Rivista Anarchica Online


gastronomia e anarchismo

Frammenti di viaggi in Patagonia
di Christian Ferrer

 

Sulle orme di quattro gruppi di "viaggiatori", tra cui l'anarchico Malatesta.

Le spedizioni
Quattro sono i punti cardinali e quattro i personaggi importanti che si addentrarono in Patagonia alla fine del secolo passato. Dal nord giunse il Generale Julio Argentino Roca, a capo di un esercito; dal sud l’anarchico Errico Malatesta, insieme ad altri due compagni di idee; dall’est, duecento emigranti gallesi che, in cerca di una nuova vita, giunsero a bordo di una nave chiamata Mimosa, una sorta di Mayflower per la regione del Chubut; infine dall’ovest, attraverso terre araucane, il francese Orllie Antoine de Tounens, nobiluomo di provincia caduto in rovina, in cerca di uno scettro e di una corona.
La Patagonia fu dunque invasa, rispettivamente, da un militare, futuro Presidente dell’Argentina; da un re da operetta; da un anarchico in fuga dal governo italiano; e, infine, da coloni, il cui capo, Lewis Jones, seguiva una vaga ideologia socialista di tendenza fabiana. Ciascuno di essi aveva in mente un certo modello di organizzazione collettiva: ai coloni corrispondeva l’idea di Comunità; all’autoproclamatosi Re di Araucania e di Patagonia l’idea di Impero; al Generale Roca l’idea di uno Stato-nazione e, infine, agli anarchici la Rivoluzione Mondiale.
Ciascuna di queste spedizioni patagoniche si lasciò dietro tracce storiche, emblematiche, spirituali e, addirittura, gastronomiche; tracce che, a eccezione dell’incursione statal-militare, svanirono progressivamente nell’oblio e che, per gli argentini di oggi, risultano del tutto inconsistenti, costituendo, al massimo, qualche curioso aneddoto. Queste vestigia storiche si trovano sepolte appena sotto la superficie: sopravvivono debolmente nelle leggende popolari della regione o nelle strane dicerie che, a volte, qualcuno richiama alla memoria. Ma questo è esattamente ciò che deve essere: lo Stato si occupa di promuovere il ricordo delle gesta compiute in nome dell’unificazione del territorio e di imprimerle nei programmi istituzionali diffusi nelle scuole e nelle università. Gli altri possono affidarsi soltanto alla pietà storica che si trasmette di bocca in bocca, a queste terrene concavità che proteggono la storia sociale di un popolo. In qualche caso, una sola persona al mondo è in grado di ricordare ciò che è accaduto.
A metà del XIX secolo, la Patagonia era sinonimo di territori sconosciuti, venti furiosi, spazi giganteschi, semi-popolati e mai misurati nella loro vastità; sinonimo di terra degli indios, Toltechi e Araucani. Circolavano ancora le improbabili leggende sull’esistenza di El Dorado, la città d’oro che affannosamente cercarono i conquistadores spagnoli, questa volta in uno degli ultimi territori inesplorati del Sud America. Distante dalla lunghissima costa, dove, di volta in volta, si erano insediati esploratori, balenieri o fornitori di quei pochi porti lì situati, l’interno della Patagonia era terra di nessuno, ovvero: di indigeni; era “La Terra”, così come la chiamavano gli Araucani, suoi primi abitanti. Soltanto alcuni pionieri e i sempiterni straccivendoli che commerciavano con gli indios, conoscevano alcuni dei suoi sentieri interni.
Nel XIX secolo, chi davvero governava la Patagonia era il vento, le cui veementi burrasche raggiungevano, nei momenti di splendore, i centoventi chilometri orari. Terminata la giornata, il silenzio trasparente e la notte australe, come specchi simmetrici, si fondevano soavemente. Patagonia era una parola scritta in una mappa vuota, che i governanti argentini, sollevati recentemente dall’impegno di una lunga guerra civile, sorvegliavano da Buenos Aires con ansia e ingordigia, preoccupati di eventuali recriminazioni da parte cilena o europea.

Coloni e soldati

Alcuni gallesi fuggivano dall’intolleranza religiosa; tutti, senza eccezione, dagli inglesi. Nel 1865, i coloni sbarcarono nel Golfo Nuovo e si addentrarono lungo la valle del Río Chubut. Lottarono contro gli elementi, ambientali e atmosferici, e fondarono villaggi lungo il fiume: Madryn, Rawson, Gayman, Trevelyn. Per anni, i loro vicini abituali non furono dunque gli argentini, ma gli indios toltechi, che, scrocconi di natura, chiedevano loro continuamente da mangiare e qualsiasi tipo di oggetto. Lo scambio avveniva in linguaggi intraducibili a Buenos Aires: gallese e tolteco.
Poco dopo essere arrivati, morì il primo dei coloni, che fu sepolto in un cimitero consacrato dietro la cappella protestante. Questo cimitero, ormai colmo, fu chiuso verso il 1930. Ciononostante, l’ultimo a morire degli emigranti originari fu seppellito ugualmente nel primo cimitero, riaperto esclusivamente per quest’ultimo, tra i primi. Poco a poco, i gallesi si americanizzarono e, col tempo, la valle del Río Chubut cominciò ad essere condivisa anche da altre correnti migratorie, inclusi gli stessi argentini.
Anni dopo, nel 1878, il governo argentino diede inizio all’occupazione finale della Patagonia, attraverso una subdola operazione militare, chiamata ufficialmente la “conquista del deserto”, ovvero la subordinazione allo Stato argentino degli originari possessori della terra. Per farla finita con “il problema degli indios”, fu inviato un esercito, a capo del quale vi era l’allora Ministro di Guerra Julio A. Roca, il cui mandato consisteva nell’oltrepassare la linea di frontiera con gli indios, stabilita decine di anni prima attraverso una serie di fortini, e sconfiggere quindi definitivamente le varie tribù ranqueles, pehuenches, pampas, mapuches e huiliches. Si trattava di 6000 soldati organizzati in 5 divisioni, contro 2.000 combattenti indigeni dispersi per il territorio. Ovvero, fucili e telegrafi contro lance e boleadoras. (1)
Il 25 di maggio del 1879, quando l’impulso bellico di quest’esercito aveva già lasciato terra bruciata dietro di sé e posto ormai fine al potere dell’ultimo “comando” indigeno, il Generale Roca decretò, presso le rive del Río Negro, la conclusione della spedizione. Erano morti 1.300 indios, ne erano stati catturati 10.500, e 55 milioni di ettari erano stati annessi al territorio dello stato argentino. Poco dopo, in quei territori fu fondata una città che mantiene ancora oggi il suo originale toponimo militare: Fuerte General Roca. Il successivo destino del Comandante fu quindi la politica, attraverso la quale, nei decenni seguenti, acquisì la fama di “grande arbitro”: militare o politico, Julio A. Roca rimase sempre un Uomo di Stato.
Ad ogni modo, l’occupazione definitiva della Patagonia comportò altri dieci anni di scontri con gli indigeni stanziati più a sud.

