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                 Con quale stato danimo 
                  si ripoliticizza la questione carcere, prendendo 
                  le distanze dallapproccio umanitario allistituzione 
                  penitenziaria? Non si tratta di assumere una posizione estremista 
                  rifiutando ogni lotta su obiettivi parziali e accontentandosi 
                  di proclamare contro tutto e contro tutti, come lirriducibile 
                  Alexandre Jacob, Abbasso le prigioni, tutte le prigioni! 
                  (1) . In compenso, dobbiamo prendere le distanze dalla trappola 
                  tesa dallo Stato e dalle anime buone che, alle nostre critiche 
                  e denunce, finiscono sempre per opporre la solita replica: Certo, 
                  si può cercare di migliorare i dettagli, ma per il resto 
                  non potete essere contro le prigioni in generale, nella loro 
                  essenza, dato che bisogna comunque punire e vi trovereste in 
                  grande difficoltà a dirci con che cosa vorreste sostituirle. 
                   
                  A questo efficace ricatto che costringe al balbettio, paralizzandola, 
                  la coscienza umanitaria più agguerrita, Michel Foucault 
                  opponeva una risposta netta che ancor oggi conserva tutta la 
                  sua attualità. Ricordando la posizione del GIP (Groupe 
                  dinformation sur les prisons, NdR), diceva: 
                  Ciò che si dice è: basta carceri. E quando 
                  di fronte a questa critica le persone ragionevoli, i legislatori, 
                  i tecnocrati, i governanti domandano: Ma che volete allora?, 
                  la risposta è: Non sta a noi dire di che morte 
                  dobbiamo morire; non vogliamo più giocare questo gioco 
                  della penalità; non vogliamo più giocare il gioco 
                  delle sanzioni penali; non vogliamo più giocare il gioco 
                  della giustizia» (2).  
                  
                  
                  Qual è la tariffa equa?  
                 
                Quando prendiamo posizione sulle carceri rimettiamo in gioco 
                  le scelte etiche e le decisioni razionali più antiche, 
                  più fondamentali, affrontiamo una visione del mondo. 
                  E questa riguarda, fra laltro, il valore che diamo alle 
                  cose, alla proprietà, soprattutto il valore che accordiamo 
                  in termini di sofferenza umana (quella del ladro che espia dietro 
                  le sbarre) ai nostri beni (quale «tariffa» ci sembra 
                  equa per il furto di una vettura?). Ma anche: è legittimo 
                  incarcerare i consumatori di cannabis? Si possono imporre i 
                  trattamenti psichiatrici raddoppiando la pena della reclusione 
                  per alcune categorie di criminali? Ecco, il carcere rivela quali 
                  siano le nostre posizioni generali sul bene e sul giusto. Ed 
                  è anche rivelatore delle nostre sensibilità politiche 
                  nella misura in cui questa istituzione si presenta come un punto 
                  di cristallizzazione dellinsormontabile disputa fra padrone 
                  e servo. Certo, è evidente che se ci si mettesse dalla 
                  parte dello Stato e dei guardiani dellordine, si accetterebbe 
                  quellinattaccabile buon senso per il quale il carcere, 
                  in un mondo che ha messo al bando più o meno tutte le 
                  altre forme di punizione, è un male tanto necessario 
                  quanto ineliminabile. Ma se, come Foucault o Benjamin, ci si 
                  mette dalla parte dei perdenti, dei senza voce e dei vinti della 
                  storia, allora si percepisce il carcere come la reificazione 
                  della regola di un gioco che ci sconfigge (anche noi che non 
                  siamo reclusi) e come lo sbocco di ogni movimento contestatario 
                  (per poco violento che sia) messo in atto per sottrarci allordine 
                  vigente. In breve, in tutti i discorsi sul carcere cè 
                  un sottofondo poco visibile nel quale sindovina il nome 
                  di quello o di quelli di cui facciamo nostro il punto di vista; 
                  che sia quello di Marceau o quello del marchese de la Chesnaye, 
                  le cose sono rimaste più o meno le stesse fin dal tempo 
                  de La Règle du jeu di Renoir. La stessa cosa vale 
                  in letteratura: non potete stare contemporaneamente con Jean 
                  Genet e con Bertrand Poirot-Delpech.  
                  Lordine di cose che produce la divisione fra ladri e derubati, 
                  «asociali» e poliziotti, disoccupati a carico dello 
                  Stato e baroni Seillières, Tapie e Ghellam, e così 
                  via, non lo abbiamo votato. Dunque è un abuso intimarci 
                  di prendere posizione su ciò che è funzionale 
                  a mantenere questordine e sui mezzi per punire coloro 
                  che questordine infrangono. Prima di porci imperiosamente 
                  la domanda: «Con che cosa volete sostituire il carcere?», 
                  ci dovete porre tutte le domande che la precedono, cioè 
                  quelle che riguardano i tratti fondamentali di questordine 
                  (la cui natura contrattuale si ritrova solo nelle dissertazioni 
                  filosofiche degli studenti dellultimo anno di liceo). 
                   
