Rivista Anarchica Online


dossier Illich

Ricordare Illich
di Pietro M. Toesca

 

Ricordare Ivan Illich è ricordare il suo contributo all’elaborazione di un giudizio grazie all’identificazione dei criteri che lo costituiscono come una vera e propria presa di coscienza radicale.

Ricordare Illich, per me e per coloro che appartengono alla mia generazione (che è appunto quella di Illich), significa ritrovare, attraverso la memoria, le tracce del percorso che ci ha condotto al giudizio che noi oggi diamo della realtà che ci circonda e alla presa di coscienza il più lucida possibile dell’alternativa storica dinanzi alla quale noi ci troviamo. Proiettiamo forse il nostro pensiero su una posizione datata facendola apparire anticipatrice e straordinariamente profetica? Certamente, ma il senso di questa proiezione sta proprio nella possibilità di assumere Illich come nostro interlocutore attuale: come per tutti i grandi pensatori la sua storicità non è un limite che lo costringe prima o poi all’obsolescenza, ma lo straordinario contributo, concreto e ad un tempo universale, metatemporale, alla formulazione di un giudizio che non si riduca all’interpretazione di fatti che, con il loro superamento, travolgano con sé il pensiero che ne ha preso atto, ma che è destinato a rimanere elemento di una rappresentazione dinamica grazie alla quale chi pensa e agisce nel mondo gli può essere consapevolmente, appunto lucidamente presente e attivamente attento alle sue necessità.
È proprio questo il merito fondamentale di Illich, il suo contributo all’elaborazione di un giudizio grazie all’identificazione dei criteri che lo costituiscono come una vera e propria presa di coscienza radicale. Leggendolo, o ascoltandolo per chi ha potuto farlo, si ha immediatamente l’impressione di essere posti in grado di vedere le cose con una partecipazione e ad un tempo una distanza che permettono di coglierle nel loro significato non contingente, di avere cioè a disposizione delle argomentazioni grazie alle quali si può ripigliare dall’inizio, dalla radice semplice ed elementare, ma per questo non parziale e già compromessa, ogni percorso costruttivo che ci è dato di dover affrontare. Per questo il destino di Illich, al quale si alludeva sopra, è pure oggi in qualche modo ‘cinico e baro’: il suo ricordo è schivato, rimosso, perché ben pericoloso in un momento storico in cui la difesa strenua ed estrema dei pregiudizi consolidati e deleteri è affidata all’ignoranza, all’obnubilazione delle coscienze, al rifiuto di ricominciare dal principio, pazientemente, a tessere i fili del nostro sapere e del nostro fare. È questa la già tanto denunziata morte (uccisione) della filosofia. Bisogna dire che questa sorte è toccata anche fin dall’inizio ad un pensiero così radicale da essere interpretato, anche a sinistra, mettendo avanti, come si direbbe ora, una serie di se e di ma, a cui si appende sempre il realismo teorico e pratico di chi è portato a identificare la realtà con i fatti e a considerare in qualche modo, per diritto o per traverso, il risultato storico come insuperabile se non dal suo interno, cioè tenendo fermi appunto, come criteri di giudizio, quelle stesse prospettive attraverso le quali si è giunti a quei risultati. Come se la continuità della storia non includesse anche continuamente discontinuità introdotte dal pensiero e dall’azione guidata dal pensiero, che dispongono, per loro costituzione, di un distacco critico che permette all’uomo di fare, in qualche modo, la storia. Altrimenti la libertà sarebbe poca cosa.

