e quindi un piccolo gruppo di reporter produceva le notizie utilizzate da tutti. In questo modo si tenevano sotto controllo sia i contenuti sia la rapidità delle comunicazioni. Un articolo su dieci sul «conflitto di terra» che procedeva rapidamente impiegava più di tre giorni per arrivare in redazione, un tempo superiore rispetto all’epoca della Guerra di Secessione. Colin Powell, allora a capo delle forze americane, ha dichiarato: «Una volta che le forze si sono messe in movimento e che si è provveduto a ogni particolare... l’attenzione va rivolta alla televisione. Perché si possono vincere le battaglie [ma] si perde la guerra se non si sa gestire la storia nel modo giusto» (10). Gestire la storia nel modo giusto significa fare in modo che i bollettini che arrivano dal fronte rispecchino l’ordine del giorno «corretto»; insomma, generali che esortano altri generali a mettere il marchio alle proprie guerre.
In questo modo, anche in mezzo al caos di un conflitto si cercano di controllare i significati. Si inventano e si sfruttano sistemi per fare in modo che anche le azioni militari più sanguinose si trasformino in codici culturali condivisi prima di arrivare in ogni casa. L’Impero dei Segni di Dery pervade dunque le nostre esistenze non solo con la pubblicità. Avendo appena accennato ai suoi aspetti militari, ci è ora più facile immaginare i tanti modi in cui chi può permettersi di pagare i migliori specialisti del campo può cercare di produrre codici culturali che definiscano bisogni e desideri a tutto vantaggio dei suoi specifici interessi. Basti citare le ingenti somme sborsate dai partiti per i sondaggi, la propaganda, gli esperti di comunicazione con l’obiettivo di sviluppare i codici culturali della politica.
E sono appunto questi gli obiettivi cui mira il culture jamming, giocando al loro interno. I progetti del gruppo di sabotaggio semiotico RTMark, avviati nel 1993, comprendono interventi contro la wto e il neoliberismo, il terrorismo etico, i ruoli di genere (per esempio la bambola Barbie), i videogiochi e il sesso, il lavoro, i diritti online e le campagne politiche (11). I jammers, cioè, intendono applicare le loro modalità di trasgressione a qualsiasi situazione in cui simboli e segni sono sistematizzati per formare un codice culturale a vantaggio di un piccolo gruppo. Dovunque sia possibile intraprendere un’azione di terrorismo semiotico, i culture jammers si propongono di svelare il messaggio, il linguaggio e il codice che si trovano occultati all’interno del messaggio.