                  Cominciamo dallinizio: vediamo quali sono le categorie 
                  dominanti nella popolazione penitenziaria, vediamo cosa li porta 
                  a infrangere lordine costituito, e approntiamo i mezzi 
                  per porvi rimedio; vediamo anche il modo mediante il quale le 
                  convenzioni sociali e giuridiche operano la separazione fra 
                  ciò che è delitto e crimine e ciò che non 
                  lo è (di cosa sono colpevoli i consumatori di cannabis, 
                  gli immigrati senza documenti?). Non dobbiamo rispondere a domande 
                  tendenziose che non sono altro che ingiunzioni per farci ammettere 
                  che viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ci sono molte 
                  altre questioni di primaria importanza sulle quali il nostro 
                  parere di semplici cittadini non è mai richiesto.  
                  Accettare i termini dellultimatum  «Ammettete 
                  che le carceri sono necessarie perché niente potrebbe 
                  sostituirle»  vuol dire accettare di farsi garanti 
                  di questordine di cose che produce le dicotomie fra vincenti 
                  e perdenti, inclusi ed esclusi, ricchi e poveri, superimpegnati 
                  e nullafacenti, e di quelle costanti sociali che alimentano 
                  il sistema penitenziario come luogo di ammasso, innanzi tutto, 
                  di poveri e di ignoranti.  
                  
                  
                  Continuo incitamento al delitto  
                 
                Sul piano sociale, la civiltà dellautomobile nella 
                  quale viviamo è un continuo incitamento al delitto per 
                  i poveri e i marginali. Essa mostra, nel modo più arrogante 
                  e perverso, la separazione fra la minoranza che accede al «sogno» 
                  feticista glorificato dalla pubblicità e dalla propaganda 
                  («la bella macchina») e tutti gli altri. Giorno 
                  dopo giorno, poveri diavoli a carico dello Stato e disoccupati 
                  subiscono pubblicità televisive di auto il cui prezzo 
                  unitario rappresenta anni e anni dei loro guadagni. Se dunque 
                  lautomobile condensa tutta la violenza simbolica della 
                  divisione fra coloro che hanno accesso al godimento dei beni 
                  di prestigio e gli altri, chi può stupirsi che tanti 
                  delitti e crimini abbiano a che fare con queste costose macchine 
                  e che le carceri accolgano un così grande numero di colpevoli 
                  di reati legati allautomobile?  
                  La domanda «Che cosa mettereste al posto della prigione?» 
                  tende a fare occupare al cittadino ordinario il posto proprio 
                  allo Stato, tende a fargli adottare sulla società lo 
                  sguardo dellautorità, della polizia, il punto di 
                  vista assoluto dellordine, ma senza concedergli per questo 
                  unoncia di potere effettivo. Essa implica labbandono 
                  di ogni prospettiva critica su come questordine è 
                  fatto e su ciò che lo sostiene, ed esorta a un ricondizionamento 
                  dello sguardo e dellintelligenza il cui effetto è 
                  di rendere luomo ordinario incapace di gettare un altro 
                  sguardo (che non sia quello della polizia o dello Stato) su 
                  chi infrange lordine, sui reati e sui crimini. E chi infrange 
                  lordine ha molti pseudonimi: disoccupato, immigrato clandestino, 
                  folle, fumatore di cannabis, disperato, ecc.  
                  Ciò che Hannah Arendt dice sullirriducibilità 
                  degli spazi pubblici alle condizioni dellUno vale anche 
                  qui: luomo ordinario, in quanto elemento essenziale della 
                  cultura democratica, non deve smettere di avere presente il 
                  crimine anche dal punto di vista di colui che infrange lordine, 
                  della sua posizione, delle sue ragioni e dei suoi interessi. 
                  Il criminale, come il folle, il malato, il diverso per razza, 
                  per religione o per orientamento sessuale, non è costituzionalmente 
                  meno dotato sul versante dellumanità, non è 
                  una belva, un mostro, un barbaro metà uomo e metà 
                  bestia... Non si attesta sul versante della pura aberrazione, 
                  le sue ragioni devono dunque essere ascoltate, qualunque cosa 
                  abbia commesso, e nessuna forma di punizione potrà violare 
                  la sua essenziale costituzione umana. È piuttosto la 
                  prigione che disumanizza. Il carcere è un test sulle 
                  facoltà immaginative dellhomo humanitarius di oggi. 
                  Il genocidio, i bagni di sangue, le carestie, i disastri epidemici, 
                  la disperazione dei perseguitati e dei rifugiati lo mettono 
                  in allarme e lo colmano dorrore. Ma la violenza fredda 
                  del carcere spesso lo lascia indifferente, dato che non presenta 
                  alcuno dei tratti spettacolari che si associano alle grandi 
                  calamità e ai grandi crimini del nostro tempo. La scarsa 
                  visibilità della desolazione penitenziaria ha come effetto 
                  di non intaccare la sensibilità delluomo umanitario. 
                  Dal momento che i corpi non sono più direttamente maltrattati, 
                  violentati e squartati, la sensibilità contemporanea 
                  può riposare più o meno in pace.  
                  Non sarebbe male se luomo ordinario apprendesse a misurare 
                  la sua distanza dallo Stato non meno che dal criminale. È 
                  davvero assodato che ciò che lo posiziona nel campo del 
                  primo debba avere la meglio su ciò che potrebbe avvicinarlo 
                  a quella plebe che, di propria volontà o no, non rispetta 
                  le regole del gioco? Mossi da uninclinazione tanto deplorevole 
                  quanto sospetta per la postura virtuosa, i ricercatori che si 
                  occupano delle carceri generalmente tengono a sottolineare che 
                  la scelta di questoggetto sulfureo non avrebbe nulla a 
                  che fare con la fascinazione per il crimine. Anzi, ci tengono 
                  a chiarire che la posizione che hanno scelto non è né 
                  quella di Juliette né quella di Randal (3). Del resto 
                  i loro studi ne risentono, dal momento che ammettono come dato 
                  di fatto che il carcere è lorizzonte insuperabile 
                  del nostro tempo punitivo e che solamente gli abusi più 
                  rivoltanti devono essere oggetto di riforma.  
                  