L’istituzionalizzazione

Ricordare Illich è dunque riscoprire un criterio di giudizio che permette di vedere la realtà storica, che ci riguarda, nel suo insieme; ed è il criterio della deistituzionalizzazione. E per istituzione si intenda la realtà e il simbolo di quella storicizzazione assoluta che va sotto il nome di realismo. L’istituzione è la risposta organizzata a bisogni ovvero a domande che l’individuo rivolge alla società nella convinzione che essa possa supplire alla sua impotenza ad esercitare un diritto e quindi trasferendo questa necessità soggettiva ad un meccanismo oggettivo che via via si costituisce in logica oggettiva e diventa così pretesa esclusiva di disporre degli strumenti necessari a soddisfare quei bisogni e quelle richieste. Il diritto si trasforma così, a sua volta, in dovere e l’obbligo sociale di intervenire e di provvedere passa al soggetto individuale come dipendenza assoluta e appunto obbligo di rivolgersi senza alternativa all’istituito ed autorizzato fornitore di servizi. Così si costituisce il monopolio istituzionale e il rapporto tra individuo e società si rovescia perfettamente, poiché non è più l’attività del soggetto individuale che associandosi fonda e controlla continuamente l’organizzazione delle risposte sociali e quindi della società intesa come soggetto collettivo e dialogante tra di sé, ma è la società organizzata, tendente alla conservazione della propria figura definita una volta per tutte, ad imporre le proprie regole ed i propri procedimenti e quindi assumendo nella propria oggettività tutta la soggettività degli associati espropriandoli proprio di ciò che essa sarebbe invece chiamata a sostenere e a garantire realmente. L’originaria giustificazione dell’istituzione si perde con la trasformazione di questa in interlocutore obbligatorio e assolutamente autoreferenziale. Attraverso questa autoreferenzialità passano tutte le regole di comportamento che invece di mettere in grado gli associati, cioè la comunità, di esercitare la propria libertà creativa trasferiscono direttamente quel potere a chi, in un modo o in un altro, cioè con la forza o con il consenso, è incaricato o si incarica di esercitarlo concentrandolo in sé ‘per il bene e al servizio’ di tutti. Ogni istituzione è a rischio di questa ambiguità, dalla famiglia alla scuola, dal luogo di lavoro alla società tutta. La società organizzata tende a sostituire monopolisticamente ogni processo di realizzazione della relazionalità che è un aspetto dell’individualità di ciascun soggetto umano e che per essere mantenuta nella sua verità deve poter fare riferimento continuo a se stessa ed alla propria formazione progressiva. La società deve ‘fare’ liberi, come la società deve essere ‘fatta’ dalla libertà effettiva degli associati.

Il monopolio espropriante

Contestare l’istituzione significa per Illich contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente ed anzi progressiva gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza. La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi ‘libera’ tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità comune.

La convivialità

L’alternativa? Illich la indica nella ‘convivialità’. Si tratta di recuperare, senza i salti e i rovesciamenti della mediazione artificiale che invece di essere tramite di sviluppo sostituisce e cancella i passaggi ‘naturali’, i processi attraverso i quali la razionalità costitutiva di ogni soggetto costruisce via via i rapporti reali, li esercita e li sperimenta in continuazione, attribuendo alla società il connotato e le dimensioni autentiche di un soggetto collettivo che non estrania né espropria i singoli ma li immerge in un dialogo fecondo che, mentre li fa uscire dalla solitudine, riversa su di loro, a sua volta, la propria acquisita e crescente forza inventiva, smontando ogni volta la tentazione istituzionale e mantenendo l’insieme in perenne attenzione cosciente, giudicante, partecipe, creativa.
Convivialità significa prima di tutto condivisione, gioiosa partecipazione reciproca: il che non vuol dire beota negazione delle difficoltà e dei triboli dell’esistenza, ma attivazione continua, gli uni per gli altri, della meraviglia che fa risuonare in noi la bellezza della realtà e permette di affrontare la sofferenza come una dimensione interna, mai catastrofica, di un percorso che si manifesta sempre come bene se è costruito insieme in uno scambio generoso di ciò che ciascuno scopre e realizza per sé.
Questo stare vitalmente intorno ad un tavolo circolare, che la parola convivialità evoca, annulla le differenze gerarchiche mentre riconosce e attiva le differenze grazie alle quali ciascun uomo è al principio e alla fine di ogni processo, connota in qualche modo di sé la storia che nasce dal discorso comune (dalla conversazione) e realizza quella reciprocità di fondo tra individualità e relazionalità che costituisce lo straordinario paradosso di un soggetto collettivo che non sopprime i soggetti singoli poiché è grazie alla loro realtà attiva che esso esiste e compie a sua volta la sua insostituibile funzione vitale.

