Rivista Anarchica Online


Medioriente

Dopo l’avventura irachena
di Antonio Cardella

 

Ci vorrebbe uno scatto visionario che abitui gli uomini a percorrere gli impervi sentieri dell’utopia. Il quotidiano, invece, ci offre le facce stralunate degli Chirac, dei Blair, degli Aznar (per tacer dei Berlusconi).

A poche settimane dalla conclusione dell’avventura angloamericana in Iraq, non è certo possibile tracciare un bilancio, anche provvisorio, sull’esito dell’impresa.
Alcune cose, comunque, sono chiare e confermano ampiamente le previsioni della vigilia.
Intanto non si sono trovate le armi di distruzione di massa, che avevano costituito l’alibi per l’avvio dell’invasione. E il fatto che i vincitori non si siano preoccupati di portarcele loro, non è un segnale di inefficienza, ma solo di arroganza: un modo come un altro di avvertire il mondo intero che la grande potenza americana non ha bisogno di alcuna legittimazione per fare quello che fa. Anche se, nel caso specifico, il venir meno della motivazione principale addotta per portare la guerra in Iraq avrebbe creato qualche problema interno agli alleati, come nel caso di Blair, colto con le mani nel sacco a falsificare o a modificare pro domo sua i rapporti dei propri servizi segreti.

Militari pessimi amministratori

Altra previsione puntualmente verificatasi è lo scatenamento dei conflitti etnico-religiosi sul territorio occupato: ce ne siamo occupati in un articolo apparso su questa rivista (n. 3 – aprile 2003) e non è il caso di tornarci se non per rilevare che gli occupanti non hanno (e non potevano) arginarne la portata. Pacificare un territorio conquistato non è obiettivo realizzabile senza il coinvolgimento di forze indigene organizzate che assicurino quanto meno la veicolazione corretta delle comunicazioni tra gli occupanti e la popolazione. Attualmente nessuna delle fazioni interne sembra disposta a far da sponda agli americani, che anzi sembrano sempre più invisi alla popolazione irachena. C’è, inoltre, il fatto, consolidato da precedenti storici significativi, che, una cosa è conquistare uno stato nemico, e ben altra amministrarlo a guerra conclusa. Tutti sanno che i militari sono pessimi amministratori e quasi mai sono in grado di assicurare il controllo del territorio, sia sul versante della normalizzazione delle regole della convivenza civile, che su quello dell’ordine pubblico.
Infine, la spinosa questione del petrolio. L’abolizione dell’embargo, decretato dall’ONU a metà maggio, ha, in effetti, concesso agli americani mano libera per affrontare e risolvere i complessi problemi che il settore propone. Come abbiamo già scritto, il controllo delle risorse energetiche del Medio Oriente è fattore decisivo per la realizzazione del disegno imperialistico degli Stati Uniti. Venendo a mancare questo punto strategico del piano, verrebbe meno la possibilità di ricattare eventualmente un’Europa che possa domani mostrarsi meno accomodante e che, realizzando un’unità economico-militare solida, possa porsi in concorrenza reale con la potenza a stelle e strisce. D’altra parte, un’esplicita operazione di possesso delle risorse energetiche irachene, da un canto, confermerebbe l’ipotesi avanzata da molte parti alla vigilia del conflitto secondo cui gli americani miravano al possesso puro e semplice del petrolio; dall’altro, scatenerebbe la reazione decisa, intanto dei paesi, Francia e Russia, che avevano ottenuto consistenti concessioni dal regime di Saddam Hussein e dalle altre nazioni che in varia misura dal petrolio iracheno dipendono; poi dagli stessi paesi arabi, Arabia Saudita in testa, che verrebbero a perdere in consistente misura il controllo dei prezzi sul mercato mondiale, con grave pregiudizio per i propri bilanci e la propria stessa sopravvivenza. Un crollo dei prezzi significherebbe un drastico ridimensionamento dei regimi arabi dell’area e un colpo mortale per le popolazioni che già vivono in condizioni assai precarie. Del resto, in alcuni documenti dell’amministrazione Bush si ipotizza un futuro col petrolio iracheno a 15 dollari al barile, con il conseguente crollo delle risorse degli altri produttori della regione, costretti a subire una concorrenza insostenibile.
Se si dà uno sguardo panoramico alle diverse realtà del Medio Oriente dopo l’occupazione angloamericana dell’Iraq, non si fa fatica a rintracciare un minimo comun denominatore di paura per il futuro, che non giova certo ad avviare processi di normalizzazione e meno che mai a promuovere percorsi verso un’evoluzione in senso democratico dei regimi, spesso ignobili, che dominano l’area. Naturalmente, quando parliamo di democrazia, non intendiamo riferirci al modello occidentale, che – a nostro giudizio – non è esportabile per infinite ragioni di ordine storico-culturale-religioso sulle quali sarebbe troppo lungo soffermarsi. Diremo soltanto, a questo proposito, che ci son voluti almeno due secoli perché la Vecchia Europa e gli stessi Stati Uniti si riconoscessero in un modello organico di strutture giuridiche e normative accettate dalla maggioranza delle popolazioni, secoli nel corso dei quali infiniti sono stati gli ostacoli che si sono opposti al processo: dalle monarchie assolute o costituzionali, alle dittature più feroci; dallo statalismo liberticida, alle oligarchie di varia natura che, di volta in volta, hanno pesantemente condizionato la vita delle nazioni. Non solo, ma secondo molti – e noi tra questi – a prescindere da qualunque altra considerazione di natura teorica, l’effettiva disparità di condizioni economico-sociali tra un sud ed un nord del mondo al quale apparteniamo (che si pretende il migliore dei mondi possibile), non consente obiettivamente una parità effettiva dei cittadini, che è poi la condizione essenziale perché democrazia ci sia.

