Rivista Anarchica Online


impero

La posta più rilevante
di Antonio Cardella

 

Effetti “secondari” della guerra in Iraq.

A giudicare con il respiro corto della breve durata, ci sarebbe di che rallegrarsi: neppure il più ottimista tra i critici dell’amministrazione Bush avrebbe giurato di poter raccogliere così in fretta i cocci di un disegno imperiale tanto ambizioso e arrogante quanto maldestramente condotto.
In Iraq gli americani, con gli alleati inglesi, hanno perduto tutte le mani di una partita che avevano baldanzosamente iniziato a giocare, ritenendo di poter gettare sul tavolo la posta più rilevante. La dura realtà delle cose, più che la lungimiranza degli altri giocatori, ha scoperto il bluff e adesso tutti i protagonisti di questa vicenda sono chiamati a fare il conto dei danni. Che sono enormi, sia in termini di risorse bruciate e di mancato sviluppo, sia in termini strettamente politici.
È vero: l’onere maggiore dell’avventura militare ricade su americani e inglesi, ma l’aver precarizzato l’intero scenario dell’economia mondiale ha reso ancora più difficile la soluzione dei molti problemi di assetto e di sviluppo che si erano posti per l’Occidente ben prima della crisi irachena e addirittura prima che crollassero le due torri di New York.
In un’economia così densa di interconnessioni, ogni conflitto, in qualunque latitudine sorga, crea sommovimenti e bolle speculative che rendono i mercati instabili, i corsi borsistici più incerti di quanto normalmente non siano, meno attendibili le politiche congiunturali che ogni nazione assume per rendere stabili i propri assetti interni.
Questo è tanto più vero per il gioco perverso che le grandi potenze – tutte le grandi potenze –hanno avviato in un’area nevralgica, quella mediorientale, nella quale confluiscono e si scontrano non soltanto interessi economici, per quanto rilevanti, ma tattiche e strategie politiche ciascuna delle quali riconducibile ad una ben determinata visione del mondo e ad un altrettanto ben definita aspettativa di futuro.

Equilibri saltati

Così le grandi difficoltà che americani ed inglesi trovano sul percorso di una favorevole evoluzione della situazione irachena non debbono illuderci sull’esito finale di un conflitto – quello che oppone i paesi ricchi al resto del mondo – molto più vasto di quanto non sia il terreno sul quale si attua lo scontro militare..
A ben guardare, infatti, malgrado le «chiusure» verbali, le minacce di veto e gli improvvisati giri di valzer, nessun paese dell’occidente industrializzato ha interesse a condurre sino alle estreme conseguenze l’opposizione alla politica americana. Certo, indebolire lo strapotere attuale del gigante a stelle e strisce è un imperativo che si pone con forza per tentare di ristabilire equilibri che sono saltati. Ma tutti gli altri paesi capitalistici sanno bene che, senza la locomotiva americana, non c’è futuro; che il petrolio iracheno, come quello dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli altri stati dell’area è indispensabile per alimentare la produzione industriale e per fornire d’energia l’intero mondo del capitalismo avanzato. Il problema vero è, quindi, quello di assicurarsi un posto nella mangiatoia, un posto congruo, che non faccia perdere posizioni nella competizione con gli altri membri della comunità del benessere.
Ma c’è un altro motivo che induce a non estremizzare i conflitti attuali tra i paesi della vecchia Europa, Francia e Germania in testa, e la coalizione angloamericana, ed è un motivo cruciale, che attiene la sfera dei futuri assetti eurasiatici, all’interno del quale la sorte dell’Unione Europea è fattore determinante.
Basta guardare con attenzione una cartina politica aggiornata del continente europeo per rendersi conto che il baricentro degli interessi e delle aree strategicamente influenti si è decisamente spostato ad est.
La caduta del muro di Berlino e l’implosione del blocco sovietico hanno obiettivamente diminuito l’importanza strategica delle nazioni che costituirono il nucleo fondante dell’Unione Europea a vantaggio di quei Paesi dell’est che si apprestano ad entrarvi. Ed è qui che si gioca la vera partita dell’egemonia americana sul pianeta.
Come ha dimostrato lo schieramento a favore dell’intervento americano in Iraq, le nazioni che già fecero parte del blocco sovietico hanno mostrato tutta la loro riluttanza ad appoggiare la posizione franco-tedesca di opposizione all’America, e la Polonia, addirittura, si è affrettata a fornire uomini e mezzi per sostenere l’avventura angloamericana.
Le ragioni di questa decisa presa di posizione sono molteplici ma le principali riguardano, intanto la preoccupazione di fare la fine dei proverbiali vasi di coccio, entrando a far parte di un consesso egemonizzato da economie forti che, alla fine dei conti, cristallizzerebbe una situazione di discrimine tra nazioni di serie A (poche) e nazioni di serie B (tutte le altre); poi la certezza che lo schierarsi decisamente a favore di una logica aggregativa che, in una prospettiva neppure troppo lontana, si porrebbe inevitabilmente in competizione con l’America, indurrebbe quest’ultima a tirare, da subito, i cordoni della borsa, ponendo così questi paesi nella incresciosa situazione di doversi cercare altri protettori, oggi ritenuti o troppo deboli, come l’Unione Europea, in uno scenario apocalittico di scontri tra giganti, oppure più vicini e assai più pericolosi, come la Russia di Putin, la cui conversione alla democrazia è ancora tutta da provare. Così si spiega la disponibilità più volte esplicitata dalla stessa Polonia, ad ospitare sui propri territori le basi militari che gli USA stanno già smantellando in Germania.

