Rivista Anarchica Online


antifascismo

Basso di statura, sguardo torvo
di Giorgio Sacchetti

 

La vita travagliata di Bernardo Melacci (1893-1943), anarchico e antifascista dell’Aretino.

Nasce a Foiano della Chiana (AR) il 19 gennaio 1893 da Ferruccio e da Stella Tanganelli. In famiglia si coltivano simpatie per gli ideali socialisti. Primo di quattro fratelli, frequenta le scuole elementari e quindi inizia a lavorare con il padre come meccanico in un’officina. A 17 anni, con altri suoi compaesani, abbandona il paese per recarsi a lavorare come meccanico all’Ansaldo di Genova. Qui, a contatto con il proletariato industriale e con la propaganda sovversiva, affina la sua preparazione rivoluzionaria, partecipando a diverse agitazioni. Richiamato in marina (“nella compagnia del capitano Giuseppe Giulietti, quello che riportò dall’esilio l’anarchico Malatesta”), passa gli anni della guerra imbarcato su unità dislocate nei porti libici. In questo arco di tempo Melacci matura le sue idee anarchiche dopo che ha avuto modo di conoscere personalmente lo stesso Errico Malatesta nel corso di un viaggio in nave. Tornato dalla guerra, trova come tutti i reduci, disoccupazione fame e miseria. Il gruppo anarchico foianese, ufficialmente costituito nel dopoguerra, ha una decina di aderenti. Una delle principali attività di propaganda consiste nella diffusione di “Umanità Nova”. Ma già dal 1914 a Foiano si leggeva “Il Libertario”. Fra gli altri esponenti di spicco del gruppo: Sante Scapecchi (Ficocco), Carlo Scapecchi, Luigi Giaccherini (Baiocco), Guido Marcelli (Buco), Vittorio Ugolini (Dazio), Lanciotto Gailli, Piero Senesi e Giulio Bigozzi. Molti di loro, coetanei, hanno vissuto insieme l’esperienza del servizio militare in marina. Prima della fondazione del PCd’I – ricordano i compagni – a Foiano esistevano il gruppo anarchico, e il PSI. All’indomani di una riuscita manifestazione e corteo organizzati insieme ai socialisti in occasione del primo maggio 1920 – oratori il deputato Ferruccio Bernardini e Melacci – inaugura il suo“nero vessillo” il Gruppo anarchico “Pietro Gori”. Ma già qualche mese prima il gruppo, in fase di costituzione, aveva promosso con successo uno spettacolo teatrale a sfondo antimilitarista e di beneficenza a favore dei bambini austriaci orfani di guerra. Agli inizi dell’anno successivo si organizza ancora una serata pro-vittime politiche al Teatro del paese.