La demistificazione del potere

Con questo Illich è in pieno nel processo di demistificazione del potere e dell’autorità, quella clamorosa scoperta, o riscoperta se si fa attenzione a tutte le anticipazioni dell’umanità cosciente e pensante, che sfugge sempre, ed è addirittura sfuggita a molta parte della contestazione rivoluzionaria dell’ultima storia, che l’eguaglianza tra gli uomini è sì un diritto strutturale ma non si attiva realmente se non attraverso una effettiva eguaglianza di partecipazione sociale, non contraddetta dal rientro per la finestra, cioè sul piano dei fatti, del monopolio organizzativo, scacciato dalla porta, cioè dalle parole dichiarative grazie a cui si finge la definitiva eliminazione di uno schema metodologico di differenze qualitative e quantitative che si riaffacciano poi con tutta la forza (ahimè) necessaria, cioè dell’extrema ratio quando si passa poi davvero all’operatività.
Anche questo rapporto tra le parole non è semplice e ovvio: le parole sono astratte, inefficaci, ingannevoli quando i fatti pretendono una loro logica autonoma, uno sbrigativo passaggio espresso dall’imperativo ‘basta con le parole, vogliamo i fatti’. Ma quali fatti se non quelli guidati dalle parole, dalle idee elaborate e confrontate, dalle parole come discorso conviviale: ecco la conversazione.
Quali connotati positivi può avere allora l’istituzione se non quelli che le possono derivare dalle condizioni che ne fanno un principio attivo di presa di coscienza, di capacità di disporre delle idee e delle parole da parte di tutti coloro che attraverso il dialogo sociale scoprono la propria umanità e sono messi in grado di esercitarla? Il problema della scuola, il primo che Illich affronta con clamorosa e radicale denuncia, è per questo esemplare.

La descolarizzazione

La descolarizzazione non è il rifiuto o l’eliminazione della dimensione educativa ma la sua restituzione alla trasversalità universale; ogni azione ha, lo si voglia o no, un versante pedagogico ed è alla restituzione di questo aspetto di strutturale reciprocità dinamica dell’azione umana che bisogna porre esplicita attenzione. Ogni istituzione come oggettiavazione operativa deve avere questo carattere della dinamicità e quindi della provvisorietà strumentale che esalta esclusivamente il potere derivante dallo stare insieme, potere dunque evidentemente condiviso e da condividersi sempre più (questa è la politica come pedagogia). La scuola come istituzione definitiva e sclerotizzata, cioè autoritaria, impedisce questo processo generale di coeducazione, sostituendolo con un indottrinamento istruttivo che trasforma ogni uomo che vi passa (ogni alfabetizzato) in tecnico a vari livelli, anche minimi, da cui è estromessa come destabilizzante proprio quella competenza grazie alla quale ogni uomo si riconosce appartenente ad una comune umanità, la cui figura storica è via via attrezzata sì di competenze particolari e strumentali ma soprattutto di una coscienza di sé che le deriva dalla cultura intesa come giudizio, come approssimazione alla verità, come ininterrotta meraviglia di fronte all’esistenza.
Quando Illich parla di descolarizzazione della società denunzia l’esito espropriante di una mediazione che, intrapresa per rispondere a domande e richieste tese a sapere, cioè a conoscere in qualche modo la realtà secondo verità, si costituisce poi come oggetto definitivo essa stessa di sapere, una nuova realtà non più giustificata dalla ricerca ma termine organizzato di un sistema di affermazioni e dunque di informazioni che con le domande proposte non hanno più niente a che fare o che, meglio, sostituiscono le risposte come referenti dialettici intendibili soltanto appunto come risposte, con un sistema di dati che tendono per loro natura, cioè per forza di autonomia, a mantenersi, crescere e giustificarsi secondo una logica tutta interna ed autoreferenziale. Questa è la confusione, indotta dalla scolarizzazione, tra processo e sostanza: chi vi approda ha modo poi di entrare, essendone autorizzato ma per questo costretto senza alternativa se non l’emarginazione, nel meccanismo sociale costituito come un ‘o dentro o fuori’, una realtà forte che mentre nutre e supporta i suoi associati, li obbliga ad una fedeltà accecante poiché impedisce loro di vedere l’artificio fittizio di un’operazione che sostituisce il sapere e dunque il giudizio riducendosi alla funzione di giustificazione dell’apparato di mantenimento di una società data a cui viene meno lo strumento della giustizia, cioè ogni momento critico del rapporto tra domanda e risposta. Un vero e proprio cogito interruptus poiché, invece di attrezzare il bisogno del singolo soggetto pensante degli strumenti necessari ad un giudizio autonomo interno alla realtà (la verità soggettiva verificata mediante procedimenti in qualche modo oggettivi), la cultura prodotta e distribuita scolasticamente trae pedissequamente dalla storia risposte storiche date per definitive, veri e propri pregiudizi che impediscono, oltre che lo sviluppo del sapere, l’accesso personale dei singoli, mediante l’apprendimento, ai vari processi di presa di coscienza della realtà. È qui che deve valere la distinzione tra processo e sostanza (il mezzo non deve essere il messaggio, ciò che avviene in una società alienata, come osserverà Mac Luhan), il che comporta una infinita variazione di procedure grazie alle quali il sapere è appropriato, e dunque accessibile, nelle infinite situazioni e alle infinite sensibilità esperienziali che connotano la personalità di ciascun uomo.

