Rivista Anarchica Online


Estremo Oriente

La morsa si stringe
di Jean Jacques Gandini

 

Oggi Hong Kong è una Regione Amministrativa Speciale e Pechino ha tutta la convenienza a mantenere la finzione di “un paese due sistemi” se vuole arrivare alla riunificazione con Taiwan.

Come definire la situazione di questo gioiello d’Oriente, che ha affascinato tante generazioni, a cinque anni dal 1° luglio 1997, data del ritorno alla madre patria, quando assume il suo secondo mandato il capo del locale Esecutivo, l’armatore Tung Chee Hwa, blandito da Pechino e unico candidato alla propria successione? Per la maggioranza degli abitanti di Hong Kong che ho incontrato, è gloomy, triste. Nonostante le previsioni che prospettavano uno scenario autoritario all’indomani della restituzione (1), non c’è stato “né uno scontro politico violento, né una vera repressione politica e nemmeno molta censura” (2). No: i guai sono venuti da dove meno ce lo si aspettava, dall’economia colpita in pieno dalla crisi asiatica del 1997-1998 (3).
Nel luglio 1997 Hong Kong, diventata Regione Amministrativa Speciale per un periodo di cinquant’anni, dava ancora segni di una florida salute finanziaria. Settima potenza commerciale del mondo, settimo mercato borsistico, quinto centro finanziario, con riserve valutarie stimate a 65 miliardi di dollari americani (4), primo porto container del mondo, un reddito medio pro capite di 25.000 dollari, superiore a quello della ex potenza coloniale, Hong Kong è il cardine incontestato dell’economia dell’area, in un mondo cinese in piena espansione (5). È l’interfaccia obbligata, attraverso la quale transita la maggior parte degli investimenti stranieri in Cina e delle esportazioni cinesi in tutto il mondo.
Una delle particolarità del territorio è rappresentata dal fatto che gli investimenti in conto capitale sono per lo più indirizzati verso le azioni e i beni immobili. Il governo, principale proprietario terriero, incoraggia la speculazione sul mercato immobiliare, mettendo all’incanto i lotti migliori, ma uno per volta, in modo da creare in modo artificiale un’offerta limitata e far lievitare così i prezzi di vendita. Le entrate in tal modo prodotte alimentano per il 40% il bilancio locale e permettono così di finanziare gli investimenti massicci nelle infrastrutture, pur mantenendo al 15% le imposte sui redditi e sui profitti d’impresa. I privati sono sollecitati all’acquisto grazie a una politica bancaria di facili crediti e con la prospettiva di rivendere con profitto nel giro di qualche anno.
La crisi asiatica ha fatto franare questo edificio, provocando il crollo del mercato borsistico e fallimenti a cascata, attacchi speculativi sulla moneta, lo scoppio della bolla immobiliare sulla quale si puntava per la prosperità del territorio, e una corrispondente contrazione dei consumi. Se l’arretramento è stato limitato nel 1999 grazie alle enormi riserve finanziarie e in divisa che hanno permesso al governo di rispondere in modo efficace alle difficoltà della crisi, di sottrarsi agli attacchi degli speculatori e di proteggere il tasso di cambio fisso tra il dollaro USA e quello di Hong Kong (6), al punto da avere addirittura una ripresa nel 2000 grazie a circostanze esterne eccezionali, nel 2001 c’è stata una ricaduta, con il rallentamento dei paesi sviluppati e la svolta nel ciclo dell’elettronica che hanno comportato una crescita della disoccupazione e una svalutazione delle attività. Nel 2002 si assiste a una lieve ripresa, grazie alla forte crescita (7) del turismo dalla Cina e all’aumento delle vendite al dettaglio, ma la caduta dei prezzi degli immobili (meno 60% cento rispetto al 1997) e la perdita di valore dei patrimoni (quando è il momento di rimborsare i crediti), hanno comportato una contrazione dei consumi, per quanto riguarda i beni durevoli, nonostante il persistente calo dei prezzi, mentre la Borsa resta in atonia. Siamo in piena deflazione. In valore nominale il PIL non ha più raggiunto il livello del 1997, mentre il tasso di disoccupazione tocca il massimo picco del 7,4%. Il bilancio di spesa, tradizionalmente in attivo, vede spuntare il deficit (8) e questo in modo strutturale, fondandosi su una base fiscale troppo limitata: dipendenza eccessiva rispetto ai redditi patrimoniali (vendita di beni immobili e utili dalle riserve fiscali) che continuano a calare. Questa vulnerabilità dell’economia di Hong Kong, troppo dipendente dai flussi commerciali e di capitale internazionali, e troppo dipendente dalle esportazioni (9), potrà trovare una soluzione nella crescente integrazione con la Cina continentale, la cui economia avanza a passi da gigante?