                  Siamo contro le prigioni  
                 
                Noi siamo contro le prigioni esattamente come, trentanni 
                  fa, le élite illuminate erano contro la pena di morte, 
                  cioè non tanto per ragioni morali o religiose, quanto 
                  piuttosto perché la loro stessa esistenza rinfocola costantemente 
                  desideri oscuri: odiare, far soffrire, punire, distruggere coloro 
                  ai quali tocca il peso opprimente dincarnare il male e 
                  il pericolo, desideri che non smettono mai dinfluenzare 
                  lopinione pubblica. Dato che nel caso delle prigioni il 
                  gioco con la morte, il desiderio di morte, non fa che dislocarsi 
                  trovando nuove forme di cristallizzazione, coloro che oggi esigono 
                  che il tal criminale sconti inesorabilmente la sua pena di venti 
                  o trentanni, e che non riveda mai più la luce del 
                  giorno, sono spinti da una passione mortifera non meno terrificante 
                  di quella che fino a qualche tempo fa faceva urlare: «A 
                  morte!». Il sangue non cola più ai piedi della 
                  ghigliottina, ma si è rappreso in quella muta, infinita, 
                  sofferenza evocata da quei rarissimi casi di detenuti che attraverso 
                  i loro scritti ci consegnano un pensiero non poliziesco sullinfrazione 
                  dellordine costituito. Le carceri occupano un posto centrale 
                  nei discorsi securitari degli uomini di Stato dogni tendenza, 
                  che governano tramite la paura non potendo far vivere la speranza. 
                  Tutte le volte che un uomo politico intona il ritornello che 
                  auspica «maggiore fermezza...», bisogna intendere: 
                  più carcerati. Ridotti ai loro ultimi argomenti, i difensori 
                  della carcerazione ricorreranno a questo inossidabile tema: 
                  «Ma che cosa ne farete di quei criminali mostruosi delle 
                  cui malefatte parlano le cronache, ovvero serial killer, violentatori 
                  abituali, pedofili incalliti?». Ma noi non siamo lo Stato; 
                  perché dovremmo avere una risposta per questa domanda 
                  quando le nostre opinioni su altre questioni altrettanto scomode 
                  (come sbarazzarci delle centrali nucleari, come liquidare la 
                  televisione spazzatura, come cancellare la monomania automobilistica, 
                  ecc.) sono ritenute del tutto inopportune? Ma, al di là 
                  di tutto, ciò che si svela qui è una vera e propria 
                  fantasmagoria: tutto tende ad accreditare lidea che le 
                  carceri siano fatte per proteggere la società contro 
                  individui particolarmente pericolosi e irrecuperabili. Ebbene, 
                  nelle carceri francesi, che ospitano 50.000 persone, se ne contano 
                  solo alcune centinaia che rispondono a questo profilo, e comunque 
                  la loro incapacità di ritornare nei ranghi dellumanità 
                  non dovrebbe mai essere decretata aprioristicamente. Sono i 
                  vari Pinochet, Milosevic, Bousquet e Papon, i vari burocrati 
                  del crimine, a essere incorreggibili, molto più di quei 
                  criminali (grandi o piccoli che siano) macchiati di sangue che, 
                  come ci dimostrano esempi recenti, talvolta possono rinascere 
                  e ricominciare una nuova vita anche nelle condizioni più 
                  sfavorevoli che ci siano, ossia quelle del carcere.  
                  