Universalità della dimensione pedagogica

L’apprendimento viene così liberato dalla dipendenza esclusiva dall’insegnamento: la dimensione pedagogica si ritrova come un aspetto del sapere e dell’agire di chiunque, anche del più modesto uomo la cui esperienza ha una potenzialità di comunicazione conoscitiva che è infinitamente e imprevedibilmente superiore al riconoscimento formalizzato che la codificazione sociale ne può dare. Illich segnala i casi e i successi dell’apprendimento cogestito da partners di cui uno dispone semplicemente di un sapere che ne costituisce la capacità comunicativa e relazionale (vedi una lingua, una capacità tecnica) e l’altro ha bisogno di acquisire quegli strumenti per comunicare a sua volta con la realtà che lo circonda. La scuola manca assolutamente di questa condizione concreta e perciò insegna in modo statico, vale a dire ciò che non serve e a chi non ne ha bisogno (avendo in realtà altri bisogni e dunque altre attese che, disattese, lo disgustano e lo rendono ormai irrimediabilmente ignorante). E questo avviene con un dispendio enorme di denaro, di risorse, di energie e di organizzazione che si potrebbero risparmiare soltanto se si desse ascolto alla figura reale della richiesta di sapere ed alla presenza nella realtà sociale di ogni epoca e di ogni situazione di una straordinaria ricchezza di elementi educativi che non attendono altro che di essere attivati con pochissima spesa e con una reale partecipazione di tutti coloro che ‘vogliono’ sapere.
È evidente che una prospettiva di questo genere scardina completamente un sistema di potere cioè una forma sociale fondata sul potere, sulla sua elaborazione concentrata e sul suo esercizio e richiede la costruzione (la restituzione) di una alternativa cioè della cogestione come autogestione. È ciò che Illich chiama convivialità.

