Rivista Anarchica Online


guerra

Guerra-lampo, una pia aspirazione
di Antonio Cardella

 

Adesso che l’incendio è appiccato, occorrerà molto tempo per capire da che parte iniziare per arginarlo.

Maledetta quest’America che si propone al mondo con il volto imbolsito di un texano alcoolizzato, in preda, per di più, a crisi mistiche deliranti!
Maledetta quest’America, che crede di essere pragmatica, ed è, invece, solo cinica, incapace di concepire un mondo pacificato, privo di conflitti e di angosciose competizioni!
Maledetta quest’America che non riesce a cicatrizzare le sue ferite e, in preda a furori irrazionali, miete vittime innocenti in ogni parte del globo.
Maledetta quest’America, sorda ad ogni istanza di moralità politica, pronta a calpestare i più elementari diritti dei popoli pur di soddisfare la sete di dominio di un’Amministrazione corrotta e corruttrice!
Maledetta, infine, quest’America per aver indotto un anarchico a lanciare anatemi, come la maledizione, che non gli sono certo congeniali!
Adesso, purtroppo, l’incendio è appiccato e occorrerà molto tempo solo per capire da che parte iniziare per arginarlo.

Effetto domino

Negli articoli precedenti si era cercato di delineare la reazione dei paesi della regione ad un attacco angloamericano. Si era avvertito il pericolo che un effetto domino ci sarebbe stato, ma non nel senso auspicato (almeno a parole) dagli strateghi della Casa Bianca, bensì in senso esattamente inverso. Gli sciiti del sud dell’Iraq non si sono ribellati contro Saddam; non hanno ricevuto a braccia aperte i liberatori; molti addirittura hanno imbracciato le armi, aumentando il potenziale di resistenza delle forze regolari del regime. A Nord, come ampiamente previsto, la Turchia ha creato grosse difficoltà al passaggio delle truppe americane, sicché queste ultime hanno dovuto nuovamente imbarcarsi e fare marcia indietro. Dal canto loro i curdi, in barba proprio all’esercito turco che ha oltrepassato il confine per evitare il costituirsi di una istituzionalizzata comunità curda, sono pronti a rivendicare a tempo debito il territorio che ritengono spetti loro di diritto: quello che ha per epicentro le città di Mosul e di Irkuk. Basta dare uno sguardo ad una cartina dell’area per rendersi conto che il vecchio stato iracheno, creato artificiosamente dagli occidentali per meglio controllare le vie del petrolio, è tornato ad essere smembrato, di fatto, in tre parti distinte: i curdi a nord, al centro i sunniti, al sud gli sciiti.
Vi sono, però, dei fatti nuovi, anche se non inattesi.

Manovra “a tenaglia”?

Intanto, la guerra-lampo si è dimostrata una pia aspirazione del Pentagono. Anche se non lo ammetteranno mai, i generaloni a stelle e strisce ritenevano di fare, se non proprio una passeggiata, una parata quasi indolore, che li avrebbe portati in pochi giorni (vi ricordate le fatidiche 72 ore?) dal confine del Kuwait alla periferia di Baghdad, dalla quale sferrare poi l’attacco finale “a tenaglia” con le forze che, si presumeva, sarebbero discese dal nord, dal confine turco, appunto. Nessuna di queste ottimistiche previsioni si è realizzata e l’intero schieramento angloamericano si è trovato sbilanciato, senza essere riuscito, in quindici giorni di guerra, ad occupare completamente una sola città irachena, con grosse difficoltà nei rifornimenti degli avamposti e con la necessità di riformulare le strategie iniziali, essendo venuto a mancare, almeno così come era stato disegnato, il fronte del nord. Ma il punto non è questo: la sproporzione tra le forze in campo è tale che non è in discussione l’esito della guerra, ma la fine del conflitto. Chi ha un minimo di memoria storica, ricorda che il protettorato inglese nell’area si stabilì senza grosse difficoltà, ma nei 35 anni della sua durata (dal 1922 al 1957) gli occupanti pagarono un tributo di sangue pesantissimo: ne morirono ben 83 mila.
Ma andiamo avanti.
Il bombardamento mediatico di quell’altro genio di Rumsfeld sulle presunte complicità di Siria e Iran con il regime di Baghdad, ha avuto l’effetto di vanificare d’un colpo i tentativi dei rispettivi governi di evitare, da un canto, il coinvolgimento, diretto o indiretto, nel conflitto (nell’ultima assemblea della Lega Araba dei primi di marzo non si è andati al di là di generiche dichiarazioni contro la guerra): dall’altro, di tenere a freno l’opinione pubblica dei due paesi che, contro l’intervento angloamericano, avrebbero preferito un atteggiamento meno accomodante. Senza considerare – e questo è l’aspetto più inquietante delle dichiarazioni del ministro della difesa americano – che le accuse lanciate potevano essere percepite, proprio per quelle che probabilmente volevano essere: la minaccia dell’estensione dell’intervento bellico ai due paesi canaglia, una volta concluso quello contro l’Iraq.
In sostanza, con la guerra preventiva, si è vanificato il lento cammino che l’Iran di Khatami e la Siria di Assad avevano intrapreso per realizzare, ciascuno a suo modo, uno stato laico, sottratto all’estremismo islamico. Ma la guerra ha messo in grosse difficoltà anche l’Arabia Saudita, che, pur essendo la principale potenza petrolifera della regione, non è riuscita a trasformare in benessere generalizzato i proventi della commercializzazione delle risorse energetiche, valutate, negli ultimi trent’anni, in tre mila miliardi di dollari. Il regime di Riyad, così, si trova a dover fronteggiare un’opposizione interna agguerrita e fortemente critica nei riguardi di una politica troppo appiattita sulle ragioni dell’occidente. Per questo il principe Abdallah ha fatto di tutto per non apparire coinvolto in una guerra che il mondo arabo percepisce come un’aggressione. Nel recente vertice regionale di Istanbul, Riyad ha convinto Iran, Siria, Giordania, Egitto e Turchia che trattare separatamente con gli americani, rivelando in questo modo più i motivi che dividono il mondo arabo piuttosto che quelli che lo uniscono, avrebbe rafforzato nell’interlocutore la necessità di ridisegnare un assetto geopolitico della regione, idoneo a tutelare meglio i suoi interessi.

