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                 Ancora tanto sangue versato in 
                  Medioriente. La vera e propria mattanza di vittime assolutamente 
                  innocenti e indifese, continua ad occupare le prime pagine dei 
                  quotidiani di tutto il mondo.  
                  Ancora una volta si sprecano le analisi, le prese di posizione, 
                  gli auspici, le preghiere, le minacce, gli ultimatum, ecc.  
                  La situazione si presenta sempre più difficile e ingarbugliata, 
                  le implicazioni di ogni scelta sono sempre più variegate, 
                  contorte, ingestibili anche e soprattutto da parte dei tradizionali 
                  attori. Diplomazie statali e governative di tutto il mondo, 
                  servizi segreti e «intelligence» (?!) sembrano talvolta 
                  trovare nuove strategie, nuove strade, nuove idee attorno alle 
                  quali costruire un presunto equilibrio, quando puntualmente 
                  un drammatico fatto di sangue rimette nuovamente tutto sottosopra 
                  e ricomincia la solita tragica e aberrante sequela di reazioni. 
                  E allora ancora nelle pagine dei giornali, nelle immagini delle 
                  televisioni di tutto il mondo, riappaiono loro, i protagonisti 
                  del terrore, di volta in volta con i loro proclami più 
                  o meno esilaranti, con le minacce, gli ultimatum e nuovi attentati 
                  o attacchi militari.  
                  E noi, spettatori impotenti, ormai assuefatti alle morti in 
                  diretta, spesso ci rifugiamo nellaccettazione di tutto 
                  ciò senza ormai più voglia di reagire o speranza 
                  di uscire da questo tunnel dellorrore. Si, ormai le guerre 
                  e le violenze sono entrate nuovamente nel nostro pane quotidiano, 
                  sono parte della nostra rassegnata esistenza.  
                  Ormai non ci indigniamo quasi più, non ci spostiamo dalle 
                  nostre talvolta comode esistenze, non abbiamo quasi più 
                  la forza di alzarci e urlare tutto il nostro sdegno e il nostro 
                  deciso e risoluto rifiuto per ciò a cui assistiamo anche 
                  grazie a come e quanto tutto ciò ci viene imposto.  
                  Così la cosiddetta informazione si sbizzarrisce nel mostrare 
                  le morti, le urla di disperazione, le vendette, le ritorsioni 
                  che Israele e Palestina continuano a farsi reciprocamente. Da 
                  un lato si alzano muri sempre più lunghi in nome della 
                  sicurezza, si occupano sempre più vaste aree militarmente, 
                  dallaltro si alimentano le stragi e le guerre sante, in 
                  nome di dio, della patria e del potere.  
                  La supremazia della logica militare e dello Stato trionfa a 
                  scapito delle popolazioni e della sempre più richiesta 
                  pace.  
                  Pochissime informazioni, in un mondo per definizione sempre 
                  più informato, giungono a noi su chi resiste in questo 
                  deserto di barbarie e giornalmente, con tanti piccoli gesti, 
                  con azioni sporadiche sempre più diffuse, con segni evidenti 
                  di pace, costruisce un mondo diverso. Così, scavando 
                  tra le righe semi-nascoste di qualche coraggioso servizio, possiamo 
                  invece scoprire che una vera e solida resistenza, minoritaria 
                  sicuramente nei numeri, ma maggioritaria nei sentimenti e nei 
                  desideri, sta crescendo faticosamente, giorno dopo giorno, e 
                  si manifesta talvolta in piccole storie, talvolta in manifestazioni 
                  di esplicito dissenso, insomma esiste e si intreccia al di la 
                  dei confini e delle barriere della religione e del potere.  
                  E allora scopriamo che amicizie e rapporti stretti, tra israeliani 
                  e palestinesi, esistono e anzi si rafforzano nonostante tutto, 
                  ma proprio tutto, vada nella direzione opposta. Donne ebree 
                  e palestinesi divise da lutti, cultura, territorio diventano 
                  amiche in nome di un comune sogno di pace che riesce a sconfiggere 
                  la realtà dellorrore. Persone che hanno perso famigliari, 
                  figli, compagni/e sfidano la logica del potere religioso, economico, 
                  politico, costruiscono rapporti diretti e veri attorno ai quali 
                  sperano ardentemente di poter edificare un mondo migliore, spazi 
                  di reciprocità e di solidarietà.  
                  