Riunioni in casa Melacci

Il gruppo anarchico non aveva una sede e faceva le riunioni in casa di Melacci; non vi era un segretario, ma siccome era stato Bernardo a portare l’ideale anarchico noi lo consideravamo il responsabile [...] Ricordo che in quel periodo che va dal 1918 al 1921 vi furono delle grosse battaglie sindacali e politiche in Foiano e nella vallata e la spinta promotrice ed organizzativa veniva sempre dagli anarchici [...] Per i contatti fra gruppi anarchici posso dire che noi eravamo in contatto con tutte le zone limitrofe: Lucignano, Monte Sansavino e con quelli del Valdarno (Sassi Attilio); [Alfredo] Melani, [Ruggero] Turchini, che erano operai del Fabbricone, ad Arezzo; a San Giovanni c’era l’Unione Sindacale che era diretta dagli anarchici. Ricordo che ci arrivava anche il giornale anarchico ed ogni tanto noi gli si mandava qualche cosa (denari) [...]
Gli anarchici della Val di Chiana contribuiscono ad arginare le aggressioni fasciste. In seguito ad uno dei più selvaggi attacchi degli squadristi al paese (bastonature, purghe, incendi) scaturisce un conflitto armato in località detta Renzino tra fascisti e antifascisti.
[...] Vi furono – raccontano gli atti processuali – due incursioni fasciste: la prima effettuata il 12 corrente [aprile 1921] da squadre aretine con quelle del Valdarno e di Firenze per raccogliere una sfida che sarebbe stata lanciata da quei comunisti. Erano su due camion quasi tutti armati: i fiorentini avevano elmetti militari e moschetto. Trovarono il paese deserto e, dopo aver percorso le poche strade, al canto di inni patriottici, diedero l’assalto e devastarono la sezione socialista, la Camera del lavoro, la Lega colonica e la cooperativa di consumo senza incontrare resistenza, nemmeno nei carabinieri presenti sul luogo [...] La domenica successiva, 17 volgente, ritenendo di aver sgominato gli avversari, vi ritornano in numero di circa venti [...] Nel pomeriggio circa le ore 16, tutti uniti si allontanarono per far ritorno ad Arezzo, quando giunti a due chilometri da Foiano, in contrada Renzino, furono assaliti da una turba di contadini, che erano in agguato dietro le siepi armati di fucili, pistole, scuri e forconi. Caddero uccisi lo chauffeur Rossi, il soldato in congedo Cinini e lo studente Roselli, sui cui corpi gli aggressori, fra i quali una donna, si accanirono facendone scempio. Altri furono gravemente feriti [...] Avvertiti telefonicamente dai superstiti accorsero, su automobili e camion, fascisti da Siena, Perugia, Città di Castello e Firenze, questi altresì con elmetti e armati di moschetto e di una mitragliatrice. L’azione vendicativa fu oltremodo violenta, vennero incendiati fienili e case coloniche e furono uccisi quattro comunisti [...]”. Tra le vittime di Foiano c’è anche un giovane calzolaio anarchico di Arezzo, Gino Gherardi. È l’ultimo ucciso della strage.

Fallito attentato

Alla spedizione punitiva segue l’azione delle autorità. Melacci viene arrestato a Genova nel giugno 1921. Tradotto “in gran segreto” ad Arezzo trova ad attenderlo in questo scalo ferroviario quaranta fascisti. Qualcuno tenta di accoltellarlo ma ferisce per errore un altro detenuto. Istigatore della mancata azione vendicatrice è Alfredo Repanai, superstite della spedizione del 17 aprile desideroso di saldare i conti rimasti in sospeso. È da questo momento che si cercherà di cucire addosso all’anarchico foianese l’immagine mostruosa dell’assassino truculento. Perciò si arriva a produrre, quale prova di colpevolezza, persino una fotografia che lo ritrae mentre brandisce uno spadino nel corso delle prove per una vecchia recita di teatro amatoriale. Melacci viene interrogato mentre si trova rinchiuso nelle carceri aretine. Ammette di praticare spesso la caccia per motivi di sussistenza, pur non essendo munito di regolare porto d’armi. Inizia il suo racconto partendo dalla giornata del 12, ricordando l’umiliazione patita per le violenze dei fascisti ai suoi familiari. Conferma le sue idee anarchiche e libertarie ma nega di aver preso parte all’imboscata del 17. Messo in difficoltà dalla mole enorme delle testimonianze si trova costretto ad alcune ammissioni. Però sostiene di non aver distribuito nessun’arma come si dice, di non conoscere i suoi accusatori. Respinge infine con veemenza l’accusa di aver rubato il portafoglio ai fascisti. Racconta della sua fuga, dei primi pernottamenti nelle capanne della Val di Chiana, del rifugio a Genova.
A quella che l’agiografia fascista chiamerà “l’imboscata comunista” hanno partecipato anche gli anarchici foianesi. I capi d’accusa per i trentacinque imputati si confermano gravissimi. In trentatre devono rispondere, in correità fra loro, dei tre omicidi volontari premeditati e di tredici mancati omicidi. Inoltre su Melacci gravano le imputazioni di furto qualificato ai danni dei fascisti a cui sarebbero stati sottratti rivoltelle e valori. Ancora il Melacci deve rispondere, in concorso con altri, dell’abbattimento dei tre pali conduttori dell’energia elettrica e del tentativo di interrompere le comunicazioni telefoniche. A questi si aggiungono tutti i reati connessi al porto abusivo e alla detenzione di armi da fuoco. Intanto si imbastisce il processo che si svolge nel 1924, dopo tre anni di carcere preventivo, alla Corte d’Assise di Arezzo. Il primo imputato ad essere interrogato è Melacci. La penna dell’inviato speciale de “Il Nuovo Giornale” rappresenta il personaggio secondo un cliché lombrosiano scontato eppure efficace, e chiosa sapientemente il disegno proposto sulla stessa pagina. “[...] Una delle figure principali sia per la sua attività politica, come per il nefasto contributo di barbarie portato nella tragica giornata di Renzino è senza dubbio Melacci. Basso di statura, faccia irregolare, sguardo torvo, zigomi sporgenti, abiti dimessi e grande cravatta svolazzante alla Malatesta. Siede con un’ostentata altezzosità nella piccola gabbia separata. Organizzatore di professione, oratore violento, ha battuto negli anni del dopo guerra tutti i paesi dell’Aretino [...]
Ammessa la sua fede politica, oltre che di essere pregiudicato, l’anarchico inizia provocatoriamente riproponendo il medesimo schema di racconto degli interrogatori, ripercorre le angherie subite dalla mamma e dalla sorella nella duplice irruzione in casa perpetrata dai fascisti in quel giorno. Erano in cinque al mattino e sono tornati in venti nel pomeriggio, visibilmente ubriachi e minacciosi. Hanno portato via effetti e documenti personali senza alcun motivo e diritto, per di più con l’avallo ingiustificato delle autorità locali. Tutto questo – egli dice – nonostante io avessi sempre portato rispetto agli avversari politici. Per quanto riguarda l’imboscata del 17, Melacci rimane fermo ancora sulla sua versione suscitando vivaci proteste e battibecchi fra avvocati. Rivendica il suo diritto a difendersi scatenando un putiferio: “... Devo dire tutto quello che voglio a mia difesa... Sono anarchico... non ho niente da rimproverarmi”.