La società vivente

Le persone di una tale società a cui pensa Illich non sono il risultato ma il principio stesso, il fondamento di una operatività che deriva direttamente dalle doti che le costituiscono nella loro semplice esistenza. Il rapporto reale attiva queste doti il cui esercizio incrociato e molteplice costruisce via via una società che non è già costituita a priori rispetto a ciascuno dei suoi membri: egli non vi si deve inserire, ma è piuttosto in grado di attribuirle i connotati viventi che egli elabora semplicemente vivendo. Il segreto di questo passaggio, dalla vita di ciascuno alla realtà sociale, sta nell’attivazione di quella dimensione che si è chiamata pedagogica, l’utilizzazione della forza comunicativa come istituzione di un rapporto creativo di risultati, cioè di una crescita comune. Si tratta di una istituzione la cui oggettività non è altro che l’esercizio reale della soggettività attivata dalla reciprocità. Il rischio di sclerosi espropriante è evaso continuamente dalla possibilità di appropriarsi in ogni momento della iniziativa, e questo coincide con la libertà. Sostanzialmente la funzione sociale è liberatoria, e il suo principio sta nella libertà stessa dei singoli attivata dalla relazione.
Convivialità richiama il convivere, una cerimonia di fruizione in comune della vita, con tutta la gioia del riscontrare nell’altro, negli altri, per sorpresa, la risposta possibile alle proprie domande, un fare comunicativo che passa dagli uni agli altri e fornisce ciascuno di ciò che ha bisogno per vivere da uomo. Questa è una società che coincide con la reale attività di relazione dei suoi membri, sta e cade con la loro vita: vivendo essi elaborano, definiscono, sviluppano gli strumenti che permettono loro, sia praticamente che a livello di coscienza, di fabbricarsi le condizioni necessarie e sufficienti per la propria umanità. Nell’homo faber/sapiens c’è già tutta l’evoluzione ulteriore e interna alla sua costituzione: da quel momento il suo problema è quello di sventare, continuamente e con precisa attenzione, l’ambiguità che gli strumenti che via via egli elabora portano con sé, trasformando in espropriazione un’attività il cui senso sta tutto nell’appropriarsi della vita e che dunque richiede una misura, un giudizio, la consapevolezza del rischio di ogni possibile e temibile esagerazione.

La scolarizzazione come principio

Illich identifica nella scolarizzazione il principio invasivo dell’istituzionalizzazione sociale generale: è lì che i processi significativi vengono requisiti e il bambino si abitua a rivolgersi ad una serie di protesi che, mentre lo attrezzano artificialmente ad ogni bisogna, lo privano della possibilità, cioè della capacità di fruire direttamente delle indicazioni di un ambiente significativo. L’alternativa è proprio una società come ambiente significativo, in cui le istituzioni, invece di manipolare le indicazioni della realtà varia e dinamica ordinandola in pacchetti la cui logica di mantenimento sostituirà totalmente la funzione vitale in coloro che da quel momento da quel mantenimento dipenderanno, non avranno altro compito ed altra giustificazione che quella di mettere in grado gli ‘utenti’ di essere autonomamente attivi, giudicanti e liberi. Una sorta di ossimoro fecondo che demitizza la necessità dell’istituzione, la cui provvisorietà funzionale consisterà nell’operazione di autoeliminazione, di sostituzione progressiva della propria necessità con la maturazione comunitaria. Una maturazione che ha sì una progressività, uno sviluppo (e questa è la storia come presa di coscienza successiva crescente) ma che richiede sin dall’inizio l’impostazione del rapporto istituzione/comunità in termini tali che la prima valga come strumento interno della seconda e non come referente dialettico assoluto definitivamente ineliminabile in nessuna occasione. Questa versione statica dell’istituzione reintrodurrebbe, come di fatto reintroduce, un’altro concetto di storia, la ricorrente dialettica tra positivo e negativo, tra buoni istinti e cattivi istinti umani, alla cui neutralizzazione sarebbe addetta insostituibilmente l’istituzione. Controllo, contenimento, repressione: questo è il compito della legge. Il corretto processo di umanizzazione dell’umanità punta invece sulla presa di coscienza, che a questo punto è evidente come sia impedita invece che favorita da istituzioni che si fondano sul presupposto dell’incapacità originaria dell’uomo di organizzarsi i percorsi per la propria realizzazione. Non all’uomo singolo associato ma ad un mitico fantasma delegato (formalmente o no) spetterebbe questa liberazione dall’impotenza, che però paradossalmente rimarrebbe eternamente tale a giustificare l’esistenza necessaria di un referente dialettico fattosi a tutti gli effetti potere. Assolutamente diseducativo poiché estraniante, interruzione, sbarramento di quei processi grazie ai quali, come dimostrano i primi anni di vita dei bambini, si esercita l’aspetto dinamico della ‘natura’ dell’uomo, cioè il suo statuto di ‘apprendista’, di persona che si fa persona. Perché ciò accada bisogna restituire al rapporto sociale la sua forza educativa, quel passaggio osmotico di capacità e di virtù che sta alla base di ogni invenzione civile e culturale. La legge sta forse alla base dell’arte, della solidarietà, del riconoscimento reciproco o non è piuttosto l’estremo e disperato rimedio alla constatazione della loro assenza, cioè del loro bisogno insoddisfatto? Dove non c’è giustizia si ricorre alla legge, e questo ricorso sostituisce definitivamente la giustizia ed il suo bisogno. Così la scuola si pretende cultura: ma quale invenzione culturale è mai nata dalla scuola e non piuttosto dalla sua contestazione (o addirittura dall’indifferenza nei suo confronti)?
Ecco dunque in che senso la descolarizzazione è centrale nella prospettiva della deistituzionalizzazione: poiché la ‘scuola’ impedisce l’educazione, il ricasco reciproco sociale della maturazione di ciascuno, la formazione stessa della società come soggetto collettivo vivente dell’attività di ciascun soggetto singolo che la compone e che anche grazie ad essa, come fatto unitario, trae da sé il meglio che lo riguarda e riguarda il rapporto con i suoi simili.

