Rivista Anarchica Online


 

Sciamana & pittrice

Sono nata a Faenza nel 1963. Ho cominciato a dipingere a 12 anni, autodidatta. A 23 mi sono diplomata in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Il mio percorso artistico è iniziato, come sempre avviene, con la copia dal vero e dalle opere esposte nei musei. Con tanto amore per la pittura medievale e rinascimentale toscana, innanzi tutto. Ho fatto molte mostre, collettive e personali, quindi ho maturato una certa esperienza sia dei luoghi espositivi che del rapporto con il pubblico.
La pittura per vivere ha bisogno di alimentarsi: letture, viaggi, musica, rapporti con le persone, contatto con la natura reale e profondo sono essenziali per continuare a produrre arte. Lo dico, perché c’è gente che crede che l’artista viva sulle nuvole... in realtà l’arte ti mette i piedi in terra. Per produrre bisogna «sporcarsi» con la materia. Ed è indispensabile allenare la mente. Un mio professore amava paragonarla a una palestra dello spirito, diceva: «La pittura è fatta di soluzioni continue a problemi immaginari».
Purtroppo in questa società la fantasia viene sempre di più delegata ai creativi pubblicitari, che ti plasmano il cervello facendoti credere che un telefonino ti rende la comunicazione libera o bastardate del genere. Da una parte la «fantasia trasgressiva» di questi signori, dall’altra vorrebbero una massa amorfa di gente pronta a consumare, molto «coi piedi per terra» e in definitiva, molto alienata.
In questo periodo, ma era un amore latente di sempre, mi appassiono di antropologia. I «viaggi» (quelli reali potrò permettermeli solo fra qualche anno) mi portano ad accarezzare posti remoti, in più la necessità di liberarmi è così forte nella vita, che si riflette nella pittura.


I miei punti di riferimento in campo artistico, in questo momento sono anche i graffiti rupestri della Val Camonica o degli Aborigeni australiani, i tatuaggi delle donne Eschimesi e quei colori assoluti meravigliosi dell’Islam: il turchese, il blu cobalto e l’oro. L’arte erotica di ogni tempo e latitudine. E tante altre cose. Potrebbe sembrare banale, ora va di moda lo stile etnico, ma ero già orientata verso questi percorsi per la mia appartenenza, a quel miscuglio strano di profondo sud, di profondo nord e di profondo est che sono le mie radici antiche.
Non credo che l’arte possa fare politica, inorridisco quando mi si parla di manifestazioni nelle quali l’arte fa da «cornice» alla politica (dalle parrocchie alla celebrazione dei regimi di ogni colore)... ma credo che possa esistere una dimensione politica del fare arte, se l’artista è protagonista degli eventi esterni. Il suo agire sarà innanzi tutto influenzato come scelta dei soggetti, e quindi lascerà che le sue opere parlino di fatti di cronaca (come l’omicidio di Carlo Giuliani) o di importanti emergenze (come la salvezza delle foreste pluviali o i diritti dei popoli nativi americani). Ma soprattutto dedicherà attenzione al suo rapporto con il pubblico, eviterà quando è possibile mediazioni istituzionali, preferendo una comunicazione diretta spontanea; sarà selettivo nella scelta dei luoghi dove esporre e degli eventi a cui partecipare. Rifiuterà la commedia feticista delle aste televisive o dei cataloghi a pagamento. Preferirà le strade, le piazze, i centri sociali, le case del popolo, i circoli culturali affini con la propria sensibilità e tutti i luoghi popolari... Baratto e libero scambio con altri artisti. Gratuità e dono nel caso dell’arte postale.
L’arte libera è sempre anarchica, qualsiasi soggetto scelga per le sue espressioni.