Il risveglio dell’orgoglio arabo

La guerra, adesso, ha posto in secondo piano i problemi interni dei singoli paesi investiti, direttamente o indirettamente, dalle operazioni belliche. Ora sembra prevalere la necessità di organizzare la resistenza. Qualunque sia, infatti, il giudizio su Saddam, la guerra preventiva scatenata da Bush ha risvegliato l’orgoglio arabo e la sua ferma determinazione a difendere la propria cultura e le proprie tradizioni contro un nemico che pretende di esportare un modello di sviluppo, che non solo è estraneo alla mentalità mediorientale, ma è in crisi nello stesso Occidente dove è nato e si è andato consolidando nel tempo.
Ma il disastro provocato dalla delirante teoria della guerra preventiva va ben oltre i confini mediorientali e investe il mondo intero.
Con il collasso dell’impero sovietico e la caduta del muro di Berlino, l’Occidente (e, con lui, il resto del mondo) sembrava avviato verso un’epoca in cui i problemi preminenti fossero quelli dello sviluppo compatibile. Pur tra conflitti di interessi e tensioni sociali, si discuteva di globalizzazione, delle esigenze dei paesi in via di sviluppo, della salvaguardia dell’ambiente e di quanto d’altro fosse pertinente alla sopravvivenza del genere umano, in relazione soprattutto alla produzione delle risorse e alla loro distribuzione. La guerra, come strumento per dirimere le possibili frizioni tra i popoli, sembrava bandita per sempre, anche se in alcune plaghe del pianeta persistevano conflitti endemici dovuti al sottosviluppo, a screditate dittature o ad anacronistiche velleità colonialistiche.
La nuova strategia, elaborata e attuata con la guerra all’Iraq, secondo la quale gli USA si ritengono autorizzati ad intervenire, anche militarmente, laddove ritengano siano minacciati i loro interessi di potenza egemone, ha sconvolto la stessa struttura di norme giuridiche internazionali, che, bene o male, costituiva un quadro di riferimento universalmente accettato. Ci si è sentiti tutti, improvvisamente, vulnerabili, alleati o no che si fosse degli Stati Uniti. Nella prospettiva indicata dall’Amministrazione Bush (anche se, per la verità, elaborata sin dal 1992 dai falchi repubblicani), chiunque, nel futuro prossimo o remoto, poteva finire sotto il tiro della potenza militare d’oltre Atlantico. La stessa Unione Europea, che, per la legge stessa dell’economia di mercato, si pone in naturale concorrenza con il capitalismo americano, potrebbe vedersi costretta, domani, a difendere con le armi il proprio diritto all’espansione economica, espansione che, per la teoria capitalistica, equivale al diritto stesso alla sopravvivenza.

Assicurarsi il dominio di un’area

Se le cose stanno così (e pare proprio che così stiano), allora l’aggressione all’Iraq e il progetto di mettere le mani sull’intero bacino petrolifero più importante del mondo vanno letti in modo assai differente. Non si tratta più, per l’America, di garantirsi la quota di risorse energetiche necessaria al suo sviluppo e al permanere della sua egemonia economica, ma di assicurarsi il dominio di un’area dalla quale ricattare, con il controllo delle risorse energetiche, il mondo intero.
È prevedibile che, scoperto il gioco, i popoli minacciati non stiano a guardare e ritorni, generalizzata, la corsa al riarmo. Ritorneranno gli incubi delle guerre nucleari e quote inimmaginabili di risorse verranno indirizzate, anziché ad ampliare la geografia del benessere, a progettare e realizzare altre e più tremende armi di sterminio di massa.
D’un balzo, questa maledetta America di Bush ha retrodatato la storia ai tempi della guerra fredda, con l’aggravante che, se prevalesse a tutti i livelli il concetto della guerra preventiva, ciascuno stato vedrebbe come potenziale nemico ogni altro stato e le coalizioni si consoliderebbero o addirittura si formerebbero a scopi puramente bellici.
Un bel risultato per il più democratico degli stati democratici.
Ancora una volta, la diffidenza degli anarchici nei riguardi dell’“istituzione stato”, qualunque sia la forma che lo caratterizzi, è clamorosamente confermata dai fatti. L’istinto di sopraffazione, latente in ogni struttura statuale, si scatena non appena si spezzino gli equilibri del terrore.
E ancora una volta, la cruda realtà dei fatti smaschera l’ipocrisia dei regimi espressione della volontà dei popoli: in centinaia di milioni hanno manifestato e continuano a manifestare in tutto il mondo contro questa guerra. Malgrado ciò, gli stati, per volontà o pavidità, l’hanno scatenata.

Antonio Cardella