Rivista Anarchica Online


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Il buon disertore Hašek

«Faccio rispettosamente notare che da militare io sono stato riformato per idiozia, e dichiarato ufficialmente idiota da una commissione straordinaria. Io sono un idiota in piena regola», così, al superiore che lo redarguisce o all’ufficiale di polizia che lo arresta, si presenta, puntualmente e con disarmante bonomia il buon soldato Sc’vèik, lo straordinario protagonista dell’omonimo capolavoro dello scrittore praghese Jaroslav Hašek (Il buon soldato Sc’vèik, Milano, Feltrinelli, 1961). E in questa sua autocertificazione di manifesta idiozia, sta tutta la genialità del popolano intelligente e ironico che, con consapevole e micidiale sarcasmo, riversa la ben più manifesta idiozia di ogni forma di autorità sui suoi più ottusi e burocratici rappresentanti.
Scritto al termine della prima guerra mondiale e uscito a puntate in due volumi, dei quattro previsti se l’autore non fosse morto prematuramente distrutto dai suoi felici stravizi, Il buon soldato Sc’vèik narra le esilaranti, grottesche e paradossali avventure di un modesto cittadino praghese, di mestiere venditore di cani, tutti forniti di pedigrée rigorosamente falsi, arruolato a forza, dopo l’attentato di Sarajevo al granduca Ferdinando, nell’imperial regio esercito austroungarico, e mandato a combattere (nel suo caso si fa per dire, perché Sc’vèik non sparerà neanche un colpo) sul fronte russo. Sbattuto inopinatamente al centro di quell’immane macello che fu la guerra, Sc’vèik si districa come può dai legacci della disciplina, divenendo dapprima l’attendente di Otto Katz, cappellano militare e grandioso avvinazzato (il capitolo nel quale è descritta una disastrosa messa da campo è senza dubbio una delle più divertenti pagine dell’intera letteratura del novecento), poi del cinico e disincantato tenente boemo Lukaš, il solo, fra tutti gli ufficiali di cui si tratta, che manifesti un barlume di intelligenza e umanità. E l’unica arma di cui il protagonista dispone, e fa abbondantemente uso, in un’epoca che vede solo nella violenza delle armi lo strumento per regolare i rapporti fra gli esseri umani, è quella della ironia, quella del felice sarcasmo, che gli permette di smontare, con inesorabile lucidità, lo stupido autoritarismo del mondo militare.
Pacifista per natura, antimilitarista perché altro non potrebbe essere, furbescamente ingenuo di fronte all’autorità, intimamente e irriducibilmente anarchico nella sua perfetta incapacità di dare un senso agli ordini e ai comandi che gli vengono rivolti, pronto a dissacrare tutti gli aspetti della vita militare riconducendoli continuamente ad aneddoti e fatterelli senza capo né coda (così come è senza capo né coda l’organizzazione della macchina bellica), sempre disposto ad affogare nel piatto e nel bicchiere, coi suoi stralunati commilitoni, la drammaticità della situazione, Sc’vèik riesce a rendere allegramente surreale una vicenda che di surreale ha solo la sua immane tragicità. Capovolgendone il senso, infatti, capovolge e restituisce, con gli interessi, tutta l’intrinseca idiozia di quell’insensato conflitto, così come di ogni altro conflitto, passato, presente e futuro. E in questo modo l’intelligente ironia per cui vanno famosi i cittadini praghesi coglie un trionfo definitivo contro ogni velleità di addomesticamento forzato alle regole del potere e del buon senso comune. E non a caso, per parecchi anni, il grigio regime cecoslovacco degli anni cinquanta ne vieterà la pubblicazione.
Del resto, e appare subito evidente leggendone la breve biografia, in Sc’vèik c’è soprattutto l’autoritratto di Hašek. Boemo, bohémien e maledetto, quanto può essere maledetto uno spirito libero e dissacrante che lotta per sottrarsi alle soffocanti spire dell’imperial regio «buon governo» di Francesco Giuseppe, Hašek è una delle figure più interessanti e originali del panorama culturale mitteleuropeo d’inizio novecento. Contemporaneo di Kafka (nasce, infatti, nel 1883), scrittore originale e fecondo, direttore di numerose riviste letterarie e (per vivere) anche, inopinatamente, di riviste scientifiche, abbracciò, negli anni della più matura giovinezza, le effervescenti idee di emancipazione sociale richiamantesi all’anarchismo, aderendo per parecchi anni al movimento anarchico ceco. Dadaista, garzone di drogheria, vagabondo, impiegato di banca, negoziante di cani, candidato politico (trentotto voti il maggior successo) per l’improbabile e canzonatorio Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge da lui fondato, la sua vita fu «un’epopea umoristica, un gioco di contraddizioni, una tela di stravaganze». Formidabile bevitore, appassionato frequentatore di tutte le più infime bettole e birrerie della Boemia, la sua libertà di pensiero e la sua irrequietezza ne fecero sempre un personaggio imprendibile e incontrollabile, una figura impossibile da classificare od omologare. E una volta chiamato alle armi, in difesa di un impero ormai marcescente, diserta consegnandosi ai russi e abbracciando il bolscevismo (a quanto lui stesso racconta, ma c’è da crederci?), e rientra in patria solo due anni dopo la fine della guerra. Sono questi, i primi anni venti, gli ultimi della sua vita felice e dissoluta, quelli che lo vedono, tra una sbornia e una partita a carte, il felicissimo creatore dell’universale figura del buon soldato Sc’vèik.
Potrebbe apparire strano l’inserimento di questo personaggio letterario nella galleria di ritratti in piedi che da tempo appare sulle pagine di questa rivista. E l’accostamento a figure «eroiche» quali Michele Bakunin o Buenaventura Durruti, Leda Rafanelli o Francisco Magón, potrebbe addirittura sembrare irriverente. Eppure dietro questo felice, imperturbabile, inossidabile marmittone, apparentemente incapace di ribellione e rassegnato a subire gli oltraggi del potere, si nasconde quel rifiuto istintivo della sopraffazione, dell’autorità, che ha segnato, e continua a segnare, il pensiero libertario di ogni tempo e di ogni dove. Un rifiuto profondo, slegato e indipendente da qualsiasi ideologia, un rifiuto che nasce, prima di tutto, dalla consapevolezza che la propria libertà nasce nella libertà degli altri. Magari anche al tavolo dell’osteria, in compagnia di una Pilsen e di un piatto di ottima trippa.