«Sciamana & Pittrice» è dedicata alle donne. Agli occhi profondi delle donne, alla loro sensitività-sensualità, alla loro creatività sotterranea, talvolta purtroppo sotterrata... alle streghe di ogni epoca bruciate sul rogo... ad Artemisia Gentileschi che fa parlare la spada di Giuditta che taglia la gola di Oloferne... a coloro che, come scritto in: Donne che corrono coi lupi (non ricordo a memoria il nome dell’autrice, perché il libro me l’hanno fregato), riscoprono il loro lato selvaggio e ascoltano il loro istinto primitivo.
Mi emozionai moltissimo qualche tempo fa, quando guardando un documentario sui popoli della Siberia, vidi una sciamana che aveva il mio volto. Era stata portata insieme a tutta la sua famiglia in un campo di lavoro, torturata, «rieducata», le era stato impedito di fare esercizio della sua magia. Eppure, nonostante la sua età avanzata e le ferite inflitte dagli scagnozzi di quel regime, dimostrava al massimo 30 anni ed esprimeva una forza grandissima. Disse semplicemente che non avrebbe potuto fare altro, che seguire il suo istinto e fare ciò che avevano sempre fatto i suoi antenati. Nessuno al mondo avrebbe potuto ricondurla ad una vita all’insegna del «produci consuma crepa». E soprattutto, nessuno avrebbe potuto spegnere la fiamma magica che ardeva in lei.
Ho scelto di esporre nella Galleria D.E.A. (sta per Didattica Espressione Ambiente) che è una galleria atipica: non rispecchia la logica mercantile perpetuata dalla maggior parte delle gallerie, anche perché non è una vera e propria galleria ma un centro socioculturale che da molti anni opera nel comprensorio fiorentino con mostre fotografiche, videoproiezioni, stage teatrali, corsi di vario genere, hanno un loro giornale e un loro sito Internet (www.deapress.it).

«Sciamana & Pittrice», Galleria D.E.A., Borgo Pinti, 42/R - Firenze, dal 1 al 15 ottobre 2003. Insieme alla mostra di pittura, ci saranno varie iniziative, mail art «Il bandito in bicicletta», presentazione del mio libro edito da Stampa Alternativa e altro per ricordare Horst Fantazzini. Tel. 055-2342238. E-mail: pattydiamante@interfree.it.

Patrizia “Pralina” Diamante
(I due disegni e il dipinto sono dell’autrice)

 

Cantare un sogno non è mai un requiem

Il 13 e 14 giugno scorso a San Benedetto del Tronto ha avuto luogo la nona edizione del Festival Ferré. Una manifestazione anarcomusicale unica in Italia, sia per la dimensione europea determinata dal nome del grande autore-interprete, sia per i contenuti fortemente utopici che in quella sede hanno sempre trovato una trincea resistenziale inespugnabile, sia infine per l’eroismo stremato del suo organizzatore che in quasi dieci anni di proposizioni coraggiose e anomale è riuscito a ricucire la voragine culturale tra la Francia e il nostro paese da sempre divoratore bulimico del prodotto musicale commerciale americano attraverso una sistematica e invasiva imposizione mediatica ormai radicata nella manipolazione del gusto collettivo e sclerotizzata nel discernimento critico rimosso dalle multinazionali del suono planetario. Questo oblio voluto, questo cordone ombelicale tranciato, questo dissolvimento dei legami profondi con la cultura europea, non possono non essere che un disegno perverso per renderci omologati, uniformi ai superiori interessi industriali “preventivi” di quella parte del mondo che detta legge economica, militare, e di deforestazione etica.