                  Desiderio di normalità  
                 
                Uomini e donne, che sfidano giornalmente non solo il pericolo 
                  della morte, ma anche le estenuanti reciproche limitazioni alla 
                  propria libertà di movimento e le restrizioni burocratiche, 
                  che scoraggerebbero chiunque, per incontrarsi e ridare alla 
                  loro esistenza una serenità che sembra sempre irrimediabilmente 
                  persa. Ma non si tratta solo di un desiderio, più che 
                  legittimo, di normalità, ma anche di gesti e azioni che 
                  testimoniano nei fatti il rifiuto alla rassegnazione, la disobbedienza 
                  esplicita ad un sistema intrecciato e incancrenito di violenze 
                  e sopraffazioni.  
                  Ne sono testimonianze concrete e note, ad esempio, il rapporto 
                  di intensa amicizia e solidarietà tra Tamara Rabinowitz, 
                  israeliana di origine sudafricana e di religione ebraica, professoressa 
                  di inglese e la dottoressa Rihab Essai, palestinese e musulmana, 
                  docente di sociologia allUniversità El Kuz a Gerusalemme, 
                  che sfidano i rispettivi mondi per testimoniare ogni giorno 
                  la loro amicizia e il loro impegno per la pace e la solidarietà 
                  tra i due popoli.  
                  Oppure, solo per ricordare i fatti più eclatanti che 
                  ci sono giunti nei paesi europei dai media (in questo caso attraverso 
                  il quotidiano spagnolo «El Pais»), il coraggio del 
                  dissenso manifestato dal grande musicista ebreo Daniel Baremboin, 
                  che a 61 anni sfida tutte le regole e le norme per continuare 
                  a suonare assieme a giovani palestinesi a Gerusalemme, con un 
                  pubblico ristretto ma partecipe, in assenza di ogni autorità 
                  palestinese e, in aperto contrasto con il potere, annuncia progetti 
                  di scuole di musica comuni e lancia un appello affinché 
                  uomini e donne di entrambi i paesi si uniscano e creino direttamente 
                  e autonomamente progetti di pace e di convivenza nel rispetto 
                  reciproco, nella convinzione che non vi può essere una 
                  soluzione militare e violenta al problema.  
                  Ma testimoniano questa volontà le attività e i 
                  progetti che animano le scuole democratiche e libere che in 
                  diversi paesi di Israele e persino in Palestina operano giornalmente 
                  anche con questi intenti, così come è significativa 
                  la nascita di una radio comune che trasmette i propri programmi 
                  in tre diverse lingue: arabo, israeliano, inglese.  
                  Piccole cose conosciute, assieme a tante altre altrettanto piccole 
                  quotidiane manifestazioni di reciprocità diretta in contrapposizione 
                  ad una Politica reciprocamente ostile e guerrafondaia.  
                  Ma, forse per le dimensioni, oppure per il significato dirompente 
                  che viene ad assumere, la più eclatante manifestazione 
                  di dissenso arriva proprio dallinterno di Israele. Ormai 
                  numerose sono state le manifestazioni pacifiste pubbliche di 
                  cittadini ebrei che rivendicano il loro diritto ad una vita 
                  più libera ed egualitaria, manifestazioni molto più 
                  difficili in Palestina, paese sicuramente più dominato 
                  e totalizzante di Israele.  
                  In particolare è sul fronte della lotta antimilitarista 
                  che maggiori sono le manifestazioni di dissenso e di rifiuto 
                  della logica statale e guerrafondaia propria del premier israeliano 
                  Sharon.  
                  Una cinquantina di donne israeliane e palestinesi, aderenti 
                  a «Bat Shalom» e ad altre organizzazioni femministe, 
                  hanno recentemente occupato simbolicamente uno spazio del muro 
                  che il governo israeliano sta edificando per dividere Israele 
                  da una zona della Palestina. Lo slogan usato, molto efficace 
                  ed esplicito, è stato: «Separation Wall = Ghetto 
                  not Secutity. No peace without Prisoner Release». Così 
                  come esplicita è la «Dichiarazione dei riservisti 
                  israeliani contro la guerra» quando denuncia «il 
                  prezzo di sangue che loccupazione impone su entrambe le 
                  parti di questa divisione», oppure quando si dichiara 
                  che gli ordini ricevuti di occupare i territori palestinesi 
                  sono in contraddizione con i valori e i principi di rispetto 
                  e tolleranza propri della tradizione ebrea e di Israele stesso, 
                  fino alla disobbedienza vera e propria: »Noi dichiariamo 
                  che non continueremo a combattere in questa guerra per la pace 
                  delle colonie, che non continueremo a combattere oltre la linea 
                  verde per dominare, espellere, affamare e umiliare un popolo». 
                 