Il più fedele alleato

La riprova di quanto sia attendibile ciò che diciamo è data dalla situazione in cui si dibatte in questi giorni l’Arabia Saudita. Il regime di Riyad è stato il più fedele alleato degli Stati Uniti. Ha ospitato oltre cinquecentomila soldati americani sul suo territorio ed ha costituito la base più solida delle operazioni militari in Iraq. A conclusione del conflitto, il regime saudita si è reso conto di quanto fosse impopolare continuare a mantenere sul proprio territorio, il territorio che ospita i principali luoghi santi dell’Islam, una forza militare straniera tanto consistente. Ha chiesto, così, agli americani cortesemente di andarsene, cosa che gli americani hanno fatto, subdolamente sottolineando, però, l’inessenzialità della loro presenza in Arabia Saudita dopo la caduta del regime di Saddam e, implicitamente, rimarcando la perdita di influenza del regime di Fahd ibn Abd el-Aziz in tutta l’area mediorientale. Non solo, ma, andandosene, gli americani hanno rincarato la dose, imponendo precise condizioni, non trattabili, perché l’amministrazione Bush possa continuare a considerare il paese alleato affidabile. Tra queste condizioni, il controllo più severo delle associazioni caritatevoli, alle quali si imputa il lauto finanziamento del terrorismo islamico, e la creazione di una comune intelligence finanziaria che sorvegli i movimenti di capitali sauditi.
Preso tra due fuochi – i diktat americani e l’insofferenza sempre più evidente della popolazione – il regime di Riyad ha abbozzato un progetto di liberalizzazione che dovrebbe portare a breve alla creazione di un parlamento rappresentativo di nomina non regia e all’approvazione di leggi che vanno nella direzione della salvaguardia dei diritti umani. Tutto bene, se il campione di questi mutamenti epocali non fosse il principe Abdallah ibn Abd el-Aziz, noto per il suo conservatorismo oltranzista.
Da questa situazione si evince quanto sia difficile parlare di democratizzazione e quanto siano impervie e divergenti le vie che si intendono percorrere per realizzarne una compatibile con la presenza di istanze laiche e religiose assai diverse dalle nostre.
Ritornando, comunque, all’intera area mediorientale, dicevamo della paura diffusa dovuta soprattutto alla presenza, ai confini più prossimi, di un esercito potentissimo, in grado di intervenire immediatamente laddove ritenga non siano soddisfatte le condizioni poste dalla potenza imperiale.
Ebbene, questo solo fatto ha determinato sconvolgimenti, che sono già evidenti, ma le cui conseguenze sono destinate a pesare sul futuro di questi popoli.
Intanto non sappiamo quanto i timori di un esplicito appoggio militare americano a Israele abbiano condizionato (e continueranno a condizionare) le trattative per una soluzione pacifica del conflitto israeliano-palestinese. L’interrogativo non è irrilevante per quantificare le riserve mentali con le quali i contraenti si siedono attorno al tavolo della pace.
Certo, si gioca una partita assai importante, nella quale è in discussione il prestigio delle tre amministrazioni protagoniste, quella americana in particolare. La quale, però, e appunto, ha dalla sua parte la possibilità di imporre una soluzione, gradita o meno che sia ai palestinesi.