 

Teppaglia fascista

[...] La cattiveria della teppaglia fascista e dello stesso tribunale – ricorderà la sorella – fu tale che impediva agli imputati perfino di parlare, specie se li ritenevano anarchici; nell’aula c’erano moltissimi fascisti che facevano continue gazzarre. Venivano anche gli altri al processo, cioè dalla parte nostra, ma rari perché era rischioso. I fascisti premevano per ottenere una condanna severa [...] e quando è stato il momento del verdetto hanno incominciato a tirare calamai, barattoli e d’ogni bene, hanno incominciato a gridare: – Si vuole trent’anni! Si vuole trent’anni! [...]”. Il tribunale commina oltre tre secoli di carcere. Melacci ha la massima pena di anni 30 che sconterà fino al 1935 passando da Arezzo alle carceri di Pesaro; e poi ai penitenziari di Imperia, Portolongone, Parma e Pianosa. Vive il suo stato di detenzione con moltissime limitazioni. I contatti con l’esterno gli sono proibiti. La corrispondenza con i familiari è censurata in maniera sistematica e consentita solo dietro autorizzazioni preventive. Il fratello Eugenio dall’America e le strutture di soccorso del movimento anarchico sopperiscono come possono alle necessità del detenuto, con Temistocle Monticelli da Roma, responsabile del Comitato di Difesa Libertaria.
Bernardo – e sono passate solo due settimane dalla fine del processo – scrive una prima lettera alla mamma ed alla sorella mentre è appena giunto al carcere di Pesaro nel giorno di Natale. Lo stato d’animo di una persona appena condannata a trent’anni si può facilmente immaginare. Dallo scritto però emergono anche elementi che contrastano in modo aperto con lo stereotipo che gli è stato cucito addosso. Il suo animo è gentile e sensibile, le parole che scrive alla famiglia rivelano tormento e sofferenza interiori. Perfino i toni lirici usati in certi passaggi sono una conferma della sua grande capacità di comunicare e, nonostante tutto, anche della voglia di vivere.
Madre e sorella carissime, non ho potuto scrivervi prima di oggi. La traduzione doveva essere straordinaria ma... forse per l’impossibile ho dovuto fare diverse tappe: Spoleto e Ancona. Sono giunto a Pesaro il giorno della festa religiosa, il giorno in cui tutti reverenti s’inchinano, nella fredda cuna del gran Messia. Il giorno da poco levato batteva alle porte delle case addormentate portando seco l’eco bronzeo della notte, le note delle campane che non stanche, su l’ore silenziose saltellavano ancora come pensieri fuggenti attraverso l’infinito, con l’infinito del mio desiderio, di tutti i desideri. Il giorno da poco levato, i primi raggi del sole da poco spogliati dagli abiti in gramaglia salutavano le ombre partenti, quando io silenzioso, nel mesto raccoglimento, vi pensavo. Pensavo a voi povere e solitarie anime, più che a me stesso. Pensavo al vuoto delle anime vostre nella casa vuota [...]”.