Nel discorso d’apertura ho voluto sottolineare come la nona edizione del Festival fosse, ancora una volta, un vero e proprio miracolo laico ad opera del suo fondatore e direttore artistico Giuseppe Gennai e di un gruppuscolo di volontari inesausti e fedeli. Il professore, meglio sarebbe dire un kamikaze della poesia in musica che si fa esplodere tra le note degli spartiti e i versi dei poeti, non può più raccogliere ogni anno i propri pezzi e ricostituirsi per le edizioni successive dal momento che i fondi necessari vengono sempre meno e gli artisti – famosi e no – si offrono al minimo storico delle loro esigenze. Questa manifestazione così apprezzata in tutte le altre regioni per l’alta qualità delle sue scelte non gode della giusta attenzione da parte delle istituzioni locali. Solo la Provincia ha cercato di intervenire concretamente ma ancora a livelli insufficienti e il Comune quasi sventola bandiera bianca sotto forma di elemosina sconfortante. Gli sponsor privati, banche comprese, sono pressoché inesistenti o solo fievoli fiati marginali per rianimare un corpo culturale che avrebbe invece bisogno di un trapianto finanziario urgente. In ogni caso, per un senso di continuità speranzosa, ho pure sottolineato che questa edizione coincide con il decennale della scomparsa di Ferré dedicando le due serate anche ad altre figure fraterne che tanto abbiamo amato e verso le quali ci lega un sentimento di gratitudine: De André, Bindi, Gaetano, Tenco, Brel, Brassens, Barbara, Gainsbourg. Un popolo di scomparsi, si è vero, ma soprattutto un popolo di sognatori che ci aiutano a credere in orizzonti alternativi diversamente da quei vivi che governano il mondo e che il senso e il dissenso del sogno ce lo tolgono. Per questo i primi a salire sul palcoscenico sono stati “Les Anarchistes” un gruppo di Carrara a noi particolarmente caro che ha la sua scelta vocazionale nel riproporre le canzoni anarchiche storiche, un recupero adeguatamente rivisitato con sonorità moderne difficilmente codificabili e di straordinaria creatività e raffinatezza. Una ricerca veicolata da musicisti di altissimo rango coordinati da Nick Toscano. Di rara potenza le voci di Alessandro Danelli, Marco Rovelli e Cristina Alito che si sono miscelate in un impatto emotivo e rivendicativo suscitando ovazioni sismiche. È difficile trovare un gruppo così sublimemente impegnato sul versante utopico ma anche così stilisticamente autarchico e quindi inimitabile. Ricordiamo che ha già vinto la scorsa edizione del prestigioso Premio Piero Ciampi con il cd “Figli di origine oscura”.
A fare da controcanto alla loro furia devastatrice è stato Lucio Matricardi – ventriloquo degli chansonniers francesi – e uno tra gli interpreti più accreditati di Ferré cui puntualmente ci riporta il tumulto, la frenesia d’assoluto, l’emotività viscerale. Questa volta, il pianista sul filo, ha dedicato le sue acrobazie tastieristiche e la sua originalissima cifra interpretativa a Serge Gainsbourg indimenticato autore della “nouvelle vague” della canzone francese, figura di trasgressore estremo, autentico poeta “maudit” della contemporaneità. Accompagnato da alcuni giovani talenti musicali, Matricardi ha eseguito due brani carichi d’ironia e passione riportando, come ogni anno, un successo personale che avrà un riscontro autonomo quando presto debutterà come cantautore.