Il Re

Vent’anni prima, venendo dal Cile, un uomo solitario che sogna un impero tutto suo, attraversa dall’est la Cordigliera delle Ande. Ha trentacinque anni. È stato procuratore a Périgueux e, avido lettore di libri di geografia e di viaggi di esploratori, decide di andare in Sud America per tentare la sorte e per conquistare nuove terre. Nel 1858 sbarca nel porto di Coquimbo, in Cile. Nei due anni seguenti, prima ancora di metter piede nei territori dove vivevano allora gli Araucani – ignari delle intenzioni stataliste del governo cileno –, si dota già di una bandiera, di un blasone e di una costituzione per il suo futuro regno. Nel 1860, si addentra quindi nei territori araucani, insieme a due commercianti francesi, che solevano trafficare perline e coltivare cattive abitudini con gli indios, e ai quali promette la carica di futuri ministri del suo regno. Lentamente, in groppa a un mulo, giunge infine alla terra che egli stesso si era promesso.
Il 17 di novembre del 1860, dopo aver ottenuto un timido, quanto ambiguo appoggio da parte dei capi indigeni, Orllie Antoine emette un decreto dichiarandosi Re dell’Araucania. Subito dopo, invia una comunicazione postale diretta al Presidente del Cile, Manuel Montt, annunciandogli la buona nuova; notizia che il governo cileno decide di ignorare totalmente. Un re senza esercito, infatti, non costituisce un problema, per quanto egli sostituisca il suo cognome, Tounens, col primo numero romano. Tre giorni dopo, con un altro decreto, annette al suo regno l’intera Patagonia argentina, che battezza con il nome di “Nuova Francia”. La prima avventura araucana di Orllie Antoine termina quindi brutalmente nel gennaio del 1862, quando, tradito da due delle sue irrispettose guide cilene, viene catturato da un distaccamento militare. A quei tempi, infatti, il governo del nuovo presidente José Joaquín Pérez considerava con una certa preoccupazione la possibilità di una sommossa tra gli indigeni, alimentata e guidata da un fissato francese. Due anni di patetico regno e di arringhe agli indios si disfano quindi lentamente in una prigione cilena, dove Orllie rimane rinchiuso per nove mesi. Viene quindi giudicato e condannato alla reclusione nel Manicomio di Santiago di Cile, umiliazione da cui è risparmiato grazie all’opportuno intervento del Console di Francia a Valparaíso, che ottiene il suo rimpatrio in Francia.
Antoine I era stato detronizzato. Durante il suo “esilio” francese, dal 1862 al 1869, viene quindi fatto oggetto di scherzi o di curiosità; ma egli è davvero tenace nelle sue intenzioni: costretto in Francia, pubblica un giornale, divulga un manifesto, esaspera il senato francese con una petizione dopo l’altra.
Nel 1869, sbarca infine nella costa argentina della Patagonia, a San Antonio, e, dopo aver attraversato la pampa, sbuca nuovamente tra le tribù araucane cilene. Uno dei suoi accompagnatori si chiamava Eleuterio Mendoza, che meriterebbe certo essere il nome di un anarchico. Ricercato però dall’esercito cileno, attraversa nuovamente la cordigliera, ma nel senso opposto, e giunge quindi al porto di Bahía Blanca, quasi nello stesso luogo dove aveva intrapreso la riconquista dei suoi territori. Si era nel luglio del 1871.
Da Bahía Blanca, si dirige dunque a Buenos Aires, dove viene intervistato da diversi giornali. Tra questi, “La Tribuna”, organo politico del “roquismo”, che si sorprende ironicamente del fatto che il governo argentino “non gli abbia riservato la dovuta accoglienza dato il suo alto rango”. Nell’aprile del 1874, tenta per la terza volta di raggiungere i suoi sudditi. Da Buenos Aires viaggia, nella nave Pampita, fino a Bahía Blanca, dove viene riconosciuto, arrestato ed espulso rapidamente in Francia.
A partire da qui, Orllie visse in una corte di menzogne, attorniato da ministri senza potere e da avventurieri vari, che inauguravano le sedute della corte cantando a piene voci l’inno dell’Impero. Concedeva titoli nobiliari e vendeva monete coniate di un regno inesistente, di valore esclusivamente numismatico, non essendo accettate neppure all’interno della sua falsa corte come moneta di scambio. Curioso: quando si trovava tra i sentieri degli araucani, soltanto l’antico metodo del baratto gli permise sopravvivere.
Infine, perseguitato dai suoi creditori, si rifugiò nella regione di Dordogna, dove riuscì a guadagnarsi il pane quotidiano lavorando come venditore pubblico di lampade nel Municipio di Tourtoirac. Così, fino al 19 di settembre del 1878, quando il Re di Araucania e di Patagonia fu chiamato a visitare un regno superiore.