Jamming di Ronald Mc Donald

Recupero: il gioco infinito dei segni

La strategia a favore delle diversità, del nomadismo, dell’unicità nel tempo, in opposizione alle leggi universali e a un ordine sociale programmato dall’alto, non è più sufficiente, perché sono cambiate le condizioni. A differenza dello Stato autoritario, il capitalismo globale non cerca di controllare il desiderio, ma di controllare attraverso il desiderio, incanalando esperienze e alterità nel ciclo del consumo e in quello della produzione (sempre più simbolica). Cerca un’acquiescenza aperta, inventiva, produttiva... Sotto questo nuovo regime ogni spazio di libertà che si crea è suscettibile di colonizzazione e di manipolazione. Gli atteggiamenti distruttivi non sono proibiti, ma studiati ed emulati (12).
Nel 2000 in Australia era comparsa una serie di manifesti pubblicitari di una nuova scarpa da football della Nike. La campagna pubblicitaria si svolgeva in un contesto contrassegnato da annose proteste contro i metodi di sfruttamento sistematico praticati dall’azienda (con ricorso persino al lavoro di schiavi e carcerati) per produrre merci su cui applicava il suo marchio. Lo slogan su quei manifesti diceva: «La scarpa più offensiva che abbiamo mai fatto». Ovviamente, il termine «offensiva» rimanda al linguaggio sportivo, dove assume un senso ben diverso di quello riferibile alle pratiche di sfruttamento della Nike in campo lavorativo. Eppure è possibile cogliere in questo caso uno strano ammiccamento, una certa complicità della multinazionale nei confronti dei suoi critici. La fase successiva della campagna ha infatti visto la Nike fare operazioni di jamming nei confronti dei suoi stessi manifesti. A imitazione dei terroristi semiotici, che applicano ai manifesti contestati simboli e messaggi, la Nike aveva successivamente fatto incollare sul manifesto citato questa frase: «What next, rocket packs?» («E poi? Un lanciarazzi?») e questa specie di scioglilingua: «Fair-Minded Footy Fans say Not Fair Mr Technology» («I tifosi del gioco leale dicono che non è corretto, Mr Technology»). Il gruppo Fair-Minded Footy Fans (fmff) aveva un proprio sito web sul quale spiegava chiaro e tondo di essere contro le superlative scarpe della Nike, che mettevano in una situazione di svantaggio chi non poteva usarle. fmff era un’invenzione dei pubblicitari della Nike e non una campagna di attivisti di base per rendere più leale il gioco del calcio. La pubblicità aveva assorbito il culture jamming facendone una tecnica in più da sfruttare. Il codice delle grandi imprese si era inghiottito l’opposizione.
I terroristi semiotici non si sono però lasciati impressionare, decidendo di rendersi indigeribili. Ben presto un altro slogan è comparso sotto (e non sopra) quello originale. Il manifesto adesso diceva: «La scarpa più offensiva che abbiamo mai fatto: lavoro di schiavi al 100%». L’effetto di ritorno della campagna anti-Nike forniva tuttavia all’azienda una pubblicità che non avrebbe mai avuto da una campagna «normale», tanto da poter rinunciarci del tutto. Ma ormai c’era dentro fino al collo. In un sito apparentemente molto critico, dopo avere raccontato un’altra volta tutta la vicenda, comparve questo commento a una dichiarazione che si diceva ricevuta via e-mail: «Si ritiene che questo testo sia stato trovato su un manifesto fotocopiato applicato a un cartellone della Nike a Melbourne e poi inviato a noi con la posta elettronica». Prima di queste parole, che erano il primo indizio che faceva sospettare che quel sito non fosse proprio ciò che sembrava, c’erano i paragrafi finali del testo citato:
ma il fatto più terrificante di tutti è questo: la Nike mi ha incaricato di scrivere e diffondere questo articolo. Mi hanno pagato una bella somma e promesso altri soldi fuori busta sulla base dello spazio che avrebbe conquistato sui media. Forse sarete delusi di me. Magari vi chiedete come mai una persona che pare intelligente e impegnata come me abbia potuto venire a patti con il diavolo. Faccio questo per darvi la possibilità di riflettere, per suonare un allarme culturale su cui ragionare a fondo. La Nike fotte non soltanto la vita di persone innocenti in Paesi in via di sviluppo, si frega di brutto anche le nostre emozioni. Come potremmo mai chiamare il demone che si è impossessato della cultura occidentale? La nostra protesta per i maltrattamenti nei confronti dei lavoratori di altri Paesi è soprattutto dovuta a una proiezione emotiva. Ciò che dobbiamo evidenziare in primo luogo è la violenza culturale che compie nei nostri confronti ogni volta che siamo bombardati dal suo immaginario. Dovete rendervi conto che per voi si restringe l’orizzonte della realtà culturale, ma perché questa diventi evidente non potete contare sulla gente come me. Che cosa implica il fatto che la Nike abbia preso possesso della critica culturale nei suoi confronti? pensiamoci bene. Purtroppo non posso combattere questa battaglia perché non sono reale. Sono stato generato grazie a un finanziamento della Nike (13).