Un’integrazione economica sempre più spinta

La crescente importanza delle relazioni reciproche tra la Cina e Hong Kong non ha aspettato il 1997 e appare oramai un fenomeno irreversibile. Fin dall’inizio dell’apertura economica della Cina, alla fine degli anni settanta, Hong Kong è stata la punta dello sviluppo infrastrutturale e immobiliare, prima del sud, e dagli anni novanta in tutto il paese. Nel 1995 più della metà dei venticinque miliardi di dollari di investimenti provenivano da Hong Kong; l’ottanta per cento delle grandi e medie imprese del territorio hanno impiantato fabbriche soprattutto nel limitrofo Guandong (10), ma anche nelle altre province, e i grandi magnati, come Li Kashing, i fratelli Kwok, Lee Shau Kee e Henry Fok (11), hanno investito massicciamente nel campo delle infrastrutture e dell’urbanizzazione. Per contro, 1.800 imprese del continente sono già rappresentate nel territorio e i diversi gruppi della famiglia Deng Xiaoping quotati in borsa rappresentano un valore di due miliardi di dollari americani. Secondo il rapporto 2001 pubblicato dal Servizio d’informazioni del governo di Hong Kong, il territorio è attualmente il terzo partner commerciale della Cina, con l’11%, e la Cina il primo di Hong Kong con il 40%. Cinquanta tra le maggiori aziende di Stato cinesi sono quotate alla Borsa di Hong Kong e il 75% delle società private privilegiano Hong Kong come testa di ponte per raggiungere i mercati esteri e per raccogliere finanziamenti (12). La Banca di Cina (13) è ormai il secondo gruppo bancario del luogo e ha il ruolo di banca di emissione, Cina Resources, diretta emanazione del Ministero del Commercio estero, controlla più di duecento aziende. La Cina International Trust and Investment Corporation, è diretta da Larry Young, figlio di Rong Yiren, protetto di Deng Xiaoping e vicepresidente della Repubblica Popolare nel 1993. Larry Young è diventato uno dei dodici amministratori del Jockey Club, il sancta sanctorum dei manager locali, ed è presente dappertutto: trasporti aerei (Cathay Pacific, Dragonair, Cargo Terminal), elettricità (China Light and Power), telecomunicazioni, distribuzione, credito, immobiliari (in partnership con Li Kashing), franchising di tunnel eccetera (14). In sintesi, la Cina è diventata il primo investitore nel territorio.
Per contro, con l’ammissione della Cina al WTO, la rendita di posizione di Hong Kong, come porto di accesso al mercato cinese tende a ridursi sempre di più, e lo stesso vale quindi per il suo ruolo di intermediazione commerciale. Così, di fronte a un governo centrale che vorrebbe limitarne la funzione a quella di un sistema economico regionale con al centro il Delta delle Perle, con una forte crescita industriale e un ritorno a un commercio di stoccaggio, Hong Kong cerca di conservare il proprio ruolo di centro finanziario di fama internazionale e sogna per sé un futuro di metropoli high-tech.