Orllie Antoine de Tounens (re di Araucania)

L’anarchico

Errico Malatesta nasce il 14 di dicembre del 1853, a Santa Maria Capua Vetere, una città di presidio. I suoi genitori erano modesti proprietari terrieri, di idee liberali. All’età di quattordici anni, scrive una lettera, insolente e minacciosa, diretta al Re Vittorio Emanuele II. La polizia prende molto sul serio tale corrispondenza: Malatesta viene arrestato e riesce a stento a mettersi in salvo. Il presagio di suo padre, in quell’occasione, non è certo dei più incoraggianti: “Povero figlio mio, mi spiace dovertelo dire, ma di questo passo finirai per essere impiccato”.
Non appena saputo dell’insurrezione a Parigi del 1871, aderisce alle idee dell’Internazionale e, diciassettenne, si reca in Svizzera per conoscere Michail Bakunin. Da quel momento diventa uno dei rivoluzionari più conosciuti del suo tempo. Pubblica il giornale “La Questione Sociale”, prima a Firenze, tra il 1883 e il 1884, quindi a Buenos Aires (1885-1886) e, infine, a New York, dal 1899 al 1900. Durante la sua vita, costituisce gruppi di compagni, sindacati e gestisce varie pubblicazioni, è a capo di insurrezioni, scrive alcuni brevi libri e, soprattutto, riesce a mantenere unita la “famiglia anarchica”, salvandola dalle sue tendenze centrifughe. Nel tempo, pubblica anche i giornali “L’Associazione”, “L’Agitazione”, “Volontà”, “Umanità Nova” e “Pensiero e Volontà”.
Malatesta passò trentacinque anni della sua vita in esilio, diffondendo “l’idea” in Spagna, Francia, Svizzera, Inghilterra, Portogallo, Egitto, Romania, Austria-Ungheria, Belgio, Olanda, Stati Uniti, Cuba e Argentina. Nel 1874 finì in carcere per la prima volta, per avere guidato un’insurrezione in Puglia. Tre anni dopo, a capo di una banda di anarchici, Malatesta occupò il comune di Letino, dove, in presenza dei contadini, destituì il Re Vittorio Emanuele e ordinò di bruciare i registri fiscali della regione. Insieme alla stessa banda, si diresse quindi verso il paese di Gallo, dove fecero abolire la misura attraverso cui si stimava l’imposta sul macinato. Per questo Malatesta fu nuovamente processato e condannato a tre anni di prigione, dei quali ne scontò soltanto uno. Ma ebbe poi occasione di “rifarsi”, passando diverse volte per le carceri.
Nel 1885, grazie al nome che si era ormai fatto negli ambienti anarchici, riuscì a evitare un ordine di arresto impartitogli da Firenze introducendosi in una nave, nascosto in una cassa che conteneva anche una macchina per cucire. Giunse così in Argentina, munito di un comune passaporto da clandestino. Una volta arrivato a Buenos Aires, si mise in contatto con gli anarchici italiani, riuniti nel Círculo Comunista Anárquico e, quasi immediatamente, riprese la pubblicazione de “La Questione Sociale”, distribuita gratuitamente e della quale uscirono quattordici numeri. In questa città lavorò inizialmente, insieme al compagno Natta, come meccanico elettricista, in un’officina di sua proprietà che poi fallì; quindi si occupò della produzione di vino. Rimase in Argentina fino al 1889.
Durante tutta la sua vita, per metà passata tra carcere, esilio e arresti domiciliari, Malatesta si distinse per il suo senso pratico e per le sue capacità organizzative e propagandistiche. Non fu mai un sognatore: rimase sempre convinto che la volontà umana era più importante della “inevitabilità storica” della rivoluzione e che nessuna formula utopistica poteva sostituirsi all’analisi precisa delle congiunture storiche. E, tuttavia, anche lui finì per addentrarsi in Patagonia.