Massimo Ortalli

Nota. Da Il buon soldato Sc’vèik sono stati tratti numerosi testi teatrali, famosissimo quello adattato negli anni cinquanta da Bertolt Brecht. Anche Georg Grosz si ispirò a questo personaggio per alcune delle sue più note e feroci caricature del mondo borghese e militare dell’epoca. Nella edizione Feltrinelli sono riportate le originali incisioni di Josef Lada, capaci di rendere, nella elementarità del tratto, la profonda semplicità di carattere di questo nostro «anomalo» personaggio.
In appendice riportiamo anche alcune pagine di La vera storia e il programma originale del partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge, Genova, Graphos, 1992 (alcuni brani di questo libro vennero pubblicati su «Volontà-Penne all’arrabbiata» con il titolo Rivoluzionario nei limiti della legge, n. 3/4 del 1993 anno 47, pag. 115), utili per comprendere meglio la parabola esistenziale e la irriverente carica «sovversiva» di Jaroslav Hašek.

Massacro d’uomini
nel nome di Dio

di Jaroslav Hašek

Non c’è massacro d’uomini i cui preparativi non abbiano avuto luogo nel nome di Dio o ad ogni modo d’un supposto ente supremo che l’umanità ha partorito dalla sua fantasia.
Prima di decapitare un prigioniero di guerra, gli antichi fenici celebravano un solenne servizio divino simile a quello celebrato dai loro posteri più giovani di qualche migliaio di anni, prima d’entrare in battaglia e d’annientare i loro nemici col ferro e col fuoco.
Gli antropofagi delle isole della Polinesia e della Nuova Guinea, prima di divorare solennemente i loro prigionieri di guerra o la gente che non serve a nulla come i missionari, gli esploratori, i rappresentanti di commercio o dei semplici curiosi, sacrificano ai loro dei eseguendo i più svariati riti liturgici, Poiché il nostro civilissimo costume dei paramenti non è ancora giunto fra loro, essi adornano i loro fianchi con ciuffi di piume d’uccelli selvatici.
La Santa Inquisizione, prima di mandare al rogo le sue vittime, celebrava la più solenne delle cerimonie religiose, vale a dire una gran messa cantata.
All’esecuzione d’un delinquente assiste dovunque qualche sacerdote che lo tormenta con la sua presenza.
In Prussia è il pastore che guida il poveraccio sotto la scure, nell’Austria è il prete cattolico che lo conduce alla forca, come pure in Francia alla ghigliottina. Allo stesso modo, in America è un sacerdote che l’accompagna alla sedia elettrica, e in Spagna alla garrotta; in Russia è un pope barbuto che presenzia l’esecuzione dei rivoluzionari.
In ogni paese i sacerdoti brandiscono il crocifisso come per dire: «Ti taglieranno la testa, t’impiccheranno, ti scanneranno, ti faranno attraversare da quindicimila volt, ma non avrai mai sofferto come Lui.»
L’immane scannatoio della guerra mondiale non avrebbe potuto agire senza la benedizione ecclesiastica. I cappellani militari di tutti gli eserciti pregavano e officiavano per la vittoria del paese di cui mangiavano il pane.
Alle esecuzioni dei soldati ammutinati si poteva vedere un sacerdote, che non mancava neanche all’impiccagione dei legionari cèchi caduti in mano degli austriaci.
Nulla era cambiato dall’epoca in cui il bandito Adalberto, che più tardi doveva essere canonizzato, aveva attivamente concorso, con la spada nella destra e il crocifisso nella sinistra, al massacro e all’annientamento degli slavi baltici.
In tutta Europa gli uomini marciavano come greggi allo scannatoio dove li conducevano, in una con gli imperatori i re, gli altri potentati e i generali in grembiule da macellaio, i sacerdoti di tutte le confessioni che li benedivano e li facevano falsamente giurare che «in terra, in mare e in aria» ecc. ecc...
La messa si celebrava in due occasioni diverse. Prima quando un reparto partiva per il fronte, e poi al fronte stesso, in anticipazione di qualche mischia sanguinosa e di una strage. Mi ricordo che una volta durante una di queste messe un aeroplano nemico lasciò cadere una bomba proprio sull’altare da campo, e del povero cappellano non rimasero altro che dei miseri resti sanguinolenti.
Allora i giornali lo descrissero come un martire, mentre i nostri aeroplani preparavano una fine altrettanto gloriosa al cappellano militare della parte opposta.
Quest’avventura ci rallegrò moltissimo, e sulla croce provvisoria piantata sul luogo dove avevano sepolto i rimasugli del cappellano, apparì nel corso della notte la seguente epigrafe funeraria: «È a te e non a noi che hanno fatto la festa. Ci promettevi il cielo come fosse una pacchia. T’è caduta una tegola dal cielo sulla testa. T’ha schiacciato e non resta che questa macchia».