                Disegno 
                  di Giovanni Battista Piranesi sulle carceri 
                  
                  Unità antipolitica  
                 
                Dopo che è venuta meno levidenza, largamente condivisa 
                  negli anni Sessanta e Settanta, che lélite illuminata 
                  e gli intellettuali progressisti dovessero schierarsi dalla 
                  parte degli operai, degli sfruttati e dei popoli colonizzati, 
                  ha preso corpo una nuova configurazione: possiamo vedere un 
                  pubblico umanitario, composto dalle più disparate categorie, 
                  schierarsi a fianco delle vittime e dello Stato, pensare la 
                  sua solidarietà verso le vittime con lo Stato nei termini 
                  propri del pensiero statuale (da telethon allingerenza 
                  umanitaria). In questa configurazione non si trova evidentemente 
                  più nessuno che opponga la figura del perdente, del vinto 
                  della storia, a quella della vittima. Questultima simpone 
                  come passe-partout per negare lattualità di questa 
                  divisione e come tramite della sua depoliticizzazione. La vittima, 
                  in opposizione al perdente o al vinto della storia, è 
                  quella figura, buona per tutti gli usi, attraverso la quale 
                  si realizza la sacra unità antipolitica dello Stato con 
                  lopinione umanitaria. Ora, per definizione, il detenuto 
                  è un perdente (anzi è colui che ha sempre perso 
                  in anticipo nel suo scontro senza speranza con la regola del 
                  gioco), non una vittima. Di fronte al tribunale dellopinione 
                  pubblica, è colui che viene opposto costantemente alla 
                  vittima, da compatire perché ne subisce i misfatti. Non 
                  si troverà dunque più nessuno che oserà 
                  dire che gli intellettuali e le élite illuminate debbano 
                  schierarsi a fianco di questo pulviscolo dumanità 
                  plebea, composta da perdenti e vinti, che popola le carceri, 
                  piuttosto che a fianco dello Stato che imprigiona e dellopinione 
                  pubblica che reclama sempre più rigore e pene per questi 
                  perturbatori dellordine.  
                  Perché oggi luomo dei sondaggi è animato 
                  da tanta ostinazione e tanto astio nellinsistere sulla 
                  insostituibilità dellistituzione penitenziaria 
                  quali che siano i suoi limiti? Il fatto è che il carcere 
                  gioca un ruolo decisivo nel produrre effetti dalterità 
                  fra luomo ordinario e il criminale. Laddove ognuno sperimenta 
                  più o meno distintamente la propria prossimità 
                  con il criminale (il ladro, lo stupratore, lassassino), 
                  il carcere, separando violentemente un mondo aperto da un sub-mondo 
                  chiuso, produce la falsa evidenza di una differenza essenziale 
                  fra due specie umane: quella delle persone oneste e virtuose 
                  (che non conoscono il carcere) e quella dei criminali (di cui 
                  circoscrive, marca e definisce lappartenenza al mondo 
                  penitenziario). Ora, nel suo intimo, luomo medio non ignora 
                  nulla dellartificio insito in questa separazione. In quanto 
                  essere vivente costituito e attraversato dal desiderio, sa bene 
                  di essere esposto, proprio per la sua più intima natura, 
                  a commettere eccessi e gesti irragionevoli che lo spingono al 
                  crimine. Chi non è mai stato colto dallimpulso 
                  primitivo di godere di un altro senza curarsi del suo consenso, 
                  di impadronirsi di un bene che non gli appartiene, dinfierire 
                  sul nemico, inimicus o hostis poco importa?  
                  La caratteristica del piccolo uomo contemporaneo, che rivolge 
                  la propria attenzione alla sua costituzione affettiva in quanto 
                  soggetto/oggetto del desiderio e civilizzato, è quella 
                  di rivelare lestrema labilità della linea di separazione 
                  fra la sua esistenza im-punita (piuttosto che onesta e virtuosa) 
                  e quella del criminale. Dopo Nietzsche, Freud, Elias, anche 
                  se non li ha letti, egli non ignora più quel «superbo 
                  barbaro» in lui che ha dovuto soffocare e rinchiudere 
                  a tripla mandata per diventare un essere civilizzato (il vicino, 
                  il padre, il lavoratore) accettabile. In questo senso, non cè 
                  nessuno di questi piccoli uomini (e donne) che non sappia di 
                  essere fratello (o sorella) di sangue del criminale. Non cè 
                  nessuno che non abbia cognizione, fossanche confusa, di 
                  questo fatto iscritto nel cuore stesso dellesperienza 
                  storica del XX secolo: il divenire criminale collettivo, nei 
                  regimi totalitari, delluomo medio (i normali) in quanto 
                  massa. La frontiera fra il crimine e la sua assenza è 
                  messa in pericolo precisamente nellistante in cui, in 
                  quanto normali, essi sono soggetti dei regimi totalitari chiamati 
                  a partecipare al crimine di massa.  
                  