I Têtes de Bois in versione ridotta hanno presentato l’edizione italiana di “Pepée” eseguita dal leader-voce Andrea Satta. Questa canzone fu scritta da Léo per la sua scimpanzé uccisa, dopo otto anni di vita in comune, dalla sua seconda moglie. Il brano, struggente e tragico, è un atto d’amore verso il mondo più candido e innocente che ci sia: quello degli animali cui Léo condivise gran parte della sua affettività. I Têtes de Bois vinsero l’ultimo Festival Tenco con un cd intitolato “Ferré, l’amore, la rivolta” diffuso da “Il Manifesto” ottenendo un grande successo di critica e di pubblico. Nell’ultima parte della serata – direttamente evocata dalla nostra memoria – ecco salire sul palco una stella ancora palpitante di luce adolescenziale: Jane Birkin. Musa ispiratrice e compagna di Serge Gainsbourg ne ha rievocato il repertorio interpretando le sue canzoni con una grazia e una delicatezza incantevoli; zampilli di note in una voce soffiata nel vetro di Murano, emozioni pudiche tratteggiate come arabeschi nell’aria. La magia della sua presenza e del suo modo così gentile di porgere il senso intimista di una canzone ha suscitato immediatamente nel pubblico una sorta d’abbraccio affettivo ricambiato, da parte sua, con quel suo donarsi nelle parole senza veli all’umana avventura dei sentimenti che suggella quello che Ferré definiva “l’eternità dell’istante”. Maria Cecilia Ferré, figlia di Léo, ha consegnato la Targa Ferré a Serge Gainsbourg, un oggetto appositamente creato da Manuela Ferré, valente scultrice.
La seconda serata s’è aperta con il cantautore marchigiano Fulvio Silvestri che ha esordito con un cd dal titolo “Tropparrobba” e che al Festival ha presentato di Ferré una versione personalizzata di “C’est extra” e un brano di sua composizione. Un’anima sofferta e sensibile che si sposa con una voce dal lamento strozzato e dall’improvvisa reattività risposa creando una combinazione tra suono e intenzione di grande efficacia evocativa. Un altro marchigiano, Carlo Bonanni, oltre a dei brani di Ferré, ha inteso rendere omaggio a Fabrizio De André, suo unico e totalizzante referente poetico-musicale. Bonanni, di professione medico cardiologo, ha scoperto probabilmente che come il malato autentico ha bisogno di un trapianto d’organo, così il “malato immaginario” (o dell’immaginario) ha bisogno di un trapianto poetico per sopravvivere “in un’epoca non epica” (Ferré). Dopo aver cantato dei brani del Maestro si è addentrato nel mondo di Fabrizio con rigore e fedeltà creando in mezz’ora il senso di un viaggio che nessuno di noi ha dimenticato.
Barbara è stata una grande autrice-interprete della canzone francese. Scomparsa pochi anni fa, la ricordo personalmente nello spettacolo “Lily Passion” con Gerard Depardieu al teatro Lirico di Milano nella stagione ’87-’88. Raffaella Benetti, autentica rivelazione del Festival Ferré, ha riproposto parte del suo repertorio da lei abilmente tradotto lasciandoci stupefatti per la sua maturità interpretativa e una voce di rara bellezza, limpida e ferma, che auspichiamo di sentire in più ampi panorami di comunicazione ma la sua scelta “in direzione ostinata e contraria” (De André) alla canzonetta nazional-popolare non le agevolerà il cammino e per questo le siamo solidali.

Un discorso a parte merita il recital del grande Gino Paoli coadiuvato da bravissimi musicisti che l’hanno seguito spesso “a braccio” nelle sue divagazioni esistenziali e improvvisazioni memorialistiche. Solitamente “recintato” nella pura esecuzione dei suoi brani immortali, Paoli si è aperto alla confidenza con il pubblico e alla pubblica confessione tessendo tra una canzone e l’altra un ideale discorso itinerante che ha coinvolto anche la sua storia personale che è la storia della sua carriera artistica. Poche parole di congiunzione ogni volta hanno illuminato anfratti segreti, frammenti di un diario intimo, frasi lapidarie che racchiudevano significati morali, d’amicizia, d’amore. Tra versi recitati e improvvisi strappi cantati, Gino ci ha condotto in una dimensione atemporale fatta di sogni, attese, delusioni, introflettendosi e poi riflettendosi in quel grande canzoniere interiore collettivo che sono i sentimenti. Ma ha fatto di più. Quando, alla fine del recital, ha cantato tre canzoni di Ferré, tra cui “Si tu t’en vas” e “Avec le temps”, ha riservato alla mitica “Gli anarchici” una sorpresa inaspettata. La canzone infatti termina dicendo “sono gli anarchici…”, ebbene Gino ha cambiato il finale cantando a piena gola “siamo gli anarchici”!
Con un esito emotivo dirompente. Non è frequente – come sappiamo – trovare in artisti famosi il coraggio di un’appartenenza o almeno di una propensione utopica qualunque sia la dimensione individuale di tale tensione morale.
Maria Ferré in persona ha consegnato poi a Gino Paoli la Targa del decennale Ferré. Segnaliamo tra gli osservatori professionali presenti al Festival, Enrico De Angelis, grande saggista e musicologo nonché direttore artistico del Festival Tenco. Speriamo di ritrovarci anche il prossimo anno perché cantare un sogno non è mai un requiem.