L’altare
della ditta ebraica

di Jaroslav Hašek

Il famoso altare da campo usciva dal laboratorio della ditta ebraica Mofitz Mahler di Vienna, che fabbricava ogni specie di oggetti necessari alla messa e articoli di devozione, come rosari e santini.
L’altare si componeva di tre parti, riccamente addobbate d’una falsa doratura, come ogni pompa ecclesiastica.
Senza una buona dose di fantasia era impossibile rendersi conto che cosa rappresentassero effettivamente le immagini dipinte a trittico sopra l’altare da campo. La verità è che quell’altare avrebbe potuto servire abbastanza bene ai pagani dello Zambesi o agli sciamani dei buriati e dei mongoli.
Decorato con colori sgargianti, da lontano aveva tutto l’aspetto d’una di quelle tavolette colorate che i medici delle ferrovie adoprano per scoprire gl’impiegati affetti di daltonismo.
Nella massa spiccava una sola figura: un uomo nudo con un’aureola, il corpo verdastro come la pelle d’un’oca che puzza e che già si trova in stato di avanzata putrefazione.
A quel santo nessuno faceva nulla di male. Però accanto a lui si vedevano due creature alate, incaricate di rappresentare due angeli, e lo spettatore aveva l’impressione che il sant’uomo tutto nudo nutrisse un grande spavento riguardo ai due angioli custodi che l’accompagnavano. Infatti le due creature celesti avevan tutta l’aria di mostri favolosi, o meglio d’un qualcosa d’intermedio fra un gatto selvatico fornito di ali e il drago dell’Apocalisse.
Il pannello dirimpetto doveva raffigurare la SS. Trinità. Per ciò che riguarda la colomba, così all’ingrosso, il pittore aveva poco da perdere. Aveva dipinto un volatile incerto, che poteva essere con altrettanta ragione una colomba che una gallina faraona.
Ma il Padreterno sembrava uno di quei feroci banditi del Far-West, che amano presentare al nostro pubblico i sanguinari produttori del film americano.
Il Figliolo era invece un uomo giovane e gaio, con una bella pancia, e indossava un capo di biancheria che aveva tutta l’aria di un paio di mutandine da bagno. L’insieme dava l’impressione di trovarsi dinanzi a uno sportivo, e la sua mano reggeva la croce con la grazia d’una racchetta.
Visto da lontano il complesso si confondeva in una macchia confusa e faceva l’effetto d’un treno che arriva alla stazione.
In quanto al terzo pannello, era impossibile raccapezzarsi che cosa volesse rappresentare.
I soldati ne discutevano sempre e facevano l’impossibile per risolvere quel rebus. Ci fu persino un tale che suppose che quello fosse un paesaggio della valle della Sásava.
Il fatto è che sotto vi si poteva leggere quest’iscrizione: Sancta Maria, Mater Dei, miserere nobis.

 

Un gatto intorno
a un piatto di patate

di Jaroslav Hašek

Per il solito gli serviva la messa un soldato di fanteria, che aveva preferito passare al genio telegrafisti e che era stato mandato al fronte.
«Non fa nulla, signor cappellano,» disse Sc’vèik, «io posso sostituirlo benissimo.»
«Ma sapete servir messa?»
«Non mi ci son mai provato,» rispose Sc’vèik, «ma bisogna provarsi a fare di tutto. Siamo in guerra ed ora la gente fa delle cose che prima non gli sarebbero neppure passate per il capo. Sarò sempre capace di ribattere con un et cum spirito tuo il vostro Dominus vobiscum. E poi quale difficoltà c’è a girare intorno a voi come un gatto intorno a un bel piatto fumante di patate? Oppure lavarvi le mani e versarvi il vino dal calice...»