Errico Malatesta

Geografia spirituale

Bussole, teodoliti e astrolabi sono oggetti indispensabili a cartografi ed esploratori; e, pure, a proprietari terreni e governanti. Ciononostante, la terra è stata anche luogo di carovane nomadi, di spedizioni perdute, di vagabondaggi, diaspore, odissee ed esodi. Lo spazio fisico non costituisce un dato materiale costante: al contrario, è una sorta di argilla costantemente attraversata e modificata dalle diverse leggi che regolano gli spostamenti dell’uomo nello spazio; leggi, la cui giurisdizione è determinata tanto dallo sforzo e dall’immaginazione, quanto dalla sorte e dalle resistenze della natura. All’interno di queste quattro condizioni, si fanno strada sia le spedizioni di uomini solitari, sia quelle di truppe organizzate.
Così come alcuni prevedono il proprio destino su un portolano o scrutando la rosa dei venti, altri avvistano la propria rotta tra i manifesti o nelle voci diffuse nelle città. Tra gli uomini e lo spazio esistono segrete corrispondenze, che il cartografo farebbe bene a tener presente: paralleli insospettati e capricciosi meridiani. Dove potrebbe mai essere ubicata la sezione aurea, il “numero d’oro” dei pittori rinascimentali, che possa aiutare a determinare le proporzioni di un atlante spirituale? L’aria di famiglia che spira tra uomini e territori appartiene all’ordine degli elementi la cui corrispondenza può essere elevata al rango di principio cosmogonico. Potremmo definire questa corrispondenza “cartografica” con il nome di geografia spirituale. Si tratta di una scienza che, senza rinunciare alla storia e all’economia, permette di scorgere e ritrovare i passi perduti, i sentieri dimenticati, le rotte ormai inutilizzate e, soprattutto, di una scienza che intreccia gli atlanti immaginari (letterari, utopici, leggendari) ai drammi biografici.
L’immaginazione si sovrappone alla materia e la condiziona; sia di esempio la toponimia in Patagonia, che manifesta da sé la straripante creatività linguistica di esploratori e pionieri: la vena umoristica e il delirio si uniscono all’elemento agiografico e alla simbologia statale.
Nelle mappe di geografia spirituale non ricerchiamo energie cosmiche, né nuovi orizzonti turistici; piuttosto, la materia emozionale che un attento storiografo dovrebbe sempre riscattare dalle macerie, dai documenti e dai racconti orali. Un bravo cartografo deve imparare a diffidare delle misurazioni precise, poiché a ogni spazio fisico corrisponde un atlante simbolico. Questa geografia parallela potrebbe costituire la psiche della cartografia, così come l’“elemento spirituale” di ogni nazione. A ciascun paese corrispondono territori leggendari, dei quali sarebbe totalmente inutile determinare in maniera positivista i meridiani e i paralleli. Il Brasile dispone dell’Amazzonia; l’Africa del Nord, del suo Sahara; la Russia, della Siberia; l’India, dell’Himalaya; il Canada, dello Yukon. L’Argentina possiede la sua Patagonia. E a ciascuna di queste regioni leggendarie, corrispondono “tipologie caratteriali” ben definite: la figura dell’esiliato, alla Siberia; il tuareg, al deserto; l’alpinista, all’Himalaya; il garimpeiro all’Amazzonia; il cercatore d’oro, allo Yukon e, infine, il pioniere, alla Patagonia. La città non concede questo genere di visti alla vocazione dei suoi abitanti; offre giusto quei tesserini necessari al buon funzionamento della circolazione urbana. Di più: la globalizzazione mediatica, finanziaria e tecnologica, ha fatto sì che tutte le grandi città del mondo si ricalchino oggi reciprocamente.
Uomini come Malatesta, Orllie Antoine o come i coloni gallesi, cercavano conferma all’idea secondo cui nelle grandi distese territoriali vi si trova la libertà. Ma non una libertà di tipo metafisico. Qui è necessario creare dal nulla l’inventario di una geometria imperfetta: mancano catasti, frontiere, pietre miliari, piazzeforti, segnaletica. La natura non è però propizia alla libertà geografica perfetta, che è gelida. Incoraggiare il “lirismo” della libertà nelle spedizioni, piuttosto che l’ “idea nostalgica” dei pionieri e di altri uomini di frontiera, risulta infatti sterile, poiché, se questi esempi servono davvero a qualcosa, è soltanto per indurci a riflettere sull’impulso centripeto degli ultimi cent’anni, ovvero sulla progressiva incapacità dell’uomo di anelare e immaginare libertà. Al contrario, la preferenza per luoghi leggendari d’indole acefala – ovvero, privi di un ordine gerarchico a presidiarne i territori –, libera il nostro sguardo affinché questo possa scorgere la crepa in ogni armatura, la sbavatura nell’elmo, la smorfia grottesca che qualsiasi testa incoronata infine possiede.
Certe superfici del pianeta sono legate intimamente tra loro, per quel conservare meandri, accessi e paesaggi in cui nessun uomo ancora ha messo piede. Tuttavia, i veri nemici delle terre vergini non sono tanto i primi uomini che vi accedono, quanto piuttosto lo Stato. L’esploratore è sempre stato un Anticipatore del Verbo: nomina i fiumi, classifica la flora e battezza i confini; è però poi l’agrimensore, notaio statale, a misurare, calcolare e diagrammare il terreno. Ma gli esploratori, i misantropi, i reprobi, arrivano comunque prima.
La Patagonia, anche attualmente, manca di una storia; dispone solamente di storie, che il sistema pedagogico nazionale evita accuratamente di evocare e che possono essere riscattate soltanto dai mormorii che il vento porta via con sé. La storia di Malatesta è solo una tra le tante. Le dimensioni di una cartografia popolata da storie devono essere stabilite a misura d’uomo, prendendo in considerazione il modo in cui la geografia di un luogo determinato esercita una certa influenza sul destino di coloro che vi si addentrano; ma non tanto come condizione topografica o economica, quanto piuttosto come “agente stimolante” per l’attivazione di certe mansioni, o come “impulso risolutivo” nei confronti di forze spirituali in tensione.
Il dramma personale e l’ambiente naturale in cui esso si svolge, formano i due bracci del compasso attraverso cui è tracciato l’arco spirituale di questa geografia parallela.