Mauro Macario

 

Festival del cinema africano

L’ultima edizione del Festival del Cinema Africano (la XIII, Milano, 24-30 marzo 2003) si è svolta nel periodo meno fortunato per la globalizzazione dei popoli, quella globalizzazione che vorrebbe le culture e le arti, le tradizioni e gli scambi, punti di forza dell’umanità e non controllo e dominio di alcune nazioni sulle altre. Infatti, mai come negli ultimi mesi, la pace e la convivenza globale sono state messe in discussione e l’incertezza di questi valori ha aleggiato, come era prevedibile, durante tutta la kermesse ritrovandosi, quest’ultima, più che nelle edizioni precedenti, a riaffermare il valore e la ricchezza della diversità quasi avesse avvertito il peso di un compito differente, maggiore, da sostenere. Più specificamente, la proposta cinematografica, spesso di gran lunga superiore a quella che in genere l’industria del settore propina al pubblico, ha dato dimostrazione di abilità artistica, di spessore culturale e intellettuale, di poesia. Il festival è organizzato in concorso e quindi diviso in diverse sezioni: lungometraggi, cortometraggi, video; inoltre, per la prima volta, si è dato grande spazio al cinema d’animazione. A partecipare non sono soltanto i film del continente nero e del sud del mondo ma anche le pellicole degli altri paesi, ovviamente, dalla specificità inerente. Non mancano nemmeno le grandi produzioni, com’è avvenuto spesso nelle inaugurazioni, magari in anteprima nazionale; per esempio qualche anno fa è stato il caso del magnifico Beloved di Jonathan Demme, mai distribuito nei circuiti cinematografici. Ancora, in questa edizione, un altro capolavoro: La 25a ora di Spike Lee, anch’esso in anteprima nazionale. Il regista afroamericano, si sa, si muove da sempre sulla sottile linea delle coscienze e quest’ultimo film ne rappresenta forse la sua vetta più alta. Per capirci, già nelle prime immagini ci mostra la New New York con i due fasci luminosi al posto delle due torri e le sue rovine. Spike Lee racconta con grande forza una storia che ne riassume un’altra, più grande, che ha riguardato e che riguarda tutti rompendo inoltre (per primo) un accordo tacito che non voleva si mostrasse l’offesa (e il dolore americano). Neanche Martin Scorsese aveva osato tanto in Gangs of New York. E poi tanti altri film, anche bellissimi, come Madame Brouette di Moussa Sene Absa, Leny Escudero, faim de mots di Mariette Monpierre, Africanized di Theo Eshetu, Bessie Head: a soul divided di Emily Mokoena-Mati, Rachida di Yamina Bachir-Chouikh, Poupées d’argile di Nouri Bouzid… a dimostrazione del grande fermento creativo di paesi come Bourkina Faso, Tunisia, Marocco, Nigeria, Mali, Mauritania, Guinea, Senegal, Egitto, Sudafrica… Molto apprezzabili anche i film d’animazione, tutti corti tranne qualche mediometraggio. Su tutti, in anteprima nazionale, un piccolo assaggio, di quattro minuti, di un autentico capolavoro recentemente proiettato per intero al festival di Cannes: The Legend of the Sky Kingdom di Roger Hawkins, il primo lungometraggio d’animazione africano. L’idea viene dalla junk art, l’arte della cianfrusaglia, molto praticata nel continente nero dagli artisti di strada in cui qualsiasi tipo di oggetto o frammento buono per la spazzatura, è riciclato e trasformato in giocattolo. Usando poi la tecnica della junkmation, l’animazione della cianfrusaglia, si è realizzato un film originale, anzi, unico. Potrebbe ricordare Galline in fuga ma al posto delle scenografie realizzate con le più alte tecnologie da un team di 180 professionisti e con un budget di 42 milioni di dollari, i circa 15 giovani artisti di strada hanno realizzato manualmente i sofisticati scenari dell’opera con migliaia di bottoni, lattine, palline e palloni, scatole di cartone, fili, vettovaglie, parti di biciclette o automobili... e con un budget totale di 300 mila dollari. Nelle cinematografie (e nelle civiltà) evolute, forse, qualcosa bisognerebbe rivedere…