L’intrigo ha ormai raggiunto livelli inquietanti. Il sito era stato installato dalla Nike, da qualcuno pagato dall’azienda, o da qualche suo oppositore che citava il testo di un manifesto? La Nike avrebbe davvero pagato un sito con i link dei suoi più accesi critici e avversari? E un jammer avrebbe preso dei soldi per dare una lezione ai suoi compagni di lotta? Esaminando il sito o i link, era praticamente impossibile capire dove stesse la verità. Il fatto più grave per il movimento è che l’appello anonimo a riflettere bene sul fatto che la Nike si sia impossessata della critica culturale nei suoi confronti coglie nel segno e solleva quesiti: il culture jamming è destinato al fallimento dato che anche nel pieno delle azioni di terrorismo semiotico finisce per rafforzare i codici culturali che le hanno provocate? Il ricorso ai codici delle grandi imprese, delle forze armate, dello Stato non serve a consolidarli, anche se il messaggio effettivo è un appello a combatterli?
Può essere utile un secondo esempio. Alla metà del 2001 sui muri di Londra sono apparse varie immagini realizzate con una mascherina. Vi compariva qualcuno che nell’aspetto sembrava un guerrigliero zapatista (passamontagna, tenuta militare, bandoliera) e forse lo stesso subcomandante Marcos (la pipa era appena scarabocchiata, ma c’era), con sotto lo slogan «We are you» («Noi siamo voi»). Una campagna a favore degli zapatisti? Niente affatto. Un’azienda inglese di abbigliamento, la Box Fresh, specializzata in urbanware aveva realizzato una nuova linea e la pubblicizzava sfruttando immagini e parole della lotta nel Chiapas. Il negozio Box Fresh era decorato con foto di zapatisti e con frasi di Marcos dipinte sul muro e sulle vetrine. Anche in questo caso la pubblicità aveva fatto proprie le tecniche del culture jamming e, ancora una volta, la reazione non era mancata. Accanto all’immagine di Marcos con la scritta «Noi siamo voi» sono apparse le parole «Niente affatto, tu sei un negozio troppo caro che cerca di fare il sovversivo. Box Fresh mi fa vomitare». Dentro a un fumetto che usciva dalla bocca di Marcos poi si leggeva: «Non comprate niente da Box Fresh: cercano di trasformare gli zapatisti in una pubblicità». Accanto a queste, ci sono state reazioni meno semiotiche, come un volantinaggio da parte di attivisti con il passamontagna, ed è cominciata una campagna di e-mail e lettere.
Il gruppo chiamato Space Hijackers che aveva dato avvio alla campagna ha poi raccontato che il responsabile della pubblicità, il grafico e il proprietario di Box Fresh avevano chiesto un incontro in cui avevano sostenuto di non essere «una banda di farabutti». E avevano aggiunto, sempre secondo il racconto degli hijackers: «Ci avete colto con le braghe calate e ci siamo resi conto di avere sbagliato». Per fare ammenda avevano accettato quattro condizioni: avrebbero donato agli zapatisti fino all’ultimo centesimo di profitto fatto sfruttando la loro immagine; avrebbero installato un computer nel negozio con accesso a vari siti zapatisti; non avrebbero più usato per la pubblicità l’immagine del subcomandante Marcos; avrebbero messo nel negozio dei volantini sulla storia degli zapatisti e nelle successive operazioni di marketing avrebbero diffuso informazioni sulla causa zapatista e sui suoi principi morali, invece di sfruttarla come strumento di richiamo e in termini estetizzanti (14). Gli Space Hijackers ammettono che avrebbero preferito veder ritirati tutti i capi con il logo, ma aggiungono di essere «rimasti sorpresi di brutto di essere riusciti a ottenere tanto». A meno che, magari, non fossero anche loro parte del piano di Box Fresh... E se fossero stati proprio loro a fare pubblicità al negozio? E se l’obiettivo fosse stato quello di farsi pubblicità gratis grazie agli articoli sui giornali?
Tutta questa storia serve per dire che gli atti di culture jamming vanno trattati con una certa cautela perché può succedere di scoprire che il vero autore sia proprio il «nemico». D’altronde, queste forti potenzialità di recupero sono date proprio dal fatto che, pur sovvertendolo, si utilizza il linguaggio del «nemico».

