Rivista Anarchica Online


Belpaese

Punti di non ritorno
di Carlo Oliva

 

“Il centrodestra va a ruota libera, il governo è allo sbando, Bossi straparla, la gente seria non ne può più e lo stesso Berlusconi è finito”. Ma sarà poi vero?

Questa estate, lo hanno detto praticamente tutti, Berlusconi è stato un disastro. Ha inaugurato l’agognato semestre europeo con una delle peggiori magre della storia diplomatica del continente e da quel momento non è stato più lui. Bastava guardarlo in televisione, le rare volte in cui è vi comparso: annoiato, imbolsito, invecchiato, lontano le mille miglia dalla figura scattante e trasudante carisma che aveva caratterizzato, appena tre anni fa, la campagna elettorale, costretto a subire il protagonismo di fastidiosi leader alleati e l’irriverente schiamazzo dei politici minori dello schieramento di cui avrebbe dovuto, in teoria, essere l’indiscusso padre padrone. E mentre i sondaggi scricchiolavano pericolosamente e persino gli esponenti dell’Ulivo si azzardavano ad alzare la cresta – quel tanto di cresta, almeno, di cui potevano disporre – il poveraccio non riusciva neanche a trovare il coraggio necessario per affrontare la minaccia di una contestazione di basso profilo all’Arena di Verona (anche se in questa ultima circostanza può aver giocato una certa sua personale ripugnanza per qualsiasi genere di opera lirica). Nemmeno i bei giorni di sciambola a Portorotondo con l’amico Putin, così desolatamente privi, nello splendore della coreografia, di qualsiasi risvolto politico degno di nota, sono serviti a ridare lustro a un’immagine che a parecchi osservatori è apparsa definitivamente offuscata. Cosicché, piano piano, è cominciato a circolare, nei circoli di sinistra, una specie di dissennato ottimismo. Il centro destra va a ruota libera, il governo è allo sbando, Bossi non smette di straparlare, la gente seria non ne può più e lo stesso Berlusconi, basta guardarlo, è finito. Ancora una spintarella e vedrete che al prossimo turno ce lo toglieremo dai piedi una volta per tutte.

Il pericolo Berlusconi

Non vorrei rovinare la festa a nessuno (né credo di avere l’autorevolezza per farlo) ma ho come il sospetto che questo stato d’animo – più diffuso a sinistra di quanto non si abbia, forse per scaramanzia, il coraggio di ammettere – sia una prova in più di quanto venga sottovalutato, nel nostro allegro paese, il pericolo che Berlusconi e i suoi rappresentano per la democrazia. Perché è vero che l’immagine mediatica del personaggio si è, in un certo qual modo, appannata, che lo schieramento politico che gli sta alle spalle non appare più così monolitico come una volta e che il governo che presiede dimostra, soprattutto nella gestione ordinaria, un livello d’inefficienza inconsueto persino per gli standard nazionali, ma è anche vero che, a rifletterci un poco, il progetto politico del berlusconismo risulta tutt’altro che impantanato. A me sembra, anzi, che stia facendo dei passi in avanti decisivi. Che la situazione che sta creando nel paese stia diventando progressivamente irreversibile. Per quanto ridicolo possa sembrare un progetto di “grande riforma” istituzionale preparato da quattro “saggi” sconosciuti, rinchiusi in una baita alpina per ridisegnare la struttura dello stato tra una polenta e una grigliata, il fatto che quel progetto sia stato presentato (e, naturalmente, che sia stato accolto dall’opposizione con il solito coro di distinguo piuttosto futili, per non dire dei “vedremo”, dei “si può fare”, dei “perché no?” e compagnia bella) rappresenta, per la democrazia italiana, uno dei passi più pericolosi che abbia affrontato.
La sinistra, si sa, è ossessionata da Berlusconi, ma forse non lo ha mai preso davvero sul serio. Tutti, compreso chi scrive, abbiamo sempre pensato che le contraddizioni dell’individuo fossero davvero troppe per permettergli di durare, che il fatto stesso del suo avvento al potere fosse una specie di scherzo, una delle non rare manifestazioni di quel “destino cinico e baro” cui la politica italiana è sempre lieta di addebitare gli eventi che non ha saputo prevedere, e come tale fosse destinato a venire corretto, com’era d’altronde avvenuto nel ’94, dall’inevitabile imporsi di una razionalità politica “seria”. Non era proprio possibile credere alla dimensione politica di uno che proclamava, negli anni ’90 del XX secolo, di essere “sceso in campo” per salvare l’Italia dal comunismo, che si era inventato un partito riciclando i quadri di una sua azienda, che aveva messo insieme, ideologicamente parlando, il diavolo e l’acqua santa, affiancando l’ultrafederalismo nordista della Lega al vecchio centralismo burocratico a base meridionale che caratterizzava i postfascisti. Uno che da un lato si presentava come il rinnovatore del quadro politico passato (della cui rovina, oggettivamente, beneficiava) e, dall’altro, pretendeva di raccoglierne l’eredità morale e ideologica. Un ex protegé del craxismo che ammetteva senza falsi pudori di essere mosso da interessi personali e patrimoniali (“…volevano distruggermi…”) ed esigeva che in tal senso, se necessario, si legiferasse, ma non rinunciava, per questo, ad ammantarsi degli improbabili panni del grande statista e a rivendicare a gran voce la capacità di dar lustro al paese sul piano internazionale. L’impressionante consenso che lo accompagnava non poteva che esser frutto di un equivoco (l’incapacità della maggioranza dell’elettorato di comprendere la rilevanza del conflitto di interessi) e, in ultima analisi, di un inganno: quello rappresentato dall’uso improprio del potere mediatico a fini di propaganda.