                  
                  Smilitarizzare la società  
                 
                La lotta antimilitarista si estende sempre più e si 
                  coniuga con altre significative rivendicazioni anche perché 
                  la crisi economica che attraversa il paese è il frutto 
                  anche di una politica e di una ideologia che in questi ultimi 
                  tempi ha esaltato il ruolo dellesercito e degli armamenti, 
                  compromettendo anche un settore importante quale quello turistico. 
                   
                  «Donne in nero», «Bat Shalom» e altre 
                  associazioni, rivendicano sempre più il diritto a condividere 
                  «le risorse di questa terra, la sua acqua, i suoi vigneti 
                  e i suoi luoghi sacri», sempre più ampie fasce 
                  di popolazione rifiutano di risolvere i problemi attraverso 
                  la guerra, contestano una concezione della sicurezza basata 
                  sulla forza. Chiamano a raccolta altre persone chiedendo a tutti 
                  di concentrarsi su come vivere, adesso e lì, in pace 
                  e in solidarietà. Sempre più cresce la convinzione, 
                  non solo in medioriente, ma nelle popolazioni e negli intellettuali 
                  degli altri paesi, che solo unazione diretta e spontanea 
                  delle popolazioni può costruire un mondo diverso che 
                  preveda una maggiore meticcizzazione tra arabi ed ebrei. Finalmente 
                  si pensa, seppur ancora timidamente, che solo una soluzione 
                  voluta e scelta liberamente dalle popolazioni e non imposta 
                  dagli Stati, può costituire una vera alternativa a questo 
                  terribile stato di cose. In questa direzione, esemplificativo, 
                  seppure ancora timido perché troppo fiducioso nelle virtù 
                  del potere, è stato lintervento di Amos Oz (noto 
                  intellettuale ebreo) dalle pagine di un quotidiano italiano. 
                   
                  Da due anni, da quando è iniziata la seconda intifada, 
                  è aumentato in Israele il numero di obiettori di coscienza, 
                  e questo in un paese nel quale lesercito ha sempre avuto 
                  una considerazione straordinariamente importante, e di coloro 
                  che si sono rifiutati di prestare il servizio militare nei territori 
                  arabi occupati. Il dissenso verso la società israeliana 
                  così militarizzata è ormai più di un fenomeno 
                  isolato e si va definendo sempre più come vero e proprio 
                  movimento di contestazione globale (tra i disobbedienti cè 
                  addirittura il nipote dellex primo ministro Netanyau). 
                   
                  Un altro caso emblematico è quello di Avia Atai che si 
                  è rifiutata di prestare servizio nei territori occupati 
                  pur essendo in servizio di leva obbligatoria e tutta lattività 
                  di associazioni come «New Profile» o di «Talayush» 
                  che lottano a favore della smilitarizzazione dellintera 
                  società israeliana. Insomma gli esempi si moltiplicano 
                  e dimostrano che «come il seme sotto la neve» anche 
                  qui cova il desiderio spontaneo e irrefrenabile di libertà, 
                  pace e giustizia sociale e cresce, seppur molto faticosamente, 
                  la consapevolezza che occorre meno Stato (la soluzione dei due 
                  stati non risolverebbe il problema) e più contaminazione 
                  tra uomini e donne che si riconoscono in quanto tali prima che 
                  come «appartenenti».  
                  
                  Francesco Codello 
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