Panorama poco rassicurante

Di questo si preoccupa Abu Mazen, il primo ministro palestinese, pressato anche lui dagli irriducibili di Hamas e della Jihad islamica, ai quali sa di dover portare molto di più di qualche promessa di smantellamento di insediamenti israeliani nei territori occupati. Ci sono i problemi di Gerusalemme e della diaspora palestinese, che hanno già fatto fallire le trattative che Clinton aveva promosso tra Arafat e Barak nell’ottobre del 2000.
Per il resto dell’area, il panorama è tutt’altro che rassicurante.
In Iran, i riformisti, che avevano iniziato un percorso di laicizzazione della società, si trovano ad essere risucchiati nel clima di «salviamo la patria», che non consente, non dico serenità di confronto con il potere religioso conservatore, ma neppure il dialogo non condizionato con un’opinione pubblica preoccupata di non incorrere negli stessi malanni del popolo iracheno. Il potere del presidente Khatami è fortemente indebolito a tutto vantaggio del vecchio volpone di Rafsanjani, che sembra riuscire a monopolizzare il dialogo con gli USA, i quali lo accreditano di un filoamericanismo assai funzionale alla loro idea di normalizzazione dell’area.
In Siria la situazione è assai più complicata. Il Presidente Bashar Al-Assad, sostenuto dal potere forte del Baath, ha imbracciato la bandiera del panarabismo contro l’invasione americana all’Iraq, spiazzando la stessa amministrazione Bush, che sulla prudenza della Siria contava e alimentando le tesi interventiste del Pentagono, secondo le quali il sostegno esplicito che i siriani hanno offerto agli Hezbollah libanesi, e più ancora l’avanzato stadio di nuclearizzazione del paese, inducono ad intervenire militarmente subito e con la massima decisione.
Sembra, quindi, che il diffuso senso di paura cristallizzi la situazione mediorientale, mettendo la sordina ai risentimenti e alle ostilità contro l’occupante.
È chiaro che si attendono gli sviluppi della situazione. Si attende di sapere quale sarà il comportamento americano nell’avviare a soluzione i pressanti problemi creati da una guerra disastrosa che ha letteralmente sconvolto l’Iraq, e quale assetto si vorrà dare al paese; come sarà risolta la questione del petrolio e, soprattutto, quale ruolo sarà riservato alle organizzazioni internazionali. Le quali, come è sotto gli occhi di tutti, escono da questa vicenda con le ossa rotte e con scarse prospettive di recuperare un decente livello di credibilità.
A questo proposito, il pessimismo è d’obbligo dopo l’ultimo colpo che Bush ha inferto al G8, sostando ad Evian solo il tempo per salutare un gruppo di amici dediti a giuochi infantili. Del resto, questa volta, non è che Bush abbia tutti i torti. Questi personaggi ormai si riuniscono per avviare futili discussioni sull’avvenire dell’economia mondiale, che i loro ministri e governatori di banche centrali non riescono a controllare, e sul sostegno, poi sistematicamente disatteso, da offrire al terzo mondo: di concreto, solo l’assegno lasciato dal capo della Casa Bianca, con gesto liberale. Di brevetti da abolire per curare le terribili epidemie in Africa, di protezionismi da abbattere per i prodotti dei paesi del terzo mondo, dei problemi gravissimi dell’acqua e del degrado ambientale, neppure una parola. Ha quindi ragione Bush nel ritenere il G8 un asilo nido per fanciulli ritardati e meraviglia che nei banchi di questo asilo si siano seduti personaggi come Lula, che tante speranze sta suscitando non solo in Brasile.
Meraviglia anche che il popolo dei new global lasci che i suoi appuntamenti siano cadenzati da questo gruppo di personaggi, declassati a guitti da avanspettacolo, (consentendo per di più, che un manipolo di violenti incrini la sua immagine provocando qualche «devastazione» nella città di Ginevra). Ma questo è un altro discorso, che, prima o poi, dovremo affrontare con la chiarezza necessaria.
Per adesso, ribadiamo che: nessuno di noi ha mai ritenuto che ONU, FMI, NATO e simili siano mai stati organismi capaci di regolare con un minimo di equità i rapporti internazionali. La loro decadenza, quindi, non ci fa versare lacrime amare. Ci sembra, però, che il modo con il quale l’amministrazione Bush li va progressivamente svuotando di contenuti, riveli la pretesa consapevole che Washington non ha più bisogno di interlocutori, che i suo obiettivi possono realizzarsi senza l’avallo di alcuno e che, in splendida autonomia, può regolare la sorte del resto del mondo.