Continente dilaniato da conflitti interni

E qui, in questa propensione di un intero vecchio continente ad essere altro da sé, dilaniato da conflitti interni e da terrori incrociati, sta la quadratura del cerchio per l’America di Bush. Avere già accerchiato le più forti economie europee, quelle di Francia e Germania. Con un nugolo di paesi favorevoli alla sua politica è già un condizionamento forte allo sviluppo di una reale autonomia del Vecchio Continente. L’essersi assicurati i presidi militari alle frontiere di una vasta area in continuo sommovimento, quella mediorientale (con le basi in Turchia), il Nord Africa (con le basi in Italia e in Spagna), i Balcani (con le basi in Italia) e la Russia autonoma e secessionista (con le basi in Polonia) significa, per i falchi dell’attuale amministrazione americana aver costruito un solido presidio dal quale coordinare le successive fasi della preconizzata espansione imperiale.
Non è facile ipotizzare adesso quali possano essere le contromosse di un Continente Europeo che non intende lasciarsi colonizzare. Intanto occorre attendere l’evoluzione politica di paesi come la Spagna, il Portogallo e la stessa Italia che non sembrano aver capito qual è la vera posta in gioco. In un sistema imperiale esiste un Centro, e solo uno, che determina l’esistenza dell’intero contesto e non vi saranno differenze significative nello status delle diverse periferie.
In effetti, alcune carte contro questo disegno egemonico USA si possono ancora giocare.
A partire proprio dall’Iraq.
Gli errori commessi dagli americani in quella regione, infatti, non riguardano soltanto il non aver valutato correttamente i problemi che, in termini di ordine pubblico e di assestamento politico, sarebbero emersi dopo la guerra guerreggiata. Ma, soprattutto, quello di aver sottostimato in misura clamorosa i costi della ricostruzione.
I tecnici delle multinazionali, alle quali Bush, a licitazione privata, aveva assegnato gli appalti per la riabilitazione del territorio, si sono trovati di fronte ad un’impresa assai più ampia e complessa di quella prevista. Per di più, a ricoprire i costi della ricostruzione avrebbero dovuto essere i proventi del petrolio iracheno, quei 3,5 milioni di barili al giorno, che si sono rivelati una pura chimera. I pozzi, poi, vuoi per gli effetti della guerra, vuoi per l’embargo, sono in gran parte fuori uso e occorreranno almeno tre anni e investimenti enormi per riattivarli con i più moderni sistemi di estrazione, e ciò sempre che non vi siano nel frattempo sabotaggi degli impianti e degli oleodotti. Quindi le imprese amiche di Bush e del Pentagono – alcune delle quali riconducibili agli interessi del vice presidente Cheney e di altri membri del governo americano – sono chiamati ad anticipare i fondi necessari. Ecco perché, ad esempio, l’impresa che aveva vinto l’appalto per la riattivazione del sistema stradale, della rete idrica, degli impianti aeroportuali, per una commessa di oltre 380 milioni di dollari, la Bechtel dell’ex segretario di stato ai tempi di Reagan, è assai in ritardo con i lavori ed ecco perché gli iracheni stanno assai peggio oggi di quanto non lo siano stati ai tempi di Saddam.