A questo proposito, oltre al vantaggio preso da Singapore e da Taipei nel campo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (15), segna anche il passo il principale progetto in corso (16), il Cyberport, per un investimento complessivo di 1,7 miliardi di dollari americani. La commessa è stata assegnata alla Pacific Century Cyber Works (17) di Richard Li, “Mister Internet”, senza che fosse stata bandita una gara d’appalto. La prima tranche del progetto è stata consegnata nel giro di tre anni, nel luglio 2002: ci sono uffici e appartamenti (18) dotati di cavi e connessioni Internet, ma i clienti... se si eccettuano la stessa PCCW e le società del padre di Richard, Li Kashing: Fortress, Watson, Park’n’shop.
Come centro finanziario, Hong Kong vede spuntare all’orizzonte la minaccia di Shanghai, che da una dozzina d’anni sta bruciando le tappe, tentando una marcia forzata per annullare il ritardo sulla città rivale, rinverdire il lustro passato e riconquistare il primo posto nel mondo cinese. La messa in orbita di Shanghai è una scelta strategica del potere politico (19), che teme una crescita troppo forte della potenza del sud con il nuovo asse Hong Kong/Shenzhen/Canton. L’ironia della storia è che sono gli stessi cittadini di Hong Kong, nipoti di quelli di Shanghai che erano fuggiti nel 1948-49 davanti all’avanzata delle truppe comuniste e che avevano contribuito all’impetuosa crescita del territorio negli anni cinquanta e sessanta, che oggi investono sempre di più su Shanghai! Anche se questa città conosce una crescita impressionante nel campo dei servizi finanziari, con l’apertura della Borsa nel 1990, come in quelli assicurativo e della distribuzione, il suo PIL di 60 miliardi di dollari americani, di cui il 47% viene dal settore industriale, è pari a solo il 37% di quello di Hong Kong, che ammonta a 162 miliardi, con un 85% dal terziario, e una popolazione più che doppia (20). Anche con un ritmo di crescita annua del 10-12% non è pensabile che si possa colmare il divario prima di 15-20 anni. Dato che in Cina la politica del credito resta ancora ad uno stato embrionale, i conti delle banche sono gravati da una montagna di crediti dubbi verso le imprese di Stato, mentre i meccanismi giuridici che regolano le controversie commerciali sono tutt’altro che affidabili (21). Invece Hong Kong può avvalersi di un sistema bancario molto efficiente, di una gamma ineguagliata di servizi finanziari e di un sistema giudiziario che si ispira alla Common Law inglese e che funziona con magistrati la cui indipendenza è garantita dalla Legge fondamentale del 1990. Ma si può dire che Hong Kong continui a essere uno Stato di diritto?

Libertà sempre più minacciate

La Legge fondamentale stabilisce, all’articolo 2, che la Regione autonoma speciale di Hong Kong “gode di un potere giudiziario indipendente, che comprende la facoltà di giudicare in ultima istanza”. Due vicende salite agli onori della cronaca mettono in dubbio questo principio.
Il 12 novembre 1998 Cheung Tse-keung, alias Big Spender, il capo di una famigerata gang, processato insieme ad altri trentacinque imputati, è stato condannato a morte dal tribunale popolare intermedio di Canton per “furto, commercio illegale di esplosivi, contrabbando d’armi e di munizioni”. La giustizia cinese si era dichiarata competente per il fatto che Big Spender era stato arrestato in Cina, pur avendo residenza fissa a Hong Kong, pur essendo le vittime (22) di Hong Kong e nonostante il furto fosse avvenuto a Hong Kong. Benché lo stesso articolo 24 del codice di procedura penale della Repubblica Popolare Cinese stabilisca che “una causa penale è soggetta alla giurisdizione del tribunale popolare del luogo in cui è commesso il reato”, il governo di Hong Kong non ha fiatato. Questa vicenda si è rivelata ancor più grave per il fatto che il tribunale superiore di Canton ha respinto l’appello il 15 dicembre e Big Spender è stato immediatamente giustiziato, mentre a Hong Kong non esiste la pena di morte... (23).