Interesse personale

Tutto questo, s’intende, è abbastanza vero. Il potere dell’uomo di Arcore è ideologicamente contraddittorio, viziato dall’interesse personale e fondato, in definitiva, sull’esercizio di un quasi monopolio che nessun altro sistema occidentale si azzarderebbe a riconoscere a un soggetto privato. Ma quello del consenso che lo accompagna è, probabilmente, un altro discorso e il fatto che non lo si sia mai voluto affrontare spiega il perché da quelle premesse vere si siano tratte delle conclusioni affatto disastrose, come la convinzione – errata – di poter controllare senza difficoltà un soggetto tanto malmesso, convinzione che è stata alla base non soltanto della tragicommedia della bicamerale nella passata legislatura, ma di tutte le batoste tattiche e strategiche che il centro sinistra ha accumulato nella storia ormai pluriennale del suo confronto con lo schieramento opposto.
In fondo, l’errore che abbiamo commesso è stato quello di prendere per buono, in un modo o nell’altro, quello che Berlusconi diceva di se stesso, di accettare passivamente la storiella del grande imprenditore che scendeva in politica, oltre che per risolvere un paio di gravi problemi personali, per realizzare un ideale, quale che fosse. Non ci siamo resi conto che quello era soltanto uno schermo narrativo abbastanza frusto, dietro il quale si celava la ristrutturazione di un nuovo quadro politico moderato, capace di fare a meno, in nome dell’utile proprio, di quasi tutte le futilità ideologiche cui la passata storia politica ci aveva abituato. Oggi, se il federalismo dei devoti di Bossi convive alla grande con la passione prefettizia dei seguaci di Fini ciò non significa che gli uni o gli altri siano in qualche modo obnubilati o incapaci di rendersi conto con chi si siano messi, ma che entrambi hanno tranquillamente deciso che gli interessi del ceto cui appartengono esigono, allo stato, la pura e semplice permanenza al potere. Perché, naturalmente, il problema che interessa veramente a costoro è quello di ristrutturare il quadro valori corrente della governabilità, mandando in soffitta una volta per tutti il vecchio concetto di interesse collettivo, del tutto superfluo dal punto di vista dei gruppi che oggi esercitano l’egemonia sulla struttura produttiva e facendo a meno, contestualmente, delle pratiche di mediazione politica che in nome di quel concetto erano, a suo tempo, invalse, e se questo causa qualche problema con i quadri dell’UDC, che nella cultura di quel tipo di mediazione si riconoscono, poco danno.

Il circo Barnum berlusconiano

D’altronde è noto come lo smantellamento della grande industria e la crisi della imprenditoria relativa abbiano lasciato l’Italia in mano a una sorta di confederazione di gruppi di potentati economici e sociali più i meno parassitari, affatto indifferenti alla dimensione comune, ma interessati soltanto ad arraffare l’arraffabile prima dello scatenarsi di un diluvio sulle cui acque contano di riuscire, in un modo o nell’altro, a galleggiare. Per portare tranquillamente a termine questa spoliazione estrema delle risorse del paese, questa specie di privatizzazione all’ultimo respiro, quei gruppi hanno un gran bisogno di un quadro politico molto, ma molto accomodante, quale può essere, appunto, il circo Barnum berlusconiano, i cui servizievoli clown hanno l’incarico di eliminare progressivamente, costi quello che costi in termini d’immagine, i vincoli democratici e le garanzie giurisdizionali che lasciano ancora alla massa dei cittadini qualche modesta voce in capitolo. Non per niente lo schema di riforme istituzionali elaborato dai quattro della baita ha poco a che fare, checché se ne sia detto, con il federalismo, ma prevede il rafforzamento a oltranza dell’esecutivo e lo smantellamento sostanziale delle poche istituzioni di controllo e di contrappeso previste dal sistema costituzionale vigente. Una volta accentrato il potere in poche mani sicure, ridotto il parlamento a poco più di una formalità e ricondotta la magistratura alla tradizionale posizione di subordinazione, chi li fermerà più?
Quanto al capocomico, probabilmente si annoia. Quella dell’esercizio diuturno delle responsabilità amministrative non è un’attività che possa gratificarlo più di tanto e per quanto egli si compiaccia di pavoneggiarsi sul piano internazionale, l’aver scelto da subito – come, peraltro, gran parte dei governanti italiani dal dopoguerra in poi – il partito di asservire il paese alla superpotenza di riferimento non gli garantisce che un ruolo, appunto, servile. Probabilmente ambisce a qualche funzione in cui possa brillare senza impegolarsi nelle bassure della politica corrente e il non riuscire a ritagliarsi un ruolo di questo tipo un po’ lo intristisce. Ma questi, naturalmente, sono problemi suoi. Il problema nostro, purtroppo, non è quello di spiare ansiosamente gli indizi del suo disincanto, ma quello di affrontare come possiamo la situazione di degenerazione democratica cui si è ridotto il paese. Sperando di non aver ancora raggiunto il punto di non ritorno.

Carlo Oliva