Rivista Anarchica Online


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

Indulto funebre

 

Ne La via delle maschere (Einaudi, Torino 1979), l’antropologo Claude Lévi-Strauss racconta che in società tradizionali pur molto diverse fra loro, come quelle del Canada o quelle degli indiani sulle coste occidentali del Pacifico, veniva assunto nei confronti dell’artista un atteggiamento analogo. In un caso, il ruolo gerarchicamente cospicuo e la dignità dell’artista erano considerati una sorta di “dono magico” che, a volte, si trasmetteva ereditariamente fra capi; nell’altro, all’artista veniva attribuita un’origine spirituale connessa direttamente con gli spiriti rappresentati dalle maschere cerimoniali.
Da ciò si può constatare senza ombra di dubbio come alcune di quelle affermazioni tipiche del romanticismo – più tardi tacciate di esagerazione – non erano poi così prive di un fondamento storico come chi grida alla novità vuol credere e far credere. È da tempo – ed è nei luoghi più diversi – che l’artista, in un modo o nell’altro, si è guadagnato uno statuto speciale in grazia del quale sopravvivere, spesso, o godere di agi straordinari, a volte. Se la superficie di un dipinto – come è stato detto, per esempio, dal romantico tedesco Caspar David Friedrich –, è il luogo dove si manifesta lo spirito e se ogni pennellata è una botta di divino, all’artefice, a colui che tiene il pennello in mano, con una bella riserva di questo divino a disposizione, sarà almeno toccato un rapporto privilegiato con quel Dio da cui il divino proviene.
La beatificazione dell’artista porta anche ad un curioso crampo mentale particolarmente diffuso. Un esempio può essere costituito da quanto paventa Philip Ball in Colore (Rizzoli, Milano 2001) – un saggio dedicato alla storia delle materie cromatiche di cui, via via, si sono avvalsi i pittori: che l’analisi scientifica del colore di un quadro possa, in quanto tale, distruggere la bellezza dell’opera d’arte. Sarebbe come dire che saperne di più, sulla sequenza di operazioni che hanno costituito un risultato, ci impedirebbe di gustarci il risultato stesso. Temendo frodi alimentari – e temendo per la nostra salute –, per esempio, non usiamo di queste cautele nei confronti del cibo che acquistiamo e che mangiamo. Non usiamo di queste cautele allorché si tratta di studiare il corpo umano al fine di prevenire o di guarire le malattie. Non usiamo di queste cautele allorché facciamo ingegneria inversa di un artefatto ai fini di riprodurcene una copia. Non usiamo di queste cautele, insomma, quasi mai nella nostra pratica quotidiana. Ma quando c’entra l’arte, o qualche abilità particolare cui si conferisca dignità rara – come nel caso del genio –, sì.
L’argomentazione – che proviene da una mancanza di consapevolezza circa i processi mentali con i quali valorizziamo qualcosa a scapito di qualcos’altro – risulta particolarmente penosa allorquando ci si accorge del tanto di grave che implica: un essere umano spezzato irrimediabilmente in due, fra parti nobili, e superiori, e parti infime, e inferiori – fra marcescibile e immarcescibile, fra deperibile ed eterno, fra anima e corpo –, nonché l’imbarazzante rinuncia ai prodotti di una di queste due parti – prodotti dei quali accettiamo l’idea di non saperne alcunché perché “inconoscibili” e “ineffabili”, sfuggenti di principio, appannaggio – al massimo – di esseri umani speciali: genii, maghi, preti e, per l’appunto, artisti.
Giorgio Gaber è morto il 1 gennaio di questo 2003. Nonostante tutto – parlo della sua persona, viva mentre si costruisce la propria storia –, il suo cadavere è stato, prima, ricoverato nella camera ardente allestita al Piccolo Teatro della città di Milano, sottoposto, poi, ad una funzione religiosa in quell’Abbazia di Chiaravalle dove, nel 1965, si era sposato ad Ombretta Colli e, infine, è stato tumulato nel famedio del Cimitero Monumentale. Presenti all’ultimo saluto, come si suol dire con una metafora molto riduttiva della posta effettivamente in gioco, c’erano in tanti: parenti, amici, persone al cuore delle quali aveva parlato dicendogli anche cose sgradevoli e pur necessarie, soggetti di passione e oggetti della sua passione – autorità comprese, dal Presidente del Consiglio al Ministro dell’Interno, dal Prefetto al Questore, dal Sindaco al noto intellettuale. Tanti – chi più e chi meno in buona fede – che, per parafrasare un verso di una sua canzone, “improvvisamente” si sono “presi il diritto” di “vivere il presente”. A spese sue.
Nonostante tutto, poi, la morte di Gaber ha liberalizzato un florilegio di necrologi dal quale potranno attingere a piene mani i Gaber prossimi venturi: fascisti, democristiani genetici e democristiani opportunisti, fautori dell’Ordine, maggioranze un tempo silenziose, mamelisti di ritorno e padroni incalliti hanno cancellato ogni brandello di memoria e, manifestando il proprio inlenibile dolore, ne hanno esaltato vita e opere.
“Un uomo libero e non fazioso”, ha detto Berlusconi; “un compagno di vita per la nostra generazione”, ha aggiunto il prefetto; un “bocconiano”, ha sibilato il sindaco non senza perfidia nel pronunciare quello che, per lui, è l’aggettivo più nobilitante. Se c’era qualche canzone da citare, Berlusconi in testa, erano tutti d’accordo sul Cerutti Gino, ma, innanzitutto e soprattutto, erano indiscutibilmente uniti nella categorizzazione definitiva con cui seppellirlo: era un artista. Passibile, quindi, di un pacificante indulto funebre.
La responsabilità morale di dare dell’artista a qualcuno mi pesa. Troppo spesso, nel nome dell’arte vengono smussate le differenze – a volte, fino a scomparire. Troppo spesso dar dell’artista a qualcuno significa tirarlo fuori per tirarsi fuori – concedergli uno statuto speciale e situarlo in una specie di terra di nessuno in cui, ormai inerme, vada bene per tutti. Non ci sto. Non ho mai considerato Gaber artista prima di critico e non ho mai attribuito a Gaber un’arte prima che una politica. La mia stima se l’è sempre guadagnata per la sua capacità di analisi delle contraddizioni che caratterizzano la nostra pratica quotidiana e per la coerenza con cui queste analisi esprimeva nella leale amarezza di dover constatare come da queste contraddizioni non fosse, lui stesso, mai esente. Era questo il mio atteggiamento nei suoi confronti da vivo e non lo tradirò da morto.