La seconda vicenda riguarda un caso di riunificazione familiare: secondo l’articolo 24 della Legge fondamentale, “ogni bambino nato da un residente fisso di Hong Kong, anche fuori da Hong Kong, ha diritto di residenza”. In questo caso sono trecentomila coloro ai quali la Cina impone la presentazione presso i servizi di emigrazione di una documentazione che, una volta accettata, è trasmessa al Dipartimento per l’Immigrazione di Hong Kong. La lista d’attesa è tale e la burocrazia così elefantiaca, che la prima fase richiede anni, visto che all’inizio del 2002 dei trecentomila postulanti solo ottantamila avevano beneficiato di questo primo nullaosta, mentre la seconda fase dura al massimo tre mesi. Un certo numero di candidati è quindi entrato a Hong Kong con un semplice visto turistico di tre mesi (24) e ha presentato la sua pratica direttamente al Dipartimento per l’Immigrazione. Quest’ultimo ha respinto le domande così inoltrate, perché non figuravano nell’elenco trasmesso regolarmente dalle autorità cinesi: sono stati presentati ricorsi in tribunale e nel 1999 la Corte d’Appello Finale, che giudica in ultima istanza, ha emesso una sentenza favorevole ai ricorrenti, giudicando possibile inoltrare direttamente le domande al Dipartimento dell’Immigrazione. Temendo un rischio di forti pressioni sull’economia che un afflusso del genere avrebbe comportato, il governo di Hong Kong si è allora rivolto al Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale Popolare cinese, per una “interpretazione della Legge fondamentale” e il Comitato ha decretato che i postulanti dovessero richiedere un certificato di uscita dal territorio presso le autorità cinesi prima di rivolgersi al Dipartimento per l’Immigrazione di Hong Kong. Nonostante tutto è stato presentato un altro ricorso, ma stavolta, nel gennaio 2002, la Corte d’Appello Finale ha dovuto cedere.
Minacce incombono anche sulla libertà di stampa. Il “South China Morning Post”, considerato, al momento della “retrocessione”, il giornale di riferimento della colonia, con una fama di indipendenza, ha dovuto ammainare bandiera in seguito al licenziamento di due dei suoi giornalisti più in vista, l’editorialista Willy Lam, nel novembre 2000, che aveva osato scrivere che Pechino aveva convinto i magnati della finanza a sostenere Tung Chee Hwa, in forte crisi di popolarità, facendo loro balenare la prospettiva di profitti sul continente, e Jasper Becker (25), responsabile della redazione di Pechino, nel maggio 2002, per “insubordinazione”, perché non sopportava più le manovre del caporedattore incaricato di coprire la Cina (un ex redattore del “China Daily”, il quotidiano anglofono ufficiale di Pechino), che gli controllava tutti gli articoli e rifiutava qualsiasi inchiesta riguardo ai conflitti sociali del nord-est della Cina. Bisogna dire che il proprietario del giornale, Robert Kwok, è un magnate di origine malese i cui affari prosperano sempre di più nella Cina stessa, e questo spiega senza dubbio molte cose!
D’altra parte, in occasione di una conferenza stampa, nel novembre 2000 a Pechino, in compagnia di Tung Chee Hwa, il presidente Jiang Zemin, si era lanciato in una violenta diatriba contro i giornalisti di Hong Kong presenti, minacciandoli, con l’indice puntato sentenziosamente, di essere “considerati responsabili se le vostre informazioni non saranno esatte”, poiché una giovane reporter di “Cable TV” aveva osato chiedergli se aveva emanato “un ordine imperiale” per rinnovare il mandato di Tung Chee Hwa nel 2002.