Il generale Julio A. Roca

Oro e anarchia

I recinti di filo spinato e i decreti per la creazione di governatorati costituiscono l’inevitabile conseguenza dell’anteriore, caotico, popolamento pioniere di un territorio. Dopo, molto più tardi, si cominciano a sfruttare le ricchezze naturali della regione. Questi luoghi ameni, infatti, prima di apparire nei rilevamenti statistici e negli atlanti fiscali di un paese, offrono una sola ricchezza, che, sin dall’antichità, attrae a sé veri e propri sciami di uomini sfavoriti dalla ruota della fortuna. Ancor più della fame o della ricerca di “nuove opportunità”, ancor più dell’esodo obbligato, per una guerra civile, o a causa di persecuzione religiosa, ciò che sin dai tempi antichi ha davvero determinato le migrazioni umane, sono i metalli. Una storia del nomadismo ci potrebbe mostrare la mappa degli spostamenti di fabbri e metallurgici, dall’Età del Ferro in poi.
A nord del Canada, e così nel sud dell’Argentina, l’oro rimase per secoli nascosto, come in letargo, ma chi ricerca la Città dei Cesari prima o poi ne incontra inevitabilmente le detritiche rovine. A ogni modo, la storia delle grandi città sviluppatesi grazie allo sfruttamento di un’unica risorsa, è la stessa storia dell’effimera febbre dell’oro. Queste città vengono costruite, vanno in decadenza, sono abbandonate e, infine, dimenticate. Samarcanda, Petra, Timbuctù, Potosì, Nantuckett, Iquique, Manaos. Villaggi-accampamenti, villaggi di passaggio, villaggi fattorie, villaggi fantasma.
Nel 1882, alcuni coloni gallesi avevano scoperto l’oro presso le rive del Chubut, nella Valle del Tecka. La notizia giunse mesi dopo a Buenos Aires. Ma, in realtà, presso il Chubut si era trovata soltanto pirite, un metallo splendente ma di nessun valore, il cosiddetto “oro dei tonti”. Non si ebbe il tempo di organizzare una vera e propria fuga di avventurieri verso la Patagonia, ma vi fu lo stesso molta gente che prestò ascolto a tali storie.
Tre anni dopo, venne dichiarata la presenza di oro, in quantità accettabili, nel Capo Virgenes del Territorio di Santa Cruz, molto più a sud rispetto al Chubut. Malatesta, profugo anarchico, si entusiasma per la notizia e, insieme a due compagni, inizia a costruire castelli in aria. L’oro: Errico Malatesta viaggiò verso l’estremo sud della Patagonia, dietro a un tale palindromo. Che cosa mai ci facevano tre anarchici a setacciare la Patagonia in cerca di oro? Malatesta aveva capeggiato un paio di insurrezioni, poi fallite, in Italia, a causa delle quali fu obbligato, per la distruzione di nomine fiscali e di simboli municipali, a fuggire in esilio. Giunto a Buenos Aires, aveva tentato, inizialmente, di incoraggiare all’azione sindacale, ma con scarsi risultati. Era ancora giovane, parlava a malapena il castigliano, si trovava confinato in un porto lontano ed essendo ancora sconsigliabile un suo ritorno in Europa, probabilmente pensò che non aveva nulla da perdere nell’andare in Patagonia alla ricerca del suo peculiare El Dorado, per l’onesto scopo di finanziare, con i lingotti patagonici, un’imponente rivoluzione mondiale.
L’immaginazione dei rivoluzionari è solita spingerli verso splendide aurore, così come a progetti spropositati e persino alla catastrofe. Le avventure aurifere del XIX secolo attirarono numerosi utopisti e carbonari: non pochi di coloro che fuggivano in seguito alla fallita rivoluzione francese del 1848, accorsero in California attratti dalla febbre dell’oro.
Ma la febbre dei tre anarchici durò un soffio: la spedizione terminò, infatti, in un vicolo cieco. I giacimenti auriferi erano per la maggior parte sotto il controllo di una compagnia sfruttatrice, di notte la temperatura si abbassava fino ai 14 gradi sotto zero, vi erano poche speranze di trovare un’altra zona altrettanto ricca, e giunse quindi il momento in cui i tre anarchici si stancarono infine di sopravvivere dando caccia alle nutrie marine. Sette mesi dopo essere arrivati, nel bel mezzo dell’inverno, gli anarchici decisero di abbandonare la zona in seguito ad avventure per nulla promettenti: morirono quasi di fame e dovettero essere messi in salvo da una nave, come naufraghi, e fatti sbarcare infine nel villaggio di Carmen de Patagones, in provincia di Buenos Aires.
Una volta arrivato a Buenos Aires, Malatesta si dedicò ad attività propagandistiche, mentre uno degli altri due falliti aspiranti minatori si occupò della falsificazione di denaro. Questi mesi passati nel sud della Patagonia costituirono, in realtà, un eccentrico episodio nella vita di un rivoluzionario che, per lo più, si comportò in maniera sempre piuttosto sensata.
Quando Malatesta, mezzo morto di fame, tornò a Buenos Aires, tenne subito conferenze in italiano nella Libreria Internazionale di E. Piette, nel Circolo di studi Sociali e nella sala congressi del Club Vorwärts. Nel 1886 collaborò a organizzare il primo sindacato argentino moderno, quello dei fornai (2), preparando loro lo statuto. Nel 1888, partecipò al primo sciopero di fornai del paese, che durò dieci giorni e finì in un trionfo. Un anno dopo, infine, ritornò in Europa dove più avanti, dopo aver passato innumerevoli giorni di carcere in molti paesi, sarà a capo del movimento anarchico italiano. Quando morì, nel 1932, erano già diversi anni che si trovava agli arresti domiciliari impostigli da Mussolini.

La febbre

A volte, la geografia tira dei brutti scherzi agli statisti: l’oro delle Yukon si trova a pochi chilometri dall’Alaska, territorio nordamericano. Ma i ricchi, in un modo o nell’altro, vengono poi sempre ricompensati: decenni dopo si scoprì la presenza in Alaska di oro nero. E prima ancora i russi si erano arricchiti con la carne di balena e con le pelli di grandi roditori e di cervidi. In cambio, alla plebaglia, ai pezzenti, ai paria e al proletariato, non rimane altro che ricorrere alla scommessa e all’illusione. Non di rado, ciò conduce al vaneggiamento: l’oro e la febbre sono difatti siamesi inscindibili. La febbre dell’oro, pellicola del comunista Charlie Chaplin sulla corsa all’oro nello Yukon, e il libro dell’anarchico B. Traven (Rett Marut), Il tesoro della Sierra Madre, dal quale è tratto il film di John Houston, costituiscono due desolanti analisi delle conseguenze che comporta questa droga di polvere. Molti di quelli che peregrinarono in direzione dello Yukon, morirono di fame già durante la traversata verso il gelido nord e quelli che invece vi ci arrivarono, dovettero infine ritornare alle antiche attività di caccia e di commercio di pelli.
In Patagonia, l’oro raccolto era appena sufficiente per sopravvivere ed estrarlo comportava un lavoro estenuante. In fondo, anche l’oro trovato nelle zone aurifere può essere considerato un “oro dei tonti”: nella storia centenaria della febbre dell’oro, infatti, soltanto pochi riuscirono davvero ad arricchirsi. La maggior parte trovava solo quelle pepite sufficienti a vivere oziosamente qualche giorno, per poi dover tornare a setacciare le acque del fiume. L’unico posto in Patagonia dove si trovò oro in abbondanza, fu l’isola della Terra del Fuoco. Lì, tra il 1880 e il 1890, lo stravagante rumeno Julius Popper estrasse una buona quantità di oro, si dotò di un esercito, coniò moneta e francobolli, fino a che una morte prematura gli evitò l’inevitabile scontro con il governo argentino.
A Santa Cruz, l’unico filone davvero valido è in realtà costituito dal bestiame ovino. Ma il vello non è d’oro.
E poi, alla fine dei conti, nei forni anche l’impasto di farina s’indora nel farsi pane.