La restituzione sociale

Il testo principale di Illich Descolarizzare la società è scritto negli anni della contestazione (’60/’70) in cui è attribuito e quindi richiesto alla stessa istituzione di autoriformarsi, cioè di trasformarsi radicalmente grazie alla riappropriazione, da parte di tutti i suoi fruitori, insieme ai suoi operatori, delle condizioni originarie e giustificative in vista delle quali esse sono nate. Il che comporta a volte, e all’estremo, la propria autodemolizione come premessa alla restituzione sociale dei processi di soddisfazione di un bisogno. Il secondo passo è proprio quello educativo, l’educarsi collettivamente cioè reciprocamente a identificare con esattezza bisogni e procedimenti adatti a soddisfarli, demistificando le induzioni generate dalla confusione del bisogno con l’impotenza; confusione che produce il proliferare di una serie di altri bisogni artificiali che prendono il posto di quello originario e lo trasformano appunto nell’incapacità del soggetto di provvedere in qualche modo a sé e lo consegnano mani e piedi ad una organizzazione che provvede, con l’apparenza e dunque l’alibi della soddisfazione del bisogno, a privarlo di ogni autorizzazione e di ogni energia autonoma. Così il cittadino non esce dalla condizione di suddito, e lo Stato sociale non è altro che il rafforzamento del Potere concentrato. Non si è mai sentito parlare di una politica sociale di destra? molti esiti delle rivoluzioni sociali del secolo ventesimo fanno capo a questo equivoco.
In questa denunzia della trasformazione di autorità, e quindi autorizzazione, in potere si mette in rilievo che quello che conta non è il più o il meno della disponibilità dell’istituzione ad essere partecipata e quindi ad assumere i bisogni reali nella propria logica prospettica ed operativa, ma è l’impossibilità dell’istituzione di non porsi come filtro, come imbuto attraverso cui deve passare ogni processo costruttivo umano per farsi sensato. Questa centralità dell’istituzione taglia corto ed impedisce ogni sforzo del soggetto umano di realizzare di fatto le premesse della propria soggettività: invece che potersi rivolgere alle cose, a modelli, ai coetanei e compagni di strada e ad anziani saggi capaci di comunicare la propria esperienza, come ad interlocutori del proprio apprendimento, il giovane, o comunque l’‘apprendista’ è costretto a fare i conti con tutto questo come con un patrimonio indiscutibile che egli deve semplicemente introiettare per non interrompere uno sviluppo non di sé ma di una storia che riguarderebbe, come forme di una fantastica umanità, di volta in volta, aggregazioni mitiche che attraverso appunto l’insegnamento/apprendimento dovrebbero plasmare i singoli soggetti alla propria immagine e somiglianza, integrandoli nel proprio percorso definitorio. Illich tocca qui la radice del problema e si figura un rovesciamento radicale di prospettiva: deve essere restituita ai soggetti la propria capacità di iniziativa dialettica nei confronti di un contesto, quello sociale, che contiene in sé, come suo aspetto didattico, gli elementi dinamici della costruzione comune, che possono essere attivati solo da una attività comune, dall’attivazione permanente di una azione/prassi che non si identifica con la fabbricazione, cioè con la produzione di oggetti, ma attraverso questa, anche attraverso questa, si realizza come permanente esercizio dell’umanità di ciascun soggetto. È questa la vera attività politica, come in questi anni di contestazione radicale verrà messo in rilievo anche da altri pensatori (vedi ad esempio Hannah Arendt) e che Illich, con un richiamo non solo implicito all’esperienza greca e alla cultura medievale, identifica con l’attività educativa. Con l’autoeducazione collettiva ovvero attraverso la collettività. Per questo la descolarizzazione assume la centrale importanza del disarmo dell’istituzione sociale e descolarizzare la società significa restituirle le condizioni della propria essenziale soggettività. In questa prospettiva si inscriveranno gli straordinari studi di Illich sulla lettura come interiorizzazione dei significati oggettivati dalla scrittura che i medievali inaugureranno superando la lettura pubblica ad alta voce come rituale quasi esclusivamente sociale, promotore di una cultura tendenzialmente oggettiva, attraverso l’accumulazione ripetitiva di suoni orientati alla produzione di una uniformità unisona.