Felice Accame

P.S.: Nel tentativo di fare largo ai nuovi venuti ammiratori entusiasti a Gaber morto, i giornali hanno ricordato quel 7 gennaio del 1998 in cui, in nome e per conto di quel che restava della sinistra, Luca Canali, su “l’Unità” incolpava Gaber di tutti i suoi presunti peccati. Con l’occasione, non si nega dunque un’intervista e Canali, ovviamente, ribadisce: “Il Gaber che amavo, che trovavo davvero capace di dire cose vere e nuove”, dice, “era quello del Cerutti e dello Shampoo. Non quello ingarbugliato nei suoi dubbi e problemi, non si rendeva conto di fare il gioco di chi voleva far spostare il Paese a destra”. Si tratta di un’argomentazione preziosa per chi, in futuro, si vorrà rendere conto del modo con cui si è estinto il pensiero di opposizione nel nostro Paese. C’è qui uno cui, intanto, non passa neppure per la testa di chiedersi come mai sia giunto a nutrire le stesse preferenze del Presidente del Consiglio e cui, poi, non par vero, ricattandoci in nome del male altrui, di nascondere le nefandezze proprie.

P.P.S.: Per le opinioni misticheggianti in materia di estetica di Friedrich, cfr. Scritti sull’arte (Abscondita, Milano 2001), dove figura anche un significativo saggio di Roberto Tassi.