Stefano Starace

 

Pistole Taser

La Commissione Tecnica della Polizia svizzera ha deciso: le polizie cantonali potranno usare la pistola Taser, un’arma che spara una scarica elettrica di 50.000 volt. Molto critica Amnesty International.
“È meno pericolosa di una vera pistola”, ha spiegato Peter Diethelm, responsabile del gruppo di lavoro sulle armi della Commissione Tecnica (SPTK), presentando la novità agli organi di stampa.
La Taser è stata sperimentata dalla SPTK – l’organo consultivo intercantonale che ha il compito di valutare le armi impiegate dalle forze di polizia – con test in laboratorio per misurare la quantità di elettricità che un corpo umano può sopportare. Prove balistiche ne hanno appurato la distanza di applicazione: è efficace fino ad un massimo di 6 metri. Ora, per adottarla, i cantoni dovranno dotarsi di leggi e regolamenti specifici.
Un elettrochoc. Con lo sparo, dalla canna della pistola Taser partono due cartucce, che si agganciano alla pelle o agli indumenti della persona colpita e, attraverso i fili sottili che le collegano all’arma, trasmettono per cinque secondi una scarica elettrica di 50.000 volt.
Si tratta di un piccolo elettrochoc, sufficiente a paralizzare il soggetto colpito, che cade immediatamente al suolo e spesso perde i sensi per alcuni secondi. Sul sito dell’azienda americana che la produce ci sono i filmati dei test condotti su volontari: un grido di dolore squarcia l’aria, un corpo diventato immobile crolla a terra e dopo pochi secondi, lentamente, si rialza.
Il marchio Taser è ben noto agli esperti del settore e comprende manganelli, pistole ed altri dispositivi per l’elettrochoc.
Strumenti di tortura, per Amnesty. Secondo Amnesty International “dall’inizio degli anni novanta, le Taser sono utilizzate in 76 Paesi, per lo più come strumenti di tortura”. In alcuni stati americani sono usate per neutralizzare persone sospette o pericolose, che si oppongono all’arresto o all’identificazione. Ed in questo senso l’SPTK ne consiglia l’uso alle forze di polizia svizzere.
Le Taser rientrano nella categoria delle cosiddette “armi meno che letali”, insieme alle pallottole di gomma e ai lacrimogeni, perché concepite come alternativa all’uso di armi vere. Tuttavia: “La pistola Taser non è esente da rischi”, ha precisato l’SPTK, citando la possibilità di ferite gravi agli occhi ed ammettendo di non conoscere l’effetto che potrebbe avere un’intensa scarica elettrica su una persona debole di cuore o una donna incinta.
Dopo l’annuncio della SPTK, la polizia di Basilea-campagna ha raccontato alla “Basler Zeitung” che le pistole Taser sono in dotazione dal gennaio 2003 al gruppo speciale d’intervento Barracuda, che l’ha già usate una volta.
Le polizie cantonali di Lucerna e Zurigo si sono dichiarate interessate ad adottarle e decideranno nelle prossime settimane quante acquistarne: una pistola costa circa 1.000 franchi. Il portavoce della polizia di Zurigo, Marco Cortesi, ha precisato al “Tages-Anzeiger”: “Sarà sperimentata dai gruppi speciali di intervento, per il momento non pensiamo di usarla in manifestazioni di piazza”. Scettico invece Laurent Krügel, comandante della polizia cantonale di Neuchâtel, che ha confidato al quotidiano “Le Temps”: “Mi sconvolge l’idea di 50.000 volt scaricati su un corpo umano”.

Serena Tirani