In carattere tipografico

Ciascuna spedizione ebbe il suo cronista personale. Al generale Roca si dedica tutta la storia ufficiale, in particolare i bollettini di guerra della campagna militare inviati a Buenos Aires. Il suo partito politico disponeva di un proprio giornale, “La Tribuna”. Al giorno d’oggi, il nome del generale Roca si ripete in tutti gli accessi a una delle strade più importanti di Buenos Aires e il suo volto illumina il biglietto da 100 pesos, la più alta valuta argentina. Ciò non dovrebbe sorprendere: la toponimia del territorio, così come l’arte statuaria urbana e l’effigie grafica ufficiale, sono privilegi riservati allo stato. Tuttavia, l’immagine monetaria costituisce, perlomeno, una gloria effimera: in Argentina, infatti, l’inflazione è solita consumare assai celermente il valore della moneta.
Malatesta lasciò una breve testimonianza (3) e, più tardi, il suo biografo, Luigi Fabbri, ne racconterà l’avventura aurifera in un capitolo della biografia dedicata al rivoluzionario italiano. (4)
Il Re Orllie Antoine I, invece, si vide obbligato a essere il redattore delle proprie stesse gesta: in un libro in francese intitolato Orllie Antoine I, roi d’Araucanie et de Patagonie. Son avènement au trône. Relation ècrite par lui même, (5) possiamo ritrovare, ingigantita, la storia dei fatti riguardanti il suo fiasco imperiale. Cinquant’anni dopo, il possidente Armando Braun Menéndez sarà il primo a occuparsi di recuperare e correggere in un libro la grottesca storia del Re e, più tardi, qualcuno ne farà invece un film. (6) Inoltre, nel tempo trascorso tra il suo primo ritorno in Francia e il suo secondo viaggio in Patagonia, Orllie Antoine pubblicò a intermittenza un giornale a Marsiglia, “La Corona di Acciaio”, destinato a difendere la sua causa e che costituiva una specie di bollettino ufficiale di un regno inesistente.
Lewis Jones, in gallese, scrisse invece la storia dei coloni, Una Nueva Gales en América del Sud, tradotta in castigliano verso gli anni ’60. Ma, prima ancora, fondò il giornale “I Dravod” (La Verità), pubblicato nel Chubut in gallese, cronaca giornaliera dell’esperienza dei coloni.
Pur anche dimenticate le biografie, i giornali faziosi e le testimonianze, tuttavia queste leggende continuano a persistere in altre forme, secondo altri stili. È risaputo, infatti, che tra i tavoli nei bar circolano sempre una serie di aneddoti curiosi su personaggi ed eventi a malapena conosciuti. Tutto ciò finisce di norma col costituire semplicemente una “condivisione sociale delle dicerie”, anche se, a volte, si trasforma pure in sostanza letteraria, materia prima di certi scrittori. Roberto Arlt, per esempio, deve aver ascoltato la storia della spedizione fallita di Malatesta, in uno dei tanti bar della capitale. È rinomata, del resto, la sua simpatia per l’anarchismo.
Malatesta, che, ormai anziano, era conosciuto come il “Lenin d’Italia”, non seppe dunque mai, né avrebbe certo potuto sapere, che il suo aneddoto biografico sarebbe stato più tardi inserito in un romanzo intitolato Los Siete Locos, trasfigurato nella forma di un personaggio che si propone di finanziare la rivoluzione mondiale attraverso una catena di postriboli.

Tragedia

Nel 1921, la Patagonia costituirà lo scenario di uno dei più noti drammi della storia anarchica. Quest’episodio tragico garantì l’accesso alla regione nell’atlante storico della rivoluzione. Negli scioperi e nelle insurrezioni che avvennero allora nel Territorio di Santa Cruz, morirono infatti più di mille lavoratori. Ad ogni modo, ancor oggi la Patagonia attrae l’immaginazione anarchica. Osvaldo Bayer, cronista delle gesta anarchiche del 1920 e del 1921, (7) reclamò nel 1996 l’indipendenza della Patagonia, (8) proposta che gli assicurò l’avversione da parte del Senato Nazionale, dove fu minacciato e dichiarato persona non gradita.
A ben pensarci, è però del tutto logico che si riscontrino anarchici in tutte le audacie febbrili della storia. In quella della Febbre dell’Oro essi sono presenti. La terra promessa è sempre Terra Nova, ma i precursori che vi giungono, presto scoprono che il loro cammino si è svolto troppo rapidamente, che si sono spinti eccessivamente in là e che già è tardi per tornare indietro sui propri passi. Ironicamente, gli anarchici, quando ancora costituivano un pericolo, incappavano generalmente nel carcere di Usuahia, istituzione che procurò alla Terra del Fuoco l’infamante nomea di “Siberia Argentina”, l’Isola fredda del Diavolo. (9)

Effetti

Il 2 aprile del 1982 l’esercito argentino diede inizio improvvisamente alla conquista dell’unica porzione di territorio patagonico che, cent’anni prima, era rimasto al di fuori delle sue possibilità. Appena cominciata la Guerra delle Malvinas, la collettività gallese del Chubut prese immediatamente le parti della causa argentina. Ciò che motivò questa preferenza politica e soggettiva, non furono solamente le tre generazioni ormai nate in terra di Patagonia. I gallesi, infatti, ancora ben ricordavano l’antica oppressione che il Galles dovette subire da parte degli inglesi, i quali arrivarono addirittura a proibire l’uso pubblico dei nomi propri scritti in gallese; condizione di cui essi si poterono riappropriare solo una volta giunti in Argentina.
A loro volta, i modesti gruppi anarchici locali costituirono insieme uno dei pochissimi gruppi all’interno della sinistra a manifestare contro la guerra.
In quel tempo, nello stesso momento in cui la flotta inglese navigava verso l’Atlantico del sud, una piccola nave attraversò La Manica in direzione delle Isole del Canale, che si trovavano sotto la sovranità inglese. All’alba, l’erede del Regno di Araucania e di Patagonia, insieme al suo scarso seguito, piantò la bandiera del Regno nella spiaggia della Isola di Guernsey. Il re francese in esilio aveva deciso di protestare contro l’intenzione inglese di appropriarsi delle sue “Illes Malouinas”, che considerava appendice insulare del suo enorme, sebbene proibito, regno.
Molto tempo prima, il 10 maggio del 1886, il Presidente Julio Argentino Roca si diresse camminando, insieme a tutti i suoi ministri e seguito dalla scorta militare, verso il Congresso della Nazione. Poco prima di affidare il comando al suo cognato Miguel Juàrez Celman, si apprestava a inaugurare il XXVI periodo di sessioni del Parlamento Argentino. Da lì, avrebbe quindi rivolto al paese il ricorrente e tradizionale messaggio. Allora, il Congresso operava in un edificio che era stato di proprietà della famiglia Balcarce e che, dopo, diverrà sede del Banco Hipotecario Nacional. Erano le tre di pomeriggio. In quel momento un anarchico chiamato, paradossalmente, (10) Ignacio Monjes, emerse dalla folla e si avventò su Roca, colpendolo al volto con una pietra. Mentre Roca cadeva a terra, Carlos Pellegrini, suo ministro di guerra e futuro presidente, colpì e immobilizzò l’aggressore. La ferita era lieve e già durante il Congresso furono somministrate al Presidente le prime cure da parte del ministro della salute, Eduardo Wilde. Tralasciando i cerimoniali, Roca diresse ugualmente il suo messaggio al paese. La scena fu immortalata in un quadro che ancor oggi può essere contemplato nel Salón de los Pasos Perdidos del Congresso. Ignacio Monjes passerà dieci anni della sua vita in carcere.
Sessant’anni dopo, Laureano Riera Díaz, ultimo dirigente anarchico del sindacato dei fornai, parte, dopo aver perso la carica di dirigente, insieme con altri compagni di idee alla volta di Barcellona. Era il 1936 e in Catalogna non erano solo i fornai ad essere anarchici: l’intera città era disseminata di bandiere rossonere.