Ma l’attentato più grave, e che coinvolge attualmente tutti i cittadini, è senza ombra di dubbio quello che riguarda la libertà di espressione e, per estensione, la libertà d’informazione, d’associazione e di manifestazione, con l’applicazione dell’articolo 23 della Legge fondamentale. Ai sensi di questo articolo, infatti, il governo “deve legiferare direttamente per interdire qualsiasi atto di tradimento, di separatismo, di sedizione, di sovversione contro il governo centrale del popolo (cioè di Pechino) o il furto di segreti di Stato”. In seguito a trattative dirette legate alla riconferma del proprio mandato quinquennale, Tung Chee Hwa ha deciso di emanare una legge “antisovversione” basata sul concetto della “sicurezza nazionale” e, per definirne la portata, ha aperto nel settembre 2002 una consultazione di tre mesi tra l’opinione pubblica, prima di farla approvare dal Parlamento (26).

L’apatia della popolazione

La maggior parte dei giuristi sostiene concordemente che non ci sarebbe bisogno di una nuova legislazione e che le norme esistenti bastano per sanzionare i fatti elencati all’articolo 23. Per l’associazione dei giornalisti di Hong Kong, “questa legge metterebbe un freno all’espressione di opinioni differenti e potrebbe nuocere al ruolo di centro d’informazioni internazionalmente riconosciuto a Hong Kong. Il separatismo e la sovversione non sono oggi considerati reati a Hong Kong” (27). La trentina di organizzazioni (28) riunite nel Civil Rights Human Front vi vede un “attentato alla libertà d’espressione, d’informazione e di associazione” (29). Gli articoli sulle attività separatiste nel Tibet o nello Xinjiang, o una semplice intervista al presidente di Taiwan che si oppone all’applicazione del principio “un paese due sistemi”, potranno essere considerati “secessionisti”, e i reportage sull’attività del movimento democratico in Cina “sediziosi”. I giorni del movimento Falungong (30), vietato in Cina, sono contati. Conseguenze della nuova legge: arresti e perquisizioni senza mandato, condanne fino a sette anni di carcere per chi “incita alla violenza o al disordine pubblico”, ergastolo per “tradimento”. L’impavido ministro dell’Interno, Virgina Hip, trincerandosi dietro all’articolo 19.3 del Patto Internazionale relativo ai diritti civili e politici (31), afferma di non vedere il problema: “La semplice espressione di un’opinione non costituisce un atto delittuoso. Bisogna esaminare l’intenzione, soprattutto se è tale da incitare altri a commettere atti che metterebbero in pericolo la sicurezza nazionale.” (32) Non l’atto, l’intenzione: siamo nel pieno arbitrio! Siamo così anche in presenza di un vero e proprio cavallo di Troia giuridico, perché una volta che la nuova legge sarà entrata in vigore, il potere cinese potrà imbavagliare ogni forma di opposizione affermando di sentirsi minacciato. In effetti non ha mai dimenticato il 4 giugno 1989, perché nei giorni successivi al massacro di piazza Tienanmen un milione di persone era sceso in piazza (33) (un abitante su sei!) e in seguito Hong Kong ha svolto un ruolo decisivo nella fuga dalla Cina di circa ottocento dissidenti (34). Ma il verme è già nel frutto, visto che la Legge fondamentale stabilisce che tutto ciò che riguarda gli Affari esteri e la Difesa sia di esclusiva competenza di Pechino, che può così sospendere l’applicazione delle leggi della Regione Autonoma Speciale se la Cina è in guerra, o in caso di “disordini” sul territorio che rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale.