                Mosca, 
                  il carcere della Lubianka 
                  
                  Sottile involucro civilizzato  
                 
                Questa fragilità della separazione fra il civilizzato 
                  e il selvaggio, linnocente e il colpevole, il criminale 
                  e il giusto o il virtuoso, è iscritta nella trama stessa 
                  delle società post-totalitarie. I movimenti di imbarbarimento 
                  che hanno accompagnato le esperienze totalitarie dimostrano 
                  quanto sia sottile linvolucro civilizzato che protegge 
                  e allontana luomo occidentale del XX secolo dalla sua 
                  selvatichezza, inculcandogli costumi sempre più pacificati, 
                  ispirandogli unavversione sempre più spiccata per 
                  le condotte violente. Ora, è precisamente perché 
                  sappiamo non solo che «gli assassini sono fra noi», 
                  ma anche che noi, uomini qualunque (ormai sottratti alla nostra 
                  natura violenta), non siamo che illusoriamente immunizzati contro 
                  le nostre potenzialità criminali, che siamo indotti a 
                  rendere eterno il rito attraverso il quale ci separiamo violentemente 
                  e simbolicamente dalla nostra parte selvaggia, proiettando nello 
                  spazio penitenziario questo «altro», questo intermediario, 
                  questo doppio: il criminale.  
                  Il processo di conversione di questa parte essenziale di noi 
                  stessi in un altro assoluto è ciò che rende indispensabile 
                  la perpetuazione del carcere, affinché possa perpetuarsi 
                  anche la menzogna della nostra innocenza come esseri civili 
                  e pacificati: rito arcaico dautopurificazione (ammesso 
                  che ne sia mai esistito uno) attraverso il quale ritorna, proprio 
                  là dove pensavamo di averla espulsa, la nostra atavica 
                  parte selvaggia, a scapito della nostra innocenza animale.  
                  In un famoso passo di Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss 
                  scrive che non essendoci società perfette tutte «comportano 
                  per natura unimpurità incompatibile con le norme 
                  che esse proclamano, che concretamente si traduce in una certa 
                  dose di ingiustizia, di insensibilità e di crudeltà». 
                  Questa dose egli la chiama anche il «residuo diniquità» 
                  proprio di ogni società: nel mondo occidentale moderno 
                  il sistema punitivo fondato sullesclusione sociale (il 
                  carcere) è la cristallizzazione di questo «rifiuto 
                  della società», il marchio stesso dellinfrazione 
                  alle norme. Opponendo due modelli di società, quelle 
                  che chiama antropoemiche (dal greco emein, vomitare) e quelle 
                  designate come antropofagiche, Lévi-Strauss scrive: «[Le 
                  nostre società] hanno scelto la soluzione consistente 
                  nellespulsione di questi esseri terribili [delinquenti, 
                  criminali] tenendoli temporaneamente o definitivamente isolati, 
                  senza contatti con lumanità, in istituzioni destinate 
                  a questuso. Alla maggior parte delle società che 
                  noi chiamiamo primitive, questo costume ispirerebbe un orrore 
                  profondo; ai loro occhi potremmo essere marchiati dalla stessa 
                  barbarie che noi saremmo tentati di attribuirgli a causa dei 
                  loro costumi simmetrici».  
                  Per «costumi simmetrici» Lévi-Strauss qui 
                  intende la tortura come viene praticata nelle società 
                  primitive o anche il fatto di mangiare il corpo del nemico. 
                  E ribadendo il concetto, aggiunge che sarebbe «unassurdità 
                  credere che noi abbiamo compiuto un grande progresso spirituale 
                  perché, anziché mangiarci qualcuno dei nostri 
                  simili, preferiamo mutilarli fisicamente e moralmente» 
                  attraverso la reclusione e la rottura dei legami sociali.  
                  