«Bene,» disse il cappellano, «basta che non mi versiate dell’acqua. È meglio che mi versiate un po’ di vino anche dal secondo calice. Per il resto vi dirò tutto io, se dovrete girare a destra o a sinistra. Se farò adagio un sol fischio, vorrà dire a destra, se ne farò due, a sinistra. In quanto al messale non c’è bisogno che vi diate troppa pena. Tutto il resto è un giochetto. Avete paura?»
«Io non ho paura di nulla, signor cappellano, neppure di servir messa.»
Il cappellano aveva ragione a dichiarare che tutto il resto non era che un giochetto.
Tutto filò come per incanto. L’allocuzione del cappellano fu estremamente concisa.
«Soldati! Vi abbiamo radunati qui perché prima di partire per il fronte rivolgiate i vostri cuori a Dio, onde ci dia la vittoria e ci mantenga in salute. Io non voglio trattenervi troppo e vi faccio i miei migliori auguri.»
«Riposo» comandò il vecchio colonnello dal battaglione di sinistra.
La messa da campo si chiama cosi appunto perché è sottomessa alle leggi della strategia come una campagna di guerra. Durante le lunghe battaglie manovrate della guerra dei trent’anni, anche le messe da campo durarono in proporzione.
In accordo alla tattica moderna, che vuole rapidi e agili movimenti degli eserciti, anche le messe da campo devono avere un’agilità e una rapidità equivalente.
Questa durò dieci minuti esatti, e i soldati che eran vicini all’altare si stupirono grandemente a sentire che il cappellano fischiava durante la messa.
Sc’vèik eseguiva rapidamente i segnali, volteggiando ora a destra ed ora a sinistra, senza dir altro che et cum spirito tuo.
Tutto questo armeggio aveva l’aria d’una danza indiana intorno alla pietra del sacrificio, ma aveva questo di buono, che dissipava il tedio ispirato nell’anima dei soldati da quella triste e polverosa piazza d’armi, mal alberata, piena di latrine che sostituivano col loro sentore il mistico aroma d’incenso delle cattedrali gotiche.
Tutti quanti si divertivano come matti. Gli ufficiali che facevan cerchio intorno al colonnello si raccontavano delle storielle allegre. Tutto procedeva in ordine, e ogni tanto si sentiva qualcuno della truppa che diceva: «Fammi tirare una boccata.»
E come il fumo d’un rogo consacrato salivano su dalle bocche verso il cielo le nuvole azzurre delle sigarette. Tutti quanti i gradi si eran messi a fumare fin da quando avevan veduto che il signor colonnello aveva acceso un sigaro.
Quando echeggiò il comando «Pregate!» il polverone turbinò e il pittoresco quadrato delle uniformi si genuflesse dinanzi alla coppa sportiva del sottotenente Witinger, vinta da lui nella corsa da Vienna a Moedling organizzata dal «Favorito dello Sport».
Il calice era ricolmo, e il giudizio generale provocato dalla manipolazione del cappellano fu espresso nella seguente frase, che corse subito nelle file: «Che garganella!» La manovra fu messa in esecuzione una seconda volta. Al che segui un altro comando di «Pregate,» mentre la musica attaccò insieme l’ouverture e il finale del Dio proteggi la patria.

