Rivista Anarchica Online


guerra

Oltre la guerra-spettacolo
di Andrea Papi

 

Tra televisione, ipocrisie, bombe, morti e riflessioni.

È finito il tempo delle attese e la guerra all’Iraq, “tanto attesa” da mesi infarciti di diplomatiche e istituzionali guerre planetarie tra i potenti della terra, ora è un dato di fatto e si dipana in tutto il suo imprevedibile e terrificante divenire. Lo spettacolo mediatico ha subito preso avvio e il pubblico televisivo può finalmente fruire con intensità emotiva delle immagini che si susseguono a ritmo frenetico sul piccolo schermo, accompagnate con ugual frenesia dal bombardamento d’informazioni necessariamente imprecise e dai continui dibattiti tra “specialisti” della guerra, secondo par condicio equamente divisi tra favorevoli e contrari.
Davanti al fluire incessante di quelle immagini e di quelle parole abbiamo il piacere di goderci lo scombussolamento emozionale: soffriamo, c’incazziamo, guardiamo pietrificati o con programmato distacco a seconda dei casi, approviamo o inveiamo. Riusciamo cioè ad essere immersi nel campus d’azione, non come se fossimo là dove effettivamente avviene, ma per come ci viene offerto dal sapiente uso mediatico che, come tutti gli strumenti di mediazione, non è la riproduzione della realtà reale, bensì di una realtà interpretata e propinata.
Anch’io, penso come tutti, seguo con grande partecipazione emotiva, promettendomi di non lasciarmi imbrigliare più di tanto dall’eruzione mediatica visiva e verbale insieme. E ho vissuto emozioni e livelli emotivi diversi legati all’avanzata bellica, per come mi veniva rovesciata addosso e per come mi riusciva di leggerla. Il primo giorno ho avuto quasi l’impressione che la strategia d’intervento fosse inaspettatamente soft, quasi guardinga e gentile insieme. Poche bombe estremamente precise e mirate, cavalcata della fanteria e dei mezzi corazzati, assenza di vittime, voci che il Rais e suo figlio, comandante delle truppe speciali, fossero stati colpiti a morte, al punto che l’agonia del regime pareva praticamente cosa fatta, al punto che tutto sembrava potersi risolvere in pochissimi giorni. L’attacco, tecnologicamente diretto, dava l’idea di riuscire ad essere effettivamente chirurgico, a differenza di tutte le altre guerre precedenti, in cui le decantate chirurgia e intelligenza delle bombe si erano dimostrate fallimentari e devastanti, come nei fatti è sempre stato. Non a caso tutti i commentatori politici, da quelli pro a quelli contro, davano per scontato che ormai fosse questione di giorni, se non di ore.

La classica passeggiata?

