Rivista Anarchica Online


sindacalismo

Storia di un sindacato libertario
di Maurizio Antonioli

 

Lo scorso novembre è stato celebrato il 90° anniversario della fondazione dell’USI. Ecco un breve saggio storico sul periodo che va dalla nascita alla messa fuorilegge da parte del regime fascista.

La costituzione dell’USI, nel novembre del 1912 a Modena, aveva scarse ripercussioni sul piano internazionale, se si esclude una certa risonanza nei fogli wobblies italoamericani. La linea prevalente, in quel momento, negli ambienti sindacalisti più rappresentativi – in Francia e in Gran Bretagna – era quella dell’unità. I sindacalisti francesi, pur ormai minoranza effettiva, egemonizzavano di fatto, grazie al sistema di rappresentanza non proporzionale, la Confédération Générale du Travail. Gli “industrialisti” inglesi, guidati da un leader di prestigio come Tom Mann, praticavano un entrismo efficace (e lo dimostravano i grandi scioperi della fine del 1911) nelle Trades Unions. Le organizzazioni scissioniste – a parte il caso tutto particolare degli Industrial Workers of the World statunitensi – vivevano vita stentata. Così il NAS olandese, la SAC svedese, la FVDG (i cosiddetti “localisti” tedeschi) e la CNT spagnola, travolta dalla repressione, anche se i loro effettivi aumentavano sensibilmente dal 1910 al 1914 (ma si trattava sempre di poche migliaia) sull’onda della crisi che serpeggiava in tutta Europa erodendo i margini di trattativa del riformismo sindacale.

Scommessa arrischiata

Si può quasi dire che l’Unione Sindacale Italiana fosse una scommessa arrischiata. Fino ad allora, infatti, anche in Italia la tradizione unitaria aveva prevalso. Il tentativo, nel novembre del 1907, di dar vita ad un Comitato Nazionale della Resistenza, autonomo dalla Confederazione Generale del Lavoro, aveva incontrato una sensibile resistenza tra le stesse file sindacaliste ed era naufragato sia per mancanza di adesioni sia per l’emigrazione forzata (in seguito agli sfortunati scioperi agrari di Piacenza, Argenta, Copparo, fino allo sciopero generale parmense dell’estate del 1908) dei suoi più tenaci sostenitori. Scriveva Alceste De Ambris alcuni anni dopo: “mancanza d’uomini, d’attività, di mezzi finanziari, e soprattutto di un centro direttivo veramente forte, resero vano il tentativo che i nostri compagni avevano fatto”. Quando, nel dicembre del 1910, il congresso bolognese dell’Azione diretta dava vita al Comitato Nazionale dell’Azione Diretta, sceglieva la via della minoranza organizzata all’interno della CGdL, respingendo le tentazioni scissioniste.
Alla fine del 1912, tuttavia, la situazione era profondamente mutata, tanto da permettere alle organizzazioni ad orientamento sindacalista di costituirsi in organismo a sé, l’Unione Sindacale Italiana appunto, con una consistenza effettiva di circa 60.000 iscritti (il Sindacato Ferrovieri milanese, 25.000 unità, aveva ben presto defezionato). Che cosa era cambiato nel frattempo? In termini generali, le condizioni politiche ed economiche: la crisi della mediazione giolittiana evidenziata dal piccolo cabotaggio imperialista dell’“impresa tripolina”, e quindi la crisi del riformismo da un lato; la recessione economica conseguenza del breve, ma grave collasso del 1907-1908, dall’altro. La pressione di larghe masse di disoccupati e di sottoccupati, che neppure la massiccia emigrazione riusciva a diluire, l’aggressività del fronte industriale e agrario, il rilancio dell’antimilitarismo di fronte al deteriorarsi (definitivo) dell’equilibrio internazionale, la radicalizzazione della stessa sinistra socialista erano tutti elementi del nuovo quadro. La contrapposizione tra sindacalisti e riformisti si era accentuata dopo il durissimo conflitto di Piombino e dell’Elba (1911), dove la Camera del Lavoro di Piombino, autonoma, si era trovata a dover fronteggiare il trust siderurgico con scarsa solidarietà da parte della FIOM, e dopo gli scioperi degli automobilisti torinesi del 1912, dove la FIOM e il recentissimo Sindacato autonomo si erano frontalmente scontrati sulla questione del “sabato inglese” e delle tolleranze in entrata e in uscita. Il passaggio, poi, al congresso di Reggio Emilia del 1912, della direzione del PSI nelle mani dei rivoluzionari e la contemporanea espulsione di alcuni “destri”, con solidi agganci nella CGdL, era parsa legittimare le speranze in un “nuovo corso”.
La scissione sul piano nazionale innescava una specie di reazione a catena. Quasi ovunque in Emilia l’unità locale si sgretolava, seppur con qualche significativa eccezione, Ferrara ad esempio. A Milano, dopo una dura battaglia all’interno della Camera del Lavoro, i sindacalisti costituivano nel marzo 1913 l’Unione Sindacale Milanese. Unioni Sindacali nascevano in diverse località lombarde e Sestri Ponente, Carrara e Piombino costituivano i punti di forza della fascia ligure e toscana.