 

Alle latrine
inquadrati

di Jaroslav Hašek

Al mattino la tradotta si trovava ancora in stazione, venne sonata la sveglia, i soldati si lavarono presso le pompe versandosi addosso acqua dalla gavette, il generale, con tutto il suo treno, non era ancora partito, ed andò ad ispezionare personalmente le latrine, dove le truppe si recavano, secondo l’ordine del giorno impartito dal capitano Ságner all’intero battaglione, «Schwarmweise unter Kommando der Schwarmkommandanten,»* affinché il signor maggior generale potesse essere contento. Affinché, d’altro canto, avesse la sua parte di gioia pure il sottotenente Dub, il capitano Ságner gli comunicò che per quel giorno sarebbe toccato a lui di essere di ispezione.
Il sottotenente Dub, pertanto, esercitò la sua sorveglianza sulle latrine.
La vasta e lunga latrina a duplice fila era capace di accogliere due squadre di una compagnia.
Ed ora i soldati, l’uno accanto all’altro, se ne stavano accoccolati bellamente sulle fosse aperte, come rondini sui fili telegrafici, allorché, sul far dell’autunno, si apprestano a partire per l’Africa.
Ad ognuno sporgevano fuori dai pantaloni abbassati le ginocchia, e ciascuno teneva la cinghia attorno al collo, come se da un momento all’altro avesse dovuto impiccarsi e non aspettasse altro che un ordine.
Naturalmente in tutta quella scena si vedeva la ferrea disciplina militare, lo spirito di organizzazione.
All’ala sinistra si trovava Sc’vèik, il quale s’era intrufolato anche lui in quel gruppo, e stava leggendo con grande interesse un pezzetto di carta, strappato da chi sa quale romanzo di Ruzena Jesenská:

...ui pensionato purtroppo le signore
o indefinito, reale forse di più
la maggioranza in se chiuse perd
i menu alle loro camere, oppure si
molteplici divertimenti. E se spargevano t
andava l’uomo solo ed unicamente tristezza
migliorava, perché non voleva con tanto
successo
zionare, come loro avrebbero desiderato.
non era niente per il giovane Kricka.