                  Inversione dello sguardo  
                 
                Invitandoci a riflettere dal punto di vista del selvaggio o 
                  del primitivo su questo «residuo diniquità» 
                  rappresentato dal nostro arcipelago penitenziario, Lévi-Strauss 
                  sottolinea il carattere relativo  culturale  di 
                  quello che consideriamo, con sempre maggiore insistenza, come 
                  il criterio stesso della condizione civile: la disgiunzione 
                  della sanzione o della punizione dalla violenza viva esercitata 
                  direttamente sui corpi, di cui la forma estrema è la 
                  tortura; la proibizione assoluta di ogni forma di banchetto 
                  riparatore o di vendetta che includa il corpo del nemico o del 
                  criminale. Bisogna passare attraverso questinversione 
                  dello sguardo per comprendere come possa essere relegato nella 
                  zona dombra della nostra condizione civilizzata lorrore 
                  di un sistema punitivo fondato sullo sradicamento dellindividuo 
                  dal tessuto comunitario, sulla distruzione del legame sociale 
                  e sulla solitudine affettiva. Da quando abbiamo rinunciato a 
                  martoriare i corpi, a far colare il sangue, a punire crudelmente 
                  (cruor = sangue), ci consideriamo finalmente a posto con le 
                  regole di civiltà, dimenticando, come diceva Beccaria, 
                  che ci sono molti castighi peggiori della morte, mediante i 
                  quali «i mali dellinfelice [il recluso], anziché 
                  finire, non fanno che ricominciare». Caratteristico del 
                  carcere è dunque di renderci indefinitamente insensibili 
                  alla sofferenza e allinfelicità inflitte attraverso 
                  la reclusione, lisolamento, nella forma di unantropoemia 
                  inflessibile ma «pulita». Assegnare il ruolo del 
                  barbaro a questi gruppi, popoli, Paesi, dove si continuano a 
                  combattere guerre sporche con la loro coda di crudeltà, 
                  dove resta in vigore la pena di morte, ha come finalità 
                  non solo di produrre divisioni convenienti e generatrici di 
                  coesione interna appunto nella separazione fra «loro» 
                  e «noi», ma anche di sottrarre alla vista i punti 
                  più deboli del nostro sistema di autovalorizzazione (in 
                  primo luogo i nostri dispositivi punitivi). Incitandoci a gettare 
                  sui nostri luoghi di reclusione lo sguardo dellantropofago, 
                  per il quale il legame comunitario è tutto e lespulsione 
                  dal gruppo è linfelicità suprema, Lévi-Strauss 
                  ci invita a ritrovare, di fronte allorrore penitenziario, 
                  la nostra piena capacità di stupirci inorridendo.  
                  Con la reiterata ingiunzione a spiegare con che cosa intendiamo 
                  rimpiazzare le prigioni (mentre noi ne contestiamo il principio 
                  e lesistenza stessa), è lideale di una società 
                  di polizia a emergere nella sua piena trasparenza: una società 
                  dove tutti e ciascuno sono chiamati ad assumere, su questioni 
                  fra loro molto eterogenee come la proprietà, la sicurezza, 
                  il crimine, la devianza, la delinquenza e il furto, esclusivamente 
                  il punto di vista del poliziotto, secondo il mandato affidatogli 
                  dallo Stato di proteggere il proprietario. Si tratta allora 
                  di opporre al punto di vista unico della protezione dei beni 
                  la constatazione che il sistema penale e penitenziario costituisce 
                  la più patente trasgressione del processo di civilizzazione 
                  dei costumi. Si tratta, per esempio, di esigere dal filosofo 
                  quanto Rousseau rammentava ancora nellEmilio, e 
                  cioè che il «problema» fondamentale è 
                  la felicità dellindividuo; mentre oggi si chiede 
                  anche a lui di ragionare come un poliziotto non appena la sua 
                  riflessione si imbatte nei temi della proprietà (ovvero 
                  della difesa della proprietà) e della sicurezza (diventata 
                  ai nostri giorni una specie di ricettacolo, luogo dammasso 
                  ideologico...). Qui cè, evidentemente, una sorta 
                  di omogeneizzazione e di egemonizzazione dei discorsi assolutamente 
                  insopportabile: chi si sognerebbe di domandare al poliziotto, 
                  il cui mestiere in effetti è di reprimere il crimine, 
                  di provare a sottrarsi radicalmente alla sua posizione per affrontare 
                  il problema anche dal punto di vista della felicità pubblica 
                  e privata?  
                  