Rallentare il processo espansionista

Orbene, questa situazione – che ha creato crescenti malumori nell’opinione pubblica americana, chiamata a diverso titolo a sopportare l’onere dell’impresa – ha indotto Bush a modificare il suo atteggiamento e nei riguardi dell’ONU e dei più importanti paesi dell’area occidentale, ai quali chiede adesso di condividere con gli Stati Uniti i costi del dopoguerra iracheno. Ovviamente questa condivisione di oneri non può essere gratuita, tanto più che restano aperte le questioni delle concessioni petrolifere che Saddam aveva assicurato alla russa Lukojl e alla francese Total-Fina-Elf.
Ecco, quindi, che si apre un terreno di contrattazione che può, se non arginare, almeno rallentare il processo espansionista vagheggiato da Donald Rumsfeld e compagni.
Ma vi è un’altra carta che l’Europa può giocare per interdire la deriva imperiale degli Stati Uniti, ed è quella di imporre l’euro come moneta di contrattazione per il petrolio mediorientale: Gli effetti sul mercato dei cambi sarebbero imponenti. Il più immediato quello di disaffezionare al dollaro i paesi arabi, disincentivando i loro investimenti sul mercato USA a favore di quello europeo. Ma qui il discorso si fa assai complesso, intanto per valutare correttamente tutte le implicazioni (e le incognite) dell’operazione; poi perché l’attuazione di una simile strategia finanziaria richiederebbe l’esistenza di una cultura economico-politica e di un’unità di intenti che l’Europa è ben lungi dal possedere.
Questo è il quadro sintetico, certamente parziale, ma, ritengo, attendibile dei conflitti, delle contraddizioni e delle imprevedibili emergenze che le aspirazioni della Casa Bianca e la guerra in Iraq hanno scatenato, in uno scenario geopolitico che era già in crisi, intanto, per una debolezza (congiunturale?) del sistema produttivo e finanziario dell’intero Occidente industrializzato; poi per l’attentato alle due Torri e il conseguente conflitto afgano; infine per l’inadeguatezza degli organismi internazionali (ONU, FMI, WTO, ecc.) quasi sempre a rimorchio di avvenimenti che non avevano saputo prevedere e che meno che mai riescono a controllare.
Ma – e qui ci riallacciamo all’assunto iniziale – tutto ciò che abbiamo descritto non basta a decretare la cristallizzazione degli antagonismi e l’irreversibilità dei conflitti. Si tratta pur sempre di antagonismi e conflitti che sorgono in un contesto i cui principali protagonisti condividono tutti le scelte di fondo del capitalismo avanzato e convergono tutti sulla necessità di perpetuarlo.
Non è difficile, quindi prevedere che, alla lunga, gli accomodamenti si troveranno.
Ma gli avvenimenti che hanno preceduto e seguito la guerra in Iraq almeno una cosa ci hanno suggerito con chiarezza ed è che il vecchio Continente ancora una volta è il terreno sul quale si affronteranno le potenze che pretendono di dominare il pianeta.
È bene che tutti coloro che intendono opporsi, ad ogni logica di dominio, ne tengano conto.

Antonio Cardella