Quando sollevò gli occhi dal foglio strappato, dette automaticamente un’occhiata all’uscita della latrina ed allibì. Scorse il maggior generale del giorno prima, in pompa magna, insieme col suo aiutante; accanto a loro c’era il sottotenente Dub, il quale stava spiegando loro qualcosa con aria zelante.
Sc’vèik si guardò attorno. Tutti quanti continuavano a stare tranquillamente accucciati sulla latrina, e solamente i graduati si erano in un certo qual modo irrigiditi e non riuscivano più a muoversi.
Sc’vèik senti tutta la serietà della situazione.
Balzò su come si trovava, coi pantaloni abbassati, con la cinghia attorno al collo, dopo aver ancora adoperato, all’ultimo momento, il pezzetto di carta che aveva in mano, e subito esclamò: «Einstellen! Auf! Habtacht! Rechtsschaut».** E, dicendo questo, fece il suo bravo saluto. Due squadre coi pantaloni abbassati e con le cinghie attorno al collo si alzarono sulla latrina.

* In tedesco nel testo: “A squadre, sotto il comando dei comandanti di squadra».
** In tedesco nel testo: “Smettere! In piedi! Attentil Attenti a destr!”

Brani tratti da: Jaroslav Hašek, Il buon soldato Sc’vèik, Feltrinelli, Milano, 1988.

 

Il progresso
è un’arma

a doppio taglio

di Jaroslav Hašek

Deve essere un partito progressista, perché la voce del popolo, che avete appena udito barcollare presso la porta, ha invocato il progresso. Ma, amici, prima di tutto dobbiamo chiederci: quale progresso? Perché, per usare le parole di Albin Braf, di progressi ce ne sono tanti. Non c’è dubbio: il progresso ha un avvenire, ma dobbiamo sapere di che progresso parliamo.
Quando qualcuno lascia la chiesa, per esempio, è un progresso; ma quando subito dopo lo condannano a un mese di galera per furto di tubi da birra* e poi lo mandano al soggiorno obbligato nel villaggio d’origine, dove tutti lo conoscono, amici, mano sul cuore, questo è un passo indietro. Il progresso è un’arma a doppio taglio, come la birra. Uno ci si butta a corpo morto e non sa quando smettere. Guardiamoci un po’ intorno, e vedremo come per esempio il progresso del «Libero pensiero»** porta la gente in prigione per inavvedutezza, mentre una persona veramente progressista e priva di pregiudizi può coltivare nelle chiese di tutte le confessioni il proprio progresso, nel silenzio e magari con l’accompagnamento di musica per organo. Su di noi vegliano giuste leggi e uffici di polizia senza la cui protezione neanche un capello ci cade di testa, e ciò rappresenta progresso.
Se poi guardiamo altrove, per esempio alla Cina, dove gli organi di polizia mozzano la testa alla gente, dobbiamo riconoscere da soli quale progresso regni da noi. E perciò prudenza con questo progresso. Partito progressista, sì, ma solo una persona esperta sa fino a dove può arrivare quel progresso.
Conoscevo una vedova, certa Zelenkova. Si fece incantare da un avviso economico nel giornale e comprò una coppia di maiali di razza yorkshire, perché nel giornale c’era scritto che i maiali yorkshire sono un progresso nei confronti di quelli cechi.
Dopo un anno scrisse alla redazione di quel giornale, protestando che una scrofa ceca una volta aveva avuto sedici porcellini, ma che questa scrofa progressista gliene aveva fatti a malapena sei. Allora, amici, che non vada a finire così anche per noi...

* Si tratta dei tubi posti tra le botti della birra e la spina, che erano di materiale pregiato.
** Giornale dell’epoca.