                La 
                  fortezza di San Leo 
                  
                  Intolleranza allorrore penitenziario  
                 
                Rifiutarsi di ridurre la questione carcere al punto di vista 
                  della polizia è dunque il più elementare dei diritti 
                  del cittadino avvertito. È suo diritto proclamarsi rigorosamente 
                  e definitivamente intollerante di fronte allorrore penitenziario 
                  senza per questo dover proporre mezzi alternativi alla reclusione 
                  concepita come privazione del legame sociale: indicare che cosa 
                  deve sostituire una pratica o unistituzione incompatibile 
                  con le nostre norme di civiltà è una questione 
                  che nemmeno si pone. Chi si chiede con che cosa rimpiazzare 
                  la tortura dei sospetti, la pratica di sgozzare i condannati 
                  o gli abusi della polizia...? Una volta respinta lingiunzione 
                  volta a neutralizzare ogni sforzo di riflessione attorno ai 
                  temi della sicurezza e del sistema penitenziario, si apre una 
                  lunga sequela di domande, tutte infinitamente complesse. Esse 
                  concernono in particolare la nozione di responsabilità 
                  (quale significato riparatore ha rinchiudere in carcere un criminale 
                  psicotico?), la questione del contratto sociale (un ladro o 
                  un delinquente può essere descritto, e lo si sente spesso, 
                  come «colui che ha infranto il contratto sociale»?), 
                  il problema della sicurezza (in che senso essa è un «diritto»?), 
                  il discorso su una proporzionalità fra delitti e pene 
                  (quale durata di sospensione dallappartenenza comunitaria 
                  e quale intensità di sofferenza costituiscono lequo 
                  «equivalente» per il furto di un telefono cellulare?). 
                   
                  Nei tempi di abbrutimento securitario senza precedenti che viviamo, 
                  queste domande sono rimosse con una sollecitudine che altro 
                  non è se non la manifestazione, cambiata di segno, della 
                  loro urgenza. La nozione stessa di crimine è legata a 
                  uno stato della società, a delle convenzioni sociali, 
                  a «finzioni» coesive. Quando vediamo, come hanno 
                  riferito i giornali durante lestate 2001, che i furti 
                  senza violenza dei telefoni cellulari contribuiscono per circa 
                  due terzi allaumento del numero di reati rilevato dalle 
                  più recenti statistiche di polizia (mentre il numero 
                  degli omicidi continua a diminuire), si coglie immediatamente 
                  che la questione demagogica dellinsicurezza-che-cresce 
                  nasconde una realtà contraddittoria. Ciò che le 
                  società contemporanee percepiscono come il problema maggiore 
                   ossia la sicurezza (minacciata) e la criminalità 
                  (crescente)  ci appare essenzialmente come un prolungamento 
                  meccanico delle modalità di presentazione, diffusione 
                  e ripartizione delle merci.  
                  Viviamo in effetti in una società sdoppiata e schizofrenica. 
                  Da una parte essa esalta tutte le forme del consumo e tende 
                  sempre più a sostituire alle figure tradizionali legate 
                  al lavoro (loperaio, limpiegato, il padrone...) 
                  o alla politica (il cittadino, il militante...) quella del consumatore 
                  universale. Dallaltra parte, essa istituisce e riproduce 
                  delle modalità di ripartizione così ineguali che 
                  laccesso al godimento di un certo numero di oggetti o 
                  di beni diventa la posta in gioco di una lotta selvaggia e incontrollabile 
                  fra coloro che «li hanno» e coloro che si trovano 
                  invece nella condizione di un bambino nel reparto giocattoli 
                  di un grande magazzino, che si muove fra tutte quelle meraviglie 
                  senza avere il diritto di toccarne nessuna. Una parte determinante 
                  delle pratiche illegali contemporanee ha luogo in questo spazio 
                  dove la massa è sollecitata costantemente (con tutti 
                  i mezzi più raffinati della seduzione e dellincitamento) 
                  a consumare beni e a godere di oggetti ai quali la sua posizione 
                  economica e la sua disponibilità di denaro le impediscono 
                  di avere accesso. Viviamo in una società nella quale 
                  non sono più lindigenza e la fame che spingono 
                  al crimine, ma dove è il non-accesso al consumo che costituisce, 
                  in questo mondo-vetrina, una forma molto rigida non solo di 
                  marginalizzazione o, come si dice, di esclusione, ma quasi di 
                  morte sociale. Le odierne classi pericolose si ricostituiscono 
                  dunque in una configurazione dove non sono più (come 
                  nel XIX secolo di Louis Chevalier) formate da affamati che lottano 
                  per la loro sopravvivenza biologica e muoiono sulle barricate 
                  reclamando il pane. Esse sono invece formate da frustrati del 
                  consumo che sperimentano una sorta di «condivisione occulta», 
                  compensatrice, destinata a farli partecipare, come gli altri, 
                  al godimento dei beni che esercitano maggiore seduzione. Lungi 
                  dunque dal pensare che il ladro appaia qui come colui che si 
                  oppone violentemente alla norma sociale, esso si manifesta piuttosto 
                  come una sorta di conformista sociale pronto a tutto, o quasi, 
                  per occupare, come gli altri, la posizione del consumatore medio. 
                 