Gastronomia

Coloro che s’addentrano in un territorio sconosciuto devono sottostare a una prova ulteriore, una delle più fondamentali: la prova della fame. Troppe volte mangiare e sopravvivere diventano verbi omonimi. Il cibo, a eccezione dell’esercito organizzato di Roca, non era infatti garantito né ai pionieri, né al re senza corona, né, infine, ai tre anarchici. Di ognuna delle quattro spedizioni in Patagonia, è opportuno distinguere la specifica prassi gastronomica, che, in fin dei conti, costituirà l’unica forma di alimentazione durevole.
Di imperi antichi e di linguaggi un tempo diffusi in aree estese, oggi perdurano soltanto rovine e incomprensibili scritture. E, tuttavia, le consuetudini culinarie di queste civiltà sopravvissero senz’altro nelle successive riorganizzazioni geopolitiche e nella popolazione, pur avendo questa nel frattempo cambiato le proprie divinità, la propria tecnologia e il proprio alfabeto.
La relazione tra la cultura gastronomica e il territorio in cui essa si produce, è determinata dalla quantità di specie animali e vegetali che, al momento della creazione, gli è toccata in sorte. Dipende anche dal clima, favorevole o meno, e dalla volontà di apprendistato e di adattamento di un popolo. Ma per coloro che si mettono in cammino la sopravvivenza dipende certo più dalle provviste a disposizione, dalla bontà degli estranei e dalla sorte.
Indubbiamente, i coloni gallesi vissero di ciò che seminarono e raccolsero nella regione del Chubut, così come Orllie Antoine e i tre anarchici, durante il tragitto, si videro sicuramente obbligati in qualche occasione a ricorrere alla caccia e alla pesca, saziandosi quindi con bistecche di guanaco e porzioni di “picana” di struzzo. (11) Tuttavia, senz’altro ognuno di essi diede anche un impulso innovativo in materia gastronomica.
Artemio Gramajo, aiutante di campo del Generale Roca durante l’incursione in Patagonia, inventò per il suo comandante l’unico piatto attualmente riconosciuto come autenticamente argentino nei più raffinati ristoranti parigini: il “Revuelto Gramajo”, così chiamato in onore del suo ideatore. Mentre i soldati erano costretti a masticare la propria razione giornaliera di charqui, carne secca con cui si nutriva la truppa, Roca si leccava i baffi, entro i dovuti limiti, di fronte a un piatto sopraffino. Il revuelto gramajo, miscuglio di patate fritte, uovo, cipolla, aglio, prosciutto, piselli e spezie, è, a tutt’oggi, un piatto assai gradito da bambini e adolescenti argentini.
La colonia gallese del Chubut tramanda ancora alle generazioni successive la ricetta della Torta Gallese. Originalmente riservata alla festa di matrimonio, la torta gallese, di consistenza dura e ripiena di frutta secca, è una delle tipiche offerte turistiche della regione. Quando una coppia gallese si sposava, mangiava solamente una piccola porzione di torta, per conservarne il resto in una confezione ermeticamente chiusa che veniva riaperta in occasione dei seguenti anniversari, come prova della forza e della persistenza del vincolo amoroso. È una dieta possibile per innamorati, ma decisamente insufficiente per un re. Gustave Laviarde D’Alsena era uno dei luogotenenti di Orllie Antoine I, ed era anche suo cugino di secondo grado. Designato come successore, alla morte del fondatore della dinastia impugnò lo scettro col nome di Aquiles I. Già da prima, si attribuiva altri titoli nobiliari conferitigli dal Re di Patagonia, come, per esempio, quelli di Principe degli Araucani e Duca di Kialeú. Nonostante si arrogasse numerosi titoli nobiliari di un impossibile regno d’oltremare, Aquiles I non mise mai piede fuori da Parigi. Nel suo “esilio” parigino, distante dalle sfruttabili ricchezze del suo regno, e mentre si ostinava a denunciare l’usurpazione da parte del governo cileno dei suoi territori, il nuovo monarca si vide costretto a terminare i suoi giorni come ospite stipendiato da Le Chat Noir, un cabaret di moda a Parigi verso la fine dell’800, dove svolgeva la funzione di numero “sensazionale” per i clienti. Quando mori, nel 1902, aveva regnato per ben un quarto di secolo su un territorio la cui mappa veniva consultata soltanto da una setta e al cui centro era segnalata unicamente “Mapú”, la frazione indigena scelta dal suo predecessore come città capitale del regno.
Nel 1889, Errico Malatesta abbandona l’Argentina, lasciandosi dietro il combattivo Sindacato dei Fornai che egli stesso aveva contribuito a organizzare. Oltre al pane, nelle panetterie argentine si vendono anche quei prodotti di pasticceria con cui usualmente fanno colazione gli abitanti di Buenos Aires: le “brioche”, di gusto dolce, cotte in forno, e composte di farina, lievito e burro. Alcune di esse sono di origine europea, ma prodotte in Argentina hanno assunto forme peculiari e soprannomi allusivamente blasfemi. Forse, la storia dell’invenzione di una delle più note tra queste brioche, la “mezza luna”, può illuminare sul significato sarcastico dei nomi scelti.
Quando, nel 1529, Vienna fu assediata lungamente dall’esercito turco, i pasticcieri locali, per animare l’avvilito umore della popolazione, presero l’emblema degli assedianti, la mezza luna che sventolava nelle bandiere dell’accampamento nemico, e, sotto forma di dolce, lo infornarono. Il popolo si riuniva quindi attorno alle mura della città e si esibiva, di fronte agli irritati soldati turchi, nell’atto del masticare il loro sacro simbolo. Bestemmia e gastronomia.
A loro volta, questi prodotti di pasticceria argentina possiedono nomi come “cannoni”, “bombe”, “guardie”, “palle di frate”, “sospiri di monaca” e “sacramenti”, per farsi beffe, rispettivamente, dell’esercito, della polizia e della chiesa. Vi sarà forse stata una segreta cospirazione da parte dei panettieri anarchici per assegnare nomi blasfemi ai loro prodotti? In effetti, è il caso di pensarlo: il legame tra parola e cibo pare sempre stretto attorno a questioni ideologiche. Il sindacato dei fornai fu guidato, per vari decenni, da dirigenti anarchici.
Le abitudini alimentari che ognuna delle quattro spedizioni si lasciò dietro, furono il risultato della nostalgia (la Torta Gallese), del fallimento (la vivanda settimanale ne Le Chat Noir), dell’urgenza (il Revuelto Gramajo) e della volontà di protesta (le Brioche).
Ma ormai è passato tanto tempo e gli abitanti attuali di Buenos Aires non riconoscono più nei nomi di prodotti che così spesso consumano nelle loro colazioni, quell’inquietante richiamo: d’altra parte, raramente riflettiamo sul vincolo tra nome e forma, tra parola e cosa, e ancor meno pensiamo alla relazione tra l’origine politico-linguistica e le abitudini alimentari. Le parole tendono a ossidarsi nell’uso quotidiano e ciò che un tempo poteva costituire scandalo, oggi è pura consuetudine.
Da parte sua, l’anarchismo argentino è rimasto stretto nei limiti di una minima presenza politica e la sua udibilità è davvero scarsa. E, tuttavia, ogni volta che mangiamo una brioche, il suono di ciò che in altri tempi fu sedizioso sarcasmo popolare, riecheggia ancora tra i denti.