 

«Sbattei la porta»
di Jaroslav Hašek

Quel che furono nella rivoluzione francese i giacobini più radicali era Mahen* nella nostra società. Era intransigente, perché nessuno mai si arrabbiava con lui. Era crudele, perché non aveva mai occasione di fare del male a qualcuno. Inoltre, studiava alla facoltà di lettere e filosofia. Pensava grandi cose di se stesso, ma noi non pensavamo nulla di lui. Così alla fine smise di pensare alcunché di se stesso, e fu la sua fortuna; diventò un anarchico etico. Diventò anarchico come lo diventano i diciassettenni dei ginnasi, che formano gruppi segreti per aver modo di ritrovarsi in qualche osteria; un anarchico così era, un tempo, anche Mahen.
Josef Mach**, un tempo, fu anarchico. E anarchico sono stato anch’io, e ringrazio qui il consigliere di polizia Petrasek di Vinohrady per avermene dissuaso.
Fu prima dell’ultima visita di Sua Maestà a Praga, quando ero redattore del foglio anarchico «La Comune». Fui chiamato al commissariato di polizia di Vinohrady e il defunto consigliere Petrasek***, di cui conoscevo il figlio, dandomi dei colpetti sulla spalla e stringendomi calorosamente la mano mi disse queste parole veramente paterne: «Caro amico, ricordatevi: la polizia di Vienna vi tiene in evidenza nell’elenco degli anarchici».
«Ma scusate, signor consigliere, la polizia di Praga, forse».
«Di Praga e di Vienna, caro amico».
«E quella di Brno, signor consigliere?».
«Quella di Brno non è polizia di Stato, caro amico».
«Allora mi trasferisco a Brno, signor consigliere».
«Voi non vi trasferite a Brno, voi restate a Vinohrady, come ci resto io».
«E scusate, signor consigliere, uno non può essere anarchico?».
«E perché mai non potrebbe essere anarchico? – rispose il consigliere di polizia – Solo che poi ci sono delle noie. Siete giovane, e sarebbe veramente un peccato per voi. Tutto questo l’ho passato anch’io. Ero anch’io tutto hrrr... Una volta dissi a un mio superiore: ‘Ma permettete’, e sbattei la porta. Ma io non la volevo sbattere, mi si era solo impigliata la tasca del cappotto nella maniglia mentre lui mi buttava fuori. E quando arrivai nella mia stanza alla vecchia direzione di polizia, riflettei su quel che avevo fatto. Sono andato dal capo, l’ho pregato di scusarmi e quell’anarchia era come se mi fosse caduta di dosso. Ora siete nella “Comune”, giovane amico». Si alzò e mi carezzò i capelli. «Fatevi convincere, amico mio. Avete una madre, una brava moglie, avete un fratello che aspetta un posto nella banca Slavia, mettetevi coi «giovani cechi». Toglietevi dalla testa la benzina e la dinamite, non vi fa onore, e se volete un partito che grida forte, mettetevi con i nazionalsociali. E se proprio avete idee rivoluzionarie, mettetevi coi socialdemocratici. Loro vogliono il suffragio universale, ma noi non glielo daremo. Solo, toglietevi dalla testa le bombe. Guardate dove vi pare, vedete che ci deve essere ordine. Così è in tutta la vita politica. Guardate me, io sono un uomo anziano, ne ho fatte parecchie, ma gridare ‘Ammazzo il re!’, questo non è mai successo». Sorrise e disse: «Tranne così, giocando a ventuno e allora io con venti tiravo giù ancora un re mentre tenevo il banco, e gridavo ‘Ammazzo il re!’, perché avevo ventidue». Mi accarezzò nuovamente i capelli, e disse: «Fatevi convincere finalmente. Lasciate questo giornale anarchico «La Comune», passate a un altro giornale politico, se proprio non potete fare a meno della politica. E ora potete andare».
Così uscii da «La Comune», fondai il Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge e diventai redattore della rivista «Il mondo degli animali».

* Jiri Mahen (Antonin Vancura, 1882-1939), poeta, amico e collaboratore di Hašek.
** Josef Mach (1883-1951), poeta, compose un inno per il Partito del Progresso Moderato nei Limiti della Legge.
*** Il colloquio forse è autentico e risale al 1907, quando Hašek fu condannato a un mese di carcere per «lesioni gravi alla persona» e «sobillazione contro la polizia».

Brani tratti da: Jaroslav Hašek, La vera storia e il programma originale del Partito del Progesso Moderato nei Limiti della Legge, Graphos, Genova, 1992.