                Lideale di società poliziesca 
                   
                 
                Il conflitto, tutto sommato mediocre e monotono, che oppone 
                  il capitalista seduttore, desideroso di vendere a ogni costo 
                  ciò che la maggioranza non può comprare, a coloro 
                  che vanno in bestia per il fatto di non poter toccare le merci-feticcio 
                  se non «con gli occhi», non mette direttamente in 
                  gioco il cittadino attivo o il filosofo. Per loro, i ladri  
                  che sono la maggioranza della popolazione penitenziaria  
                  non sono evidentemente né amici né fratelli, ma 
                  ancora maggiore è la loro avversione per quei demagoghi 
                  e quegli «esperti» oscurantisti che desiderano trapiantagli 
                  locchio del poliziotto piuttosto che lasciargli esercitare 
                  la loro facoltà di giudizio.  
                  Oggi lideale di una società di polizia non sincarna 
                  nel piccolo uomo indottrinato, fanatico, reso cieco dal potere 
                  dittatoriale, ma molto più semplicemente nel cittadino 
                  che concepisce lordine sociale esclusivamente dal punto 
                  di vista del proprietario dautomobile e che, dunque, considera 
                  ogni oltraggio contro questo vitello doro come passibile 
                  del castigo supremo (amministrato dal poliziotto che, perdendo 
                  i nervi, ammazza il ladro cavandosela con una condanna a sei 
                  mesi con la condizionale). A questa fuga in avanti nellimmaginario 
                  securitario, il cittadino illuminato e il filosofo oppongono 
                  una prescrizione inoffensiva: vivete in modo da non avere molto 
                  da temere dal ladro e vedrete che sarete sollevati dalla maggior 
                  parte dei vostri timori securitari. E ogni volta che sarete 
                  in procinto di soccombere al richiamo delle sirene (più 
                  repressione, più sorveglianza e carceri!) domandatevi 
                  quanto vale nella moneta della sofferenza umana, e in termini 
                  di sradicamento dalla vita comune, la perdita di un telefono 
                  cellulare, di unautomobile, di una telecamera, ecc. Cosa 
                  ci possiamo attendere da una società che sempre più 
                  tende ad adottare sugli affari umani il punto di vista del poliziotto, 
                  che tende a liquidare la condizione stessa della pluralità 
                  (degli interessi, dei punti di vista, delle opinioni) quando 
                  è in gioco lordine sociale (come se ci fosse qualcosa 
                  che, da vicino o da lontano, non la riguardasse)? Strano paradosso 
                  quello di una società sempre più portata ad abolire 
                  le linee di frattura e le forme di divisione tradizionali, attraversata 
                  da forme di fluidità (economica, sociale, culturale e 
                  ideologica) sempre più marcata, e che simultaneamente 
                  sembra sempre più indotta a indurire il decreto di espulsione 
                  e desclusione contro gli «altri» (ladri, delinquenti...), 
                  che essa sradica dallumano consesso inviandoli in carcere. 
                  In Tristi tropici, Claude Lévi-Strauss racconta 
                  le pratiche di «polizia» e di giustizia degli indiani 
                  delle pianure nordamericane:  
                  Se un indigeno contravveniva alle leggi della tribù, 
                  veniva punito con la distruzione di tutti i suoi beni: tenda 
                  e cavalli. Ma nello stesso tempo, la polizia contrattava un 
                  debito nei confronti del punito: alla polizia stessa toccava 
                  organizzare la riparazione collettiva del danno del quale il 
                  colpevole, per essere punito, era stato la vittima. La riparazione 
                  a sua volta faceva del punito il debitore del gruppo, al quale 
                  doveva dimostrare riconoscenza mediante regali offerti a tutta 
                  la collettività (compresa la stessa polizia), che lo 
                  aiutava a procurarseli in modo da invertire nuovamente i rapporti; 
                  e così di seguito fino a che, al termine di tutta una 
                  serie di regali e contro-regali, il disordine precedente fosse 
                  progressivamente eliminato e lordine iniziale restaurato. 
                    
                Lo Stato di diritto e la classe media planetaria, i due maggiori 
                  attori della civiltà contemporanea, non avrebbero molto 
                  da apprendere da questi usi «primitivi» della polizia 
                  e della giustizia? 
                  
                  Alain Brossat 
                Note:  
                  1. Le carceri sono «la vergogna della Repubblica», 
                  come ha affermato Act up, su «Le Monde», 6 novembre 
                  2000.  
                  2. Michel Foucault, La philosophie analytique de la politique, 
                  in Dits et Écrits, vol. III, cit., p. 544.  
                  3. Marchese de Sade, Juliette, ovvero la prosperità 
                  del vizio, Newton Compton, Roma, 1993; Georges Darien, Le 
                  Voleur, Pauvert, Paris, 1955. 
                
                Il 
                  volume di Alain Brossat (Elèuthera, 152 pp., € 11,00) 
                  dal quale è tratto questo articolo 
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