L’apparente apatia della popolazione potrebbe fare presagire il peggio. Domenica 28 settembre, nel primo pomeriggio, migliaia di persone che passeggiavano nelle strade circostanti il Parlamento, si sono limitate a osservare il manipolo di militanti di Voice of Democracy e di Frontier (35) che si sono recati in corteo alla sede del governo, a cinquecento metri di distanza, dove il loro portavoce, Lau Sanching (36) ha simbolicamente dato alle fiamme una copia del promemoria ufficiale di presentazione del testo della legge dell’articolo 23. Apo Leong (37) spiega questo atteggiamento indicando la debolezza del movimento sociale: “La gente è preoccupata per la crisi economica: si aggrappa al proprio lavoro, ha bisogno di soldi per dare da mangiare alla famiglia e pagare l’affitto, e l’interesse per i diritti dell’uomo passa in secondo piano.” Dominique Muller, responsabile di Amnesty International, si spinge più in là: “La gente fa un confronto tra la libertà in Cina e a Hong Kong e, visto che qui la situazione è migliore, se ne accontenta. Si trova più spesso d’accordo con il punto di vista ufficiale, perché è quello che sempre più esce dai media, e finisce persino per accettare limitazioni alla propria libertà nell’interesse del paese.” All’avvicinarsi della scadenza, è emersa una presa di coscienza; il Civil Rights Human Front riunisce oggi una quarantina di organizzazioni, ogni giorno arrivano nuovi messaggi di sostegno, gli incontri si susseguono e, secondo un sondaggio citato sul sito Internet creato dagli oppositori all’articolo 23 (38), circa due terzi degli abitanti di Hong Kong vedono oramai in questo progetto “una minaccia per la libertà”. Il 15 dicembre 2002 si sono trovati in 55.000 in piazza e la mobilitazione non accenna a diminuire (39): Tung Chee Hwa ha preferito rinviare la discussione davanti al parlamento al luglio 2003. La comunità internazionale resta invece stranamente apatica e né il governo della “patria dei diritti dell’uomo” (40) né il Parlamento Europeo hanno fatto sentire la propria voce.
Quale che sia l’esito della vicenda dell’articolo 23, Hong Kong è già nelle mani della Cina. Ma da un lato Pechino sa bene che le conviene mantenere la finzione di “un paese due sistemi” se vuole raggiungere il proprio obiettivo principale, il ritorno alla madre patria di Taiwan. D’altronde, alla fine tutto è possibile: e se la spina di Hong Kong nel piede cinese lo infettasse spargendovi il profumo della libertà?

Jean Jacques Gandini
(traduzione dal francese di Guido Lagomarsino)

Note:

1. Ph. Le Corre, Après Hong Kong, Autrement, Paris, 1997.
2. Les trois chances de développement de Hong-Kong, “Perspectives Chinoises”, n° 64, marzo 2001.
3. Partita dalla Thailandia, si è diffusa in tutto il Sudest asiatico con effetti devastanti: un attivo asiatico valutato 100 dollari USA nel giugno 1997, nell’agosto 1998 ne valeva solo 25, cioè un quarto.
4. Il dollaro americano (US$) va distinto da quello di Hong Kong (HK$).
5. Quarantamila imprese di Hong Kong sono delocalizzate sul Delta delle Perle, la regione limitrofa, e danno lavoro a cinque milioni di operai cinesi.
6. Il famoso “peg” che prevede un adeguamento del dollaro di Hong Kong al dollaro americano sulla base di 7,8 HK$ per 1 US$.
7. In un anno +40%, ovvero più di 4 milioni di visitatori, la quota di gran lunga più importante, con una spesa media di 650 US$ per un soggiorno di tre notti/quattro giorni, la stessa degli americani!
8. Secondo la “South China Morning Post” del 28 settembre 2002, 8 miliardi di US$.
9. Costituita per l’88,5% da riesportazioni destinate principalmente all’entroterra cinese e agli Stati Uniti.
10. Gli assegni in dollari di Hong Kong sono accettati dalle banche di Guandong se provengono da aziende della Regione Speciale, ma ora possono essere emessi anche dalle aziende di Guandong ed essere depositati a Hong Kong, ma con un limite massimo d’importo, per evitare fughe di capitali.