Jamming della pubblicità Camel

Si può uscire dall’Impero dei Segni?

Può darsi che le probabilità di recupero siano un buon motivo per lasciar perdere o per rifiutare il culture jamming. E infatti all’interno dell’attivismo! sono state mosse varie critiche nei suoi confronti. La rivista «Adbusters», per esempio, ha la stessa aria patinata delle riviste che critica ed è difficile da distinguere a una prima occhiata. Questa ambiguità, però, è anche uno dei punti di forza del terrorismo semiotico. Oltretutto, se si rifiuta il culture jamming per i rischi di recupero che presenta, si deve presumere che ci sia una via d’uscita dall’Impero dei Segni creato dalle grandi imprese e dallo Stato. Per respingerlo in linea di principio, si deve dare per assodato che esista la possibilità di sviluppare un linguaggio che non dipenda dai codici culturali predominanti. D’altronde, l’obiettivo ultimo del culture jamming, se poi ne ha uno, è proprio quello di elaborare linguaggi che riescano a esprimere bisogni e desideri generati da persone e comunità in dialogo tra loro, e non da codici determinati da logiche d’impresa o statuali. Se ci fossero bisogni e desideri che esistono allo stato puro, non contaminati da quelle logiche, il culture jamming sarebbe una pratica errata, perché si potrebbe sostenere che valorizzare i codici culturali non contaminati sarebbe molto più trasgressivo che non cimentarsi con quelli già inquinati. L’interrogativo cruciale è allora questo: si può uscire dall’Impero dei Segni? Se si può, il culture jamming ha scelto il terreno sbagliato per giocare la sua partita.
Uno dei fondamenti del culture jamming viene svelato proprio nella risposta data a quell’interrogativo: «No, i terroristi semiotici sono convinti che non c’è via d’uscita dall’Impero dei Segni». Non c’è luogo dell’esistenza non toccato dallo Stato e dalle grandi imprese. Non c’è una verginità non insidiata dalle pratiche culturali dominanti. Non c’è niente di affrancato da questi codici, dai momenti più intimi della vita sessuale (pensiamo alle campagne sull’AIDS o alla sessualizzazione della pubblicità) alla vita familiare (pensiamo alle intrusioni legislative o all’immagine di famiglia felice vista con gli occhi del profitto), allo sport, alla natura, alla stessa fantasia infantile e a qualsiasi altro immaginabile aspetto della nostra esistenza. Dappertutto troviamo informazioni, immagini, norme e bisogni generati, definiti e gestiti attraverso codici culturali prodotti da professionisti del desiderio. Le speranze del culture jamming non fanno affidamento sull’esistenza di alcunché di puro in un universo saturato dai media, piuttosto poggiano sull’idea che nel mondo così com’è emergano bisogni diversi da quelli attualmente dominanti. Il culture jamming opera dunque all’interno dell’Impero dei Segni per creare un esterno, per aprire falle attraverso le quali penetrino e si rigenerino bisogni non definiti dalla logica del profitto o della burocrazia. La sua è quindi una posizione pessimista: i codici culturali, i linguaggi del desiderio, esistono già, ma sono determinati dalla ragion di Stato e da quella del profitto.
Comunque sia, il culture jamming non perderà mai la sua ambiguità. Resterà sempre un interrogativo aperto sapere se il tentativo di operare con gli strumenti del nemico non finisca sostanzialmente per comprometterne la tattica. Pur ammettendo che non esistono alternative facili al linguaggio del desiderio indotto da grandi imprese e Stato, non è chiaro se il culture jamming possa indicare una strada che lo superi o se non sia semplicemente una sua versione aggiornata, riveduta e corretta. Potremmo anche supporre che questa tensione alimenti in parte la creatività dei terroristi semiotici e che quel flirtare continuamente con il nemico sia anche fonte di un certo eccitamento. Anche quando un’azione di jamming riesce, lo spettro del recupero non è mai del tutto svanito, perché riprendendo il linguaggio del nemico e sovvertendolo, si rischia di rendere ancor più inespugnabile l’Impero dei Segni. Come in ogni espressione dell’attivismo!, speranza e pericolo procedono fianco a fianco.

Tim Jordan

Pubblicità "jamming" di Box Fresh modificata dagli jammer

Note

1. M. Dery, Culture Jamming: Hacking Slashing and Sniping in the Empire of Signs, «Open Magazine Pamphlet Series», Pamphlet 25, 1993, p. 5.
2. Disponibile sul sito: www.adbusters.org/uncommercials/.
3. J. Napier, Letter to Seth Maxwell 1998, disponibile sul sito: www.billboardliberation.com/actions/turk.letter.html.
4. Disponibile sul sito: www.billboardliberation.com/actions/turk.html.
5. Napier, op. cit.
6. Disponibile sul sito: www.billboardliberation.com.
7. Disponibile sul sito: www.adbusters.org/spoofads.
8. Disponibile sul sito: www.adbusters.org/creativeresistance/jamgallery/street/.
9. Dery, op. cit., pp. 5-6.
10. Citato in R. Atkinson, Crusade: The Untold Story of the Gulf War, London, 1993, p. 161.
11. Disponibile sul sito: www.rtmark.com.
12. B. Holmes, citato in J. Crandall, Drive: Technology, Mobility and Desire, New York, 2002, pp. 222-223.
13. Disponibile sul sito: www.antimedia.net/nikesweatshop/.
14. Disponibile sul sito: www.spacehijackers.co.uk/html/projects/boxfreshres.html.


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Tim Jordan

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l’autore
Tim Jordan è docente del Dipartimento di Sociologia nella Open University di Londra ed è direttore della rivista internazionale «Social Movement Studies». Tra i suoi scritti si segnala Cyberpower. The Culture of Politics of Cyberspace and the Internet (Routledge, Londra 1999). Attualmente sta scrivendo un libro sull’hacking di matrice politica.