Scuola e cultura

Leggere Illich vuol dire respirare contemporaneamente le origini di una cultura che per poter manifestare la propria essenzialità deve essere liberata dalla sua ambiguità che la fa pretendere, e così spesso nella storia la trasforma, come principio del dominio, e insieme identificare esattamente l’antidoto di questo rovesciamento, cioè il ritrovamento del significato di quelle origini nel riferimento alle dimensioni elementari, ‘naturali’ dell’uomo che si scopre come soggetto ed esercita per tutta la vita le conseguenze, che sono anche le condizioni, di questa scoperta. È questo ritrovamento che la scuola impedisce, emarginando i più con l’esclusione, o con un pesante giudizio di inadeguatezza, dal processo di apprendimento requisito in termini di sistema tutto precostituito, cioè affatto indipendente e previo rispetto all’esercizio stesso dell’apprendimento, che dovrebbe invece avere principio in se stesso. Cosicché l’autoeducazione che non abbisogna di altro che dell’attivazione dell’aspetto didattico/comunicativo delle doti di ciascun vivente, è sostituita e dunque resa impotente dai dettami elaborati da un sapere che fa riferimento a se stesso (ai propri metodi, e fini, e privilegi) e affatto alle richieste reali e sensate di chi vuole sapere. Così i più sono esclusi, e la curiosità naturale e generale lascia il posto alla logica di una costruzione maneggiabile da coloro che hanno il coltello per il manico, cioè da coloro che possiedono ed esercitano il sapere come privilegio discriminatorio. Ovvero come lo strumento principale della discriminazione.
Per questo la deistituzionalizzazione scolastica è prioritaria, poiché è nella scuola che si elaborano e si comunicano i criteri di questa discriminazione, l’obbedienza, l’accettazione dei dati di fatto. «La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di aver bisogno della società così com’è». Illich sa qual è il formidabile valore rivoluzionario della cultura come progressivo processo di autocoscienza e quindi di acquisizione del giudizio critico, e per questo denunzia la scuola come altrettanto formidabile disarmo di questo potenziale esplosivo. Un esplosivo, se così lo si può chiamare metaforicamente, finalmente pacifico che rappresenta cioè le condizioni della trasformazione sociale come normale procedura di costruzione della storia invece che costretto esercizio della violenza clonata sulla violenza del potere da cui ci si deve difendere. Interrompiamo il ‘normale’ processo di alienazione e ci affrancheremo dalla necessità del ricorso alla violenza come strumento di liberazione dalla violenza.
Questo significa restituire la speranza che è stata sostituita storicamente dalle aspettative: la speranza, come apertura alla vita di ciascun uomo, che è stata vanificata dalla costruzione artificiale di aspettative in un gioco oggettivo di rimandi tra possibilità operative e creazioni di bisogni che le rendano concretamente reali e indefinitamente superabili. Così si chiude il saggio sulla descolarizzazione, con un richiamo all’unico dono positivo che Pandora ha tenuto ben chiuso nel suo vaso dopo essersi lasciati sfuggire tutti i mali disperdendoli nel mondo, l’unico bene divino che ella ha riservato all’umanità, la speranza come respiro della soggettività.

Pietro M. Toesca