11. Vicepresidente della Conferenza Consultiva del Popolo Cinese a Pechino, uno dei simboli dell’alleanza tra i magnati della finanza e i dignitari del PCC: un terzo dei 94 membri del Comitato incaricato di preparare la restituzione disponeva di un patrimonio superiore a 1 miliardo di dollari di Hong Kong.
12. “South China Morning Post” del 7 giugno 2002.
13. Seguita dalla Banca della Ricostruzione, da quelle dell’Agricoltura, del Commercio e dell’Industria.
14. G. Fabre, “Vers un modèle singapourien?”, in Chine, crises et mutations, L’Harmattan, Paris, 2002.
15. Tanto più che occorrono almeno dieci anni per il ritorno sugli investimenti.
16. Si prevedono anche un Silicon Harbour sull’isola di Lantau, per sviluppare l’industria della microelettronica, tenendo conto delle ultime innovazioni, un Herbal Port Center, porto per la medicina cinese che sarebbe dedicato alla biotecnologia e all’alimentazione dietetica, e anche un Science Park.
17. La PCCW ha preso il controllo dell’operatore storico, HK Telecom, grazie a un prestito considerevole della Banca di Cina. Sostenuta dall’ondata degli start-up, l’azione è balzata a 28,50 HK$ nel febbraio 2000, per poi precipitare a 2 HK$ nel dicembre 2001, con una perdita secca di 16 miliardi di US$!
18. David Webb, un “golden boy” ritiratosi dagli affari, sul suo sito www.webb-site.com ha denunciato il progetto definendolo una volgare operazione di speculazione immobiliare, che ha definito “Cyber Villas”. Mentre il progetto inizialmente prevedeva che due terzi dei 26 ettari sarebbero stati destinati allo sviluppo del Cyber Port e un terzo alle residenze di lusso, in realtà il 75% della superficie realmente attrezzata sarà nella zona residenziale, facendo intravedere alla fine un utile valutato intorno a 1,2 miliardi di dollari USA, pari al 133% della quota di Richard Li.
19. Jiang Zemin, presidente della Repubblica ed ex segretario generale del PCC, e Zhu Rongji, ex Primo Ministro, sono stati entrambi sindaci di Shanghai.
20. “Portraits comparés de Hong Kong, Shanghai et Singapour”, seminario PFCE del 4 giugno 2002; www.tresor-dree.org/Chine.
21. Cosa che aumenta il costo delle transazioni per gli investimenti stranieri. Così il Tribunale Marittimo di Shanghai, dove si discutono le controversie più importanti tenendo conto del valore dei carichi, delibera quasi sempre “secondo l’interesse nazionale”.
22. Per onore di cronaca, ma anche per spiegare la severità della sentenza, le due persone derubate erano Victor Li, il figlio maggiore di Li Kashing (1,3 miliardi di dollari di Hong Kong di dote), e Walter Hwok (0,6 miliardi). Non si tocca impunemente chi appartiene all’ambiente dell’alta finanza...
23. Hong Kong: l’affaire Big Spender, “Perspectives Chinoises”, n° 51, gennaio 1999.
24. E già, anche se Hong Kong è tornata nel grembo della madre patria, i cinesi del continente che desiderano andarci non lo possono fare senza visto, come se andassero all’estero.
25. Autore di La grande famine de Mao: 30 à 40 millions de morts, ed. Dagorno, 1998, e di Famine en Corée di Nord: un peuple se meurt, ed. L’Esprit Frappeur, 1998.
26. Dove sarà approvata senza problemi, dato che sui 60 seggi del Legislative Council, solo 24 sono soggetti al suffragio universale diretto e, se 15 di questi appartengono al Partito Democratico di Martin Lee e dei suoi alleati, gli altri 36 sono assegnati a un Comitato elettorale di 6 membri e 30 rappresentanti di collegi socio-professionali dove i favorevoli a Pechino sono in larga maggioranza.