Christian Ferrer
(Traduzione dal castigliano di Susanna Fresko)

Note:
1. Laccio con palle di cuoio per atterrare il bestiame (NdT).
2. In realtà, esisteva già un sindacato dei tipografi a partire dal decennio attorno al 1870, sebbene fosse ordinato secondo modalità più classiche, alla maniera delle organizzazioni corporative che offrivano mutua assistenza e formazioni professionali.
3. Il documento fu pubblicato come prologo al libro di Max Nettlau, Errico Malatesta. La vida de un anarquista, Buenos Aires, Ed. La Protesta, 1923.
4. Malatesta, Buenos Aires, 1954.
5. Pubblicato a Parigi nel 1863. Prima di morire, Orllie tornerà nuovamente a redigere un documento a favore del suo regno, Araucanie, pubblicato a Burdeos nel 1878.
6. El reino de Auracanía y Patagonia, EMECE Editores, colección “Buen Aire”, Buenos Aires, 1936. È davvero curioso che Braun Menéndez, membro di una delle tre famiglie più ricche della Patagonia, abbia raccontato la storia del re povero. Per quanto riguarda la pellicola, intitolata Il film del Re, essa esordi nel 1986 e fu diretta da Carlos Sorín, sulla base di una sceneggiatura da lui stesso scritta in collaborazione con Jorge Goldemberg.
7. La Patagonia rebelde. 4 volúmenes. Edición revisada y aumentada, Ed. Planeta, Buenos Aires, 1982-2000. L’edizione originale si intitolava Los vengadores de la Patagonia tragica, sempre in quattro volumi, i primi tre dei quali furono pubblicati dalla casa editrice Galerna, a Buenos Aires, tra il 1974 e il 1975, mentre il quarto, e ultimo, in Germania nel 1978, quando Bayer si trovava già in esilio. Da questo libro fu tratto nel 1974 un film, la cui visione, durante quegli anni, venne proibita: La Patagonia rebelde, diretta da Héctor Olivera, con sceneggiatura di Bayer e Olivera.
8. In un’intervista realizzata nell’effimera sezione “Patagonia” del quotidiano “Pagina/12”.
9. Il carcere rimase attivo sino alla fine degli anni ’50. L’anarchico più famoso lì confinato fu Simón Radowitzky, che aveva ucciso il Capo di Polizia Colonello Ramón Falcón e che si rese protagonista di due fughe fallite. Molti altri rimasero rinchiusi per anni in quel luogo. Tra questi, vi era anche un prigioniero impazzito, conosciuto come “Il Re delle Finanze”, che realizzava rocambolesche e immaginarie speculazioni finanziarie che gli rendevano direttamente in cella migliaia di dollari ogni giorno, per il divertimento dei turisti occasionali.
La storia della via crucis dell’anarchico Radowitzky fu narrata da Osvaldo Bayer nel suo libro Los anarquistas expropiadores, Ed. Galerna, Buenos Aires, 1975. La storia della pianificazione delle due fughe di Radowitzky, raccontata da Juan Arcàngel Roscigna, è stata invece recentemente rappresentata in un filmato, in Uruguay, raccolto in un documentario intitolato Acratas.
10. L’autore si riferisce al cognome dell’anarchico, “Monjes”, che, in castigliano, significa “monaco, frate” (NdT).
11. Si tratta di due piatti tradizionali della Patagonia, sebbene attualmente siano proibite sia la caccia al guanaco, camelide sudamericano, sia quella allo struzzo, con il petto del quale si prepara appunto la “picana”.