Confino, manicomio e morte

Poi lo scritto volge su quegli ultimi giorni angosciosi trascorsi fra la cella delle prigioni aretine e la gabbia degli imputati in Corte d’Assise. Bernardo ha la convinzione di aver agito bene sul piano della sua morale anarchica. Ha rifiutato qualsiasi compromesso ed ora si appresta a pagare le conseguenze del suo gesto. Qualche tempo più tardi, meno in vena di divagazioni poetiche, invierà una più circostanziata richiesta ad un compagno di Arezzo (forse Alfredo Melani): “[...] Mandatemi anche il panpepato e i burischi. Spedite il pacco per ferrovia a grande velocità, qualche soldo e Carolina non si dimentichi delle raccomandazioni ch’io le feci [...]”.
Dimesso dal carcere in seguito ad amnistia ritorna alla sua casa. Ma solo per tre giorni. I gerarchi locali non possono tollerare la sua presenza nonostante le autorità di polizia non abbiano niente da obiettare. Così gli vengono inflitti tre anni di confino. Inviato alle Tremiti nell’anno 1937 si dedica alla propaganda delle idee anarchiche fra i numerosi giovani confinati facendosi iniziatore, con Stefano Vatteroni e Alfonso Failla, di una rivolta contro l’imposizione del saluto romano. Melacci, nonostante gli anni di galera, è lo stesso ribelle dei primi anni, il primo a scagliarsi contro le guardie che maltrattano i confinati. Viene arrestato insieme ad altri cento e imputato di essere stato il promotore della protesta. L’ultimo periodo di carcerazione dà il colpo di grazia alla sua salute già minata dai lunghi anni di reclusione. Condannato ad altri cinque anni, nel 1938 viene ricoverato in manicomio. La guerra lo sorprende ancora in carcere. Le privazioni e l’eccezionale regime carcerario lo conducono dopo un periodo passato in ospedale, alla tomba. Il 7 dicembre 1943 muore a Nocera Inferiore. I compagni sapranno molto tardi della sua fine. E solo cinque anni dopo a Foiano della Chiana, presente Pier Carlo Masini, potranno ricordare Bernardo “come uno dei migliori militanti perduti”. Carolina Melacci Burri in una sua testimonianza – nel ricordare le vicissitudini patite dal fratello, e la sua figura gentile e delicata di compositore di poesie – ha avanzato seri dubbi sulle circostanze della sua morte.
[...] condannarono Bernardo per le sue idee anarchiche e Bernardo è morto con l’ideale anarchico [...] Quando venne da Pesaro per il processo subì il primo attentato nel tratto che va dalla stazione al carcere di Arezzo [...] Altro attentato gli fu fatto nel carcere di Arezzo, durante il colloquio che io avevo con Bernardo: nella stanza dei colloqui c’erano i finestrini e gli spararono un colpo di rivoltella verso la finestrina, proprio dove si parlava noi. Un altro attentato glielo fecero a Terontola, poi non so se avranno provato ancora; so solo che Bernardo non si sa come sia morto [...] Quando le sue spoglie furono riportate al paese, una grande manifestazione popolare gli testimoniò tutta la riconoscenza della cittadinanza”.

Giorgio Sacchetti
Dal Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, vol. II, ad vocem, in corso di pubblicazione, Pisa, edizioni Biblioteca Franco Serantini (BFS).