Il Vecchio Continente

E, per concludere, qualche considerazione sull’Europa.
Se solo il Vecchio Continente avesse mostrato uno scenario meno caotico; se la contrarietà alla guerra di Bush fosse stata più corale e motivata; se anche da noi i comportamenti non fossero stati pesantemente condizionati da egoismi di bottega o da velleitarie istanze egemoniche, ebbene forse il mondo arabo avrebbe trovato una sponda per tentare di scongiurare la guerra e di ricompattarsi, intanto sulla necessità di far uscire di scena l’indifendibile Saddam Hussein, e poi di rendere meno credibile il teorema angloamericano che occorresse ridisegnare l’assetto dell’area per sconfiggere un terrorismo, che, allo stato attuale, nessuno ha dimostrato partisse da quel bacino mediorientale.
Ma parliamo di ipotesi di terzo grado, che i latini definivano «dell’irrealtà».
In una certa misura, il berlusconismo sta purtroppo divenendo una categoria dello spirito europeo. Non a caso Bush chiama quella di Berlusconi, di Aznar e dei derelitti dell’Est ex comunista la Nuova Europa: un’Europa priva di identità, accattona, in deficit di progettualità, incapace di comprendere il corso degli eventi.
In un generoso appello apparso su «Repubblica» del 4 giugno scorso Jacques Derrida e Jurgen Habermas hanno orgogliosamente rivendicato all’Europa la capacità di rifondare un diritto internazionale in grado di mediare le esigenze della globalizzazione dei mercati con la riaffermazione dei principi di giustizia sociale. Hanno anche rivendicato alla Vecchia Europa il ruolo di motrice per la realizzazione di un continente coeso sulla base di principi condivisi, e aperto alla partecipazione volontaria di altri partners. Tali privilegi deriverebbero dall’avere, la Vecchia Europa, attraversato, nel corso della sua storia, tutte le esperienze cruciali di una difficile convivenza civile: la nascita e la caduta degli imperi, le guerre di religione e quelle tra stati, il periodo orgoglioso delle colonizzazioni e quello mortificante della decolonizzazione, la violenza razzista e l’Olocausto: tutte vicende che, pur nella loro tragicità, o, forse, proprio per lenirne le conseguenze, hanno dato origine alla gigantesca compilazione del Diritto Romano e del Codice Napoleonico, che hanno costituito modello anche al di là dell’Oceano.
Tutto vero, tutto giusto e anche tutto molto bello. C’è in questa analisi qualche omissione di non poco conto. La principale è che non si è riusciti (nessuno è riuscito, neppure in via teorica), a garantire e promuovere la partecipazione attiva di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica: a partire dalla più piccola struttura di quartiere, via via sino ai massimi organismi decisionali.
Poi è sotto gli occhi di tutti che l’Europa vive ormai sotto il ricatto di un impero lontano e potente, che impone le sue leggi, anche con il ricorso alle armi.
Questo non significa che non vi siano vie d’uscita. Occorre, però, uno scatto orgoglioso e visionario che abitui gli uomini a percorrere gli impervi sentieri dell’utopia.
Il quotidiano, invece, riempie le prime pagine dei nostri giornali con le facce stralunate degli Chirac, degli Schroeder, dei Blair e degli Aznar per non parlare dei Berlusconi.
Occorrerà allora continuare a lavorare perché l’uomo, quello concreto, di corpo e d’intelligenza, si riappropri della propria esistenza e impari a condividerla con gli altri.

Antonio Cardella