27. “South China Morning Post” del 26 settembre 2002.
28. Organizzazioni di difesa dei diritti umani, attivisti politici, gruppi studenteschi, avvocati, giornalisti, sindacati, associazioni benefiche, Partito Democratico e suoi alleati eccetera.
29. Il 1° ottobre, giorno della festa nazionale cinese, 500 adepti del Falunglong hanno manifestato davanti al Convention Center dove si svolgevano le cerimonie ufficiali, sopra un tratto di marciapiede delimitato da barriere metalliche, e vi sono rimasti tutto il pomeriggio, nonostante la pioggia battente, circondati da numerosi poliziotti. I dimostranti brandivano cartelli che definivano boia Jiang Zemin e denunciavano la politica di repressione e le violenze inflitte ai propri “fratelli” nel continente, prima di andarsene come se niente fosse.
30. Pur stabilendo come regola la libertà di espressione, permette certe restrizioni, in particolare per “la salvaguardia della sicurezza nazionale”.
31. “South China Morning Post” del 28 settembre 2002.
32. E non basta: il 4 giugno 2002 erano ancora in più di quarantamila a manifestare al Victoria Park.
33. Come Han Donfang, fondatore, nel maggio 1989, dell’Unione Autonoma dei Lavoratori di Pechino, che tiene ogni giorno su Radio Free Asia una trasmissione radiofonica destinata alla Cina continentale e molto seguita, nella quale denuncia tutti gli attacchi ai diritti sociali nelle imprese del “socialismo di mercato” (si veda anche il sito www.china-labour.org.hk). Gli ho chiesto se non temesse per la sua sicurezza e mi ha risposto con un certo sarcasmo: “Spero di tornare in Cina... un giorno, ma intanto rimango a Hong Kong, che resta il posto migliore per lavorare sulla Cina. Quello che faccio qui non lo potei mai fare in nessuna città cinese e ringrazio quindi il governo di avermi espulso nel 1993!”
34. Anche se il numero limitato era una scelta degli organizzatori, perché per le manifestazioni di più di 30 persone bisogna farsi registrare con almeno sette giorni di anticipo presso la polizia e ricevere un “permesso di nullaosta”, sapendo che si dovrà seguire un percorso strettamente controllato e essere circondati dalle forze dell’ordine che filmano e fotografano in continuazione. Due responsabili studenteschi che non avevano rispettato queste disposizioni sono già stati condannati a tre mesi di arresto.
35. Voice of Democracy è il corrispondente del Chinese Democratic Party la cui sede è a San Francisco e che auspica un cambio di regime nella Cina popolare. Frontier è una scissione del Partito Democratico, giudicato troppo accomodante.
36. Lau Sanching, che avevo già incontrato nel mio precedente soggiorno prima della restituzione (“Hong Kong, 1° juillet 1997: et après?”, in J.J. Gandini, Chine fin de siècle II: China Incorporated, ACL, Lyon, 2000), si definisce un “attivista”, Negli anni ottanta ha scontato dieci anni di laogai (Dix ans dans les champs chinois, 1981-1991, ed. Dagorno, 2002) per essere entrato clandestinamente in Cina per sostenere finanziariamente i partigiani della “primavera di Pechino” e per avere portato a Hong Kong per diffonderli gli stampati vietati in Cina.
37. Capo redattore di “Asian Labour Update” pubblicato dall’Asia Monitor Resource Center, un’organizzazione che si batte per il rispetto dei diritti sociali: www.amrc.org.hk.
38. Vedi il sito www.article23.org.hk.
39. Erano ancora 55.000 il 4 giugno 2003, per commemorare al Victoria Park il massacro di Tienanmen, che resta un tabù nella Cina continentale.
40. Bisogna dire che con la “legge sulla sicurezza interna”, in linea con la precedente “legge sulla sicurezza quotidiana”, la Francia non ha proprio lezioni da dare...