Armando Borghi (1882-1968, sulla destra della scala centrale) a Parigi nel 1912, dove era riparato per sfuggire alle persecuzioni poliziesche

Serie ininterrotta di scioperi

Nel corso del 1913, la “scommessa” risultava vincente. La tensione cresceva progressivamente e sfociava in una serie quasi ininterrotta di scioperi di categoria (con epicentro a Milano) fino allo sciopero generale dell’agosto. Alla testa delle agitazioni, sempre e dovunque gli organismi locali o di categoria aderenti all’USI. Sull’onda del momento di alta conflittualità l’Unione Sindacale aumentava le proprie forze. Si avviava il processo di concentrazione delle leghe di uno stesso settore in Sindacati Nazionali d’industria (lavoratori della terra, delle costruzioni e della metallurgia). Sindacalisti, anarchici e perfino frazioni non trascurabili di repubblicani e socialisti guardavano all’USI come allo strumento per spezzare l’egemonia riformista e convogliare le spinte rivoluzionarie verso obiettivi precisi. Alla fine del 1913, l’USI contava circa 100.000 iscritti (localizzati soprattutto in Emilia, Lombardia, Toscana, Liguria) e poteva far leva sulla simpatia della maggioranza dei ferrovieri e dei lavoratori del mare. Si trattava della più consistente organizzazione sindacalista del mondo e superava probabilmente, come area di influenza anche se non come prestigio, perfino la corrente sindacalista della CGT. Soprattutto, fatto impensabile fino a poco tempo prima, sembrava in grado di tenere testa alla CGdL (che con la Federterra toccava i 300.000 iscritti) data la non eccessiva sproporzione di forze.
Indubbiamente la fase di crescita era stata anche una fase in cui le sconfitte avevano superato le vittorie e lo stesso sciopero generale dell’agosto aveva dimostrato sia le carenze strutturali dell’USI (mancanza di coordinamento centrale e spesso di quadri intermedi) sia la debolezza di una strategia basata sull’accelerazione della conflittualità. Il livello di scontro sul piano economico poteva rimanere elevato solo a condizione di offrire anche risultati positivi sul terreno pratico. Di qui un leggero mutamento di rotta, agli inizi del 1914, e un tentativo, da parte della leadership sindacalista, di “costruire” più accuratamente le forme organizzative e di “programmare” le stesse scadenze di lotta. Il trasferimento a Milano della sede dell’Unione (deciso nel dicembre del 1913 durante il II congresso), l’attenzione sempre maggiore verso il proletariato industriale, il superamento del localismo tipico delle organizzazioni agricole ne erano un segno evidente.
In realtà questo processo, che avrebbe dovuto rendere l’USI più funzionale al suo ruolo, rivoluzionario sì, ma pur sempre tipicamente sindacale, non riusciva a maturare. La “settimana rossa” prima (giugno 1914) e la guerra mondiale poi impedivano all’Unione di consolidare il proprio assetto e di radicarsi in profondità. La “settimana rossa”, sussulto insurrezionale improvviso, anche se non del tutto imprevedibile, obbligava l’USI a lanciare lo sciopero generale, in circostanze tutto sommato perdenti e soprattutto su di un terreno, quello della rivolta popolare, che non le era congeniale. Il meccanismo della “lotta economica” era saltato. Tutto si riduceva ad una protesta, più o meno efficace, più o meno radicale, ma sempre destinata a rimanere simbolica. Lo sciopero generale (grazie anche al ritiro della CGdL, che – secondo la propria tradizione – lo aveva concepito a tempo e puramente dimostrativo) si esauriva e l’USI si ritrovava a dover ricomporre con difficoltà le proprie file.

Foto segnaletica di Armando Borghi

Lacerazioni e contrasti

La guerra, poi, sviluppava all’interno dell’Unione, dei suoi stessi quadri dirigenti, una tendenza apertamente interventista, causa di lacerazioni e contrasti che portavano nel settembre 1914, al Consiglio Generale di Parma, ad una scissione. Il gruppo parmense e quello milanese (De Ambris, Masotti, Corridoni, ecc.), infatti, all’indomani dello scoppio del conflitto si erano orientati verso un’ipotesi di intervento: per la Francia repubblicana contro il militarismo austro-tedesco; per la futura rivoluzione contro la reazione. E se è vero che l’ala interventista era minoritaria, era altrettanto vero che trascinava con sé le due organizzazioni più importanti dell’USI, Milano e Parma, modificandone la geografia interna, e privava l’Unione del suo organo ufficiale «L’Internazionale» (sostituito alcuni mesi dopo dal bolognese «Guerra di classe»).
In ogni modo, più che l’uscita della componente “guerraiola”, era la decisa opposizione alla guerra, soprattutto dopo l’intervento italiano del maggio 1915, a mettere in crisi la tenuta dell’organizzazione. La chiamata alle armi e, per i più coriacei, l’internamento (come nel caso del segretario Borghi) ne bloccavano la crescita. Nel 1917 gli iscritti