Poi nei due giorni successivi sono cominciati i bombardamenti, quelli massicci cui eravamo da sempre abituati, sono saltate fuori sacche di resistenza non previste da parte di truppe irakene capaci di rallentare l’avanzata dei “liberatori”, si è cominciata a vedere la battaglia con scontri diretti, come le conosciamo attraverso la celluloide hollywoodiana. In più ci si è messa anche la Turchia, che ha cominciato a penetrare autonomamente con sue truppe nel nord irakeno per controllare i curdi. Ma ancora era rimasta l’impressione della classica potenza USA della leggenda, capace di dominare la dinamica bellica e di far apparire gli avversari come comparse, quasi occasione di esercitazioni militari. Inoltre le vittime continuavano ad essere pochissime e in televisione apparivano centinaia e migliaia di soldati irakeni che si arrendevano, in alcuni casi uccidendo i loro ufficiali che volevano obbligarli al combattimento fino alla morte, consegnandosi quasi felici ai loro liberatori. Insomma, l’immagine di una sostanziale passeggiata sul cadavere dell’odioso regime di Saddam veniva confermata con forza.
Ma il quarto giorno, sconfessando tutte le impressioni dei giorni precedenti, la guerra, quella vera, ci ha sbattuto in faccia il suo vero volto. Sono saltati fuori i morti civili, i soldati uccisi da entrambe le parti, aerei e carriarmati americani distrutti, soldati statunitensi prigionieri dell’esercito del dittatore e mostrati brutalmente alle televisioni di tutto il mondo in tutta la loro fragilità umana. Mentre entrambi i contendenti, attraverso i media cantavano vittoria l’uno sull’altro e il corpo scomodo di Saddam, vivo e vegeto assieme al figlio risuscitato, arrogante faceva comparsa sugli schermi del globo, beffeggiando il nemico americano che si era illuso di essere andato vicino al suo annientamento. L’aspetto della barbarie bellica, che l’immagine mediatica fino ad allora era riuscita ad esorcizzare, è riapparso con sorprendente forza, facendo sfumare l’illusione dell’ebbrezza di una guerra veracemente chirurgica, capace, coi suoi bisturi tecnologici, di incidere con precisione il corpo malato e di estirpare con veloce determinazione il cancro dal mondo.
L’escalation in pochi giorni ha superato ed escluso l’ipocrita finzione iniziale di un conflitto capace di essere rispettoso dei diritti umani e ha preso piede il volto sempiterno dello scontro bellico, quello vero e insuperabile della guerra sporca, dove si soffre e si muore moltissimo, dove si umiliano gli avversari, dove la capacità massacrante di distruggere e annientare è il vero e unico metro di misura che ne abbraccia il senso. La guerra è e non può che essere l’uso imperioso e prepotente della forza armata per vincere e sottomettere il nemico ed è fondata sulla predominanza totale del più forte sul più debole. È l’acme dell’imposizione, è l’esercizio dell’autorità assoluta, è l’annullamento di ogni dignità umana, indipendentemente dalle ragioni addotte che la promuovono e la giustificano; e non può essere altro.
A latere, fin dai primi momenti dello scontro combattuto in Iraq monta instancabile in tutto il mondo la protesta antibellicista, l’urlo internazionale e internazionalista “No war!”, e continua ad esprimersi quotidianamente. La richiesta di pace, in tutte le sue molteplici sfaccettature, non demorde e chiede a gran voce che venga posto fine alla guerra e alla sua logica, per dare spazio alla politica, quale capacità d’intervento non bellico in grado di risolvere le ragioni dei conflitti. Ogni giorno, in ogni parte del globo, continuiamo ad assistere a manifestazioni di vario tipo, più o meno spettacolari, che con corpose e numerose partecipazioni di persone, addirittura di folle, con grande determinazione pongono costantemente il problema della fine immediata del conflitto in Iraq, ma anche della fine della possibilità di dare inizio in futuro a qualsiasi altro conflitto in armi, che eventualmente gli stati avessero intenzione di mettere in atto. Un montare pacifista, vero e proprio corpo autonomo, indipendente dalle prevedibili oscillazioni delle opinioni pubbliche dirette dai media e ammaestrate dai sondaggi quotidiani.

Azione di contenimento

Assistiamo a un paradosso, anche se non appare subito tale. La guerra combattuta e la sua negazione, la richiesta “senza se e senza ma” di assenza di guerra, entrambe al contempo punti di vista e dati di fatto, procedono appaiate e col loro procedere incredibilmente nessuna delle due dà segni di debolezza o diminuzione, mentre si rafforzano in un reciproco alimentarsi. I facitori di guerra non si preoccupano minimamente di chi vorrebbe metterli in discussione e procedono, imperterriti, nella realizzazione dei loro nefasti piani, incuranti di quella parte consistente del mondo, sempre più ampia, che quotidianamente con forza grida loro di demordere. In altre parole, il sistema di comando che si fonda sulla gestione bellica è perfettamente in grado di sopportare e, da quello che finora è apparso, di garantire democraticamente l’esistenza di una contestazione radicale alle proprie tesi e al proprio operato. Siamo o no in democrazia? Perbacco! Tanto è vero che, fino al momento in cui sto scrivendo, non si può parlare di un’azione sistematicamente repressiva da parte dei poteri occidentali vigenti, bensì di una concordata e programmata azione di contenimento, che permette al pacifismo di manifestarsi nei termini di opposizione democratica, incapace di mettere in discussione seriamente gli alti comandi militari e politici guerrafondai, mentre al contempo offre a costoro l’occasione di mostrare un aspetto che per principio non appartiene loro, di essere cioè dei difensori delle libertà di espressione.
Dal canto suo, il pacifismo, anche se sempre più “agguerrito” e determinato, per come continua a porsi non riesce ad essere incisivo come vorrebbe e s’illude. Certamente, riesce ad imporre la spettacolarità della propria immagine e delle proprie azioni, inducendo con sapienza i mass-media ad occuparsene, quindi a gestire un ruolo estremamente importante come opinion maker, capace d’influire con efficacia nell’opinione pubblica e di spostare i risultati dei sondaggi a proprio favore, cosa che in una democrazia mediatizzata risulta fondamentale nella gestione della propaganda politica. Ma al contempo questa sua capacità si trasforma in un’arma a doppio taglio, in quanto in tal modo rientra perfettamente nel gioco d’induzione e d’inglobamento della società dello spettacolo, divenendo così strumento di garanzia di perpetuazione dell’ordine esistente, mentre nelle proprie dichiarazioni d’intenti vorrebbe invece combatterlo. Infatti, non è in alcun modo in grado di realizzare ciò che propaganda, cioè la pace, né di impedire il sorgere delle guerre.
È invece soltanto in grado di porre con grande forza un’opzione teorica, fra l’altro non compiuta, di superamento dello stato di guerra. Perché dico non compiuta? Perché l’alternativa che pone si fonda sulla richiesta di agire attraverso gli strumenti e il linguaggio della politica in alternativa allo scontro armato, nell’illusione che la politica sia in grado di sotterrare le logiche della guerra. Non può che trattarsi di un’illusione, primo perché la guerra è un classico strumento principe dell’azione politica, anzi ne rappresenta una delle opzioni fondamentali, secondo perché i gestori legittimi dell’agire e della volontà politica sono gli stessi che all’occorrenza decidono di scendere nel campo di battaglia. Supporre che possa esistere una contraddizione insanabile, fondata sul principio che l’una nega l’altra, tra la logica politica e la logica di guerra, vuol dire a mio avviso non esser riusciti a comprendere appieno né l’una né l’altra.
La politica vigente, infatti, si fonda sull’esercizio del potere a tutti i livelli per esercitare il dominio, per mantenere la gestione e il comando delle situazioni economiche, politiche e militari. La democrazia parlamentare è una delle modalità, quella maggiormente in auge nel mondo occidentale, di questo esercizio, ma verrebbe abbandonata se non risultasse funzionale agl’interessi degli uomini di potere; non a caso più volte gli stessi governanti statunitensi in passato hanno appoggiato, o addirittura favorito, brutali regimi dittatoriali perché li consideravano funzionali alle loro scelte strategiche. L’esercizio del potere si fonda sull’uso legittimo, come sostiene Weber, della forza, dove tale legittimazione è in realtà autoconclamata e autoreferenziale, perché le decisioni, le informazioni e le scelte delle forze armate e dell’ordine ovunque sono protette dai segreti di stato e militare, senza quindi dover rendere conto al popolo, che formalmente dovrebbe essere l’unico vero depositario della sovranità. Così, com’è facile intuire, la guerra è un momento fondamentale e culminante dell’uso, ritenuto legittimo, della forza, quindi una componente fondamentale e non eliminabile dell’esercizio politico del potere. Ecco perché pretendere di sostituire la politica alla guerra, ritenendole alternative l’una all’altra, è un non senso sia teorico sia di fatto.

Gestione politica non centralizzata

Se si vuole porre davvero, come sarebbe d’uopo, l’istanza di una rinuncia alla logica bellica quale strumento di regolazione politica, diventa necessario risalire alla radice vera del problema. L’essenza della gestione politica nel mondo risiede nelle decisioni e nel comando centralizzati, sia che si tratti di stati totalitari, di oligarchie militari, di tirannie monocratiche, di dispotismi teocratici, di lobby d’interessi, o di democrazie parlamentari. Tutto è sotto l’egida di direzioni verticistiche e di imposizioni dall’alto, secondo una logica basata sull’imposizione e la sottomissione, sul comando e la conseguente obbedienza, legittimate, a seconda dei casi, dalla volontà imperscrutabile di dio o da quella astratta del popolo, che nei fatti non interviene mai. Il comando dall’alto, per essere esercitato, ha bisogno del controllo sui suoi sottoposti e di strutture di guerra per l’uso eventuale della forza. In altre parole, la politica del comando centralizzato si fonda sul militarismo, quale concezione della gestione politica della società, e non ne può fare a meno, quindi comprende la guerra come elemento fondamentale della propria stessa gestione.
Bisognerebbe perciò cominciare a mettere seriamente in crisi, sia nei fatti sia come acquisizione teorica, la gestione politica verticale e centralizzata e il militarismo, l’uno conseguenza dell’altra e viceversa, l’uno indispensabile all’altra e viceversa. Bisognerebbe cominciare a porre con forza e a sperimentare l’opzione di una gestione politica non centralizzata, non verticale e non gerarchica, fondata su principi di organizzazione orizzontale, dove le decisioni vengono prese col concorso e la presa di coscienza di tutti, dove veramente il dibattito, il dialogo, la cooperazione e il rispetto, il riconoscimento e la valorizzazione delle diversità, siano la sostanza per la definizione di norme sociali capaci di regolare la convivenza tra gli individui componenti la società, sulla base della reciprocità e di una concreta solidarietà. Allora non sapremmo che farcene del militarismo, quindi della guerra, perché non sarebbero più funzionali in alcun modo alla gestione sociale e alla convivenza tra esseri della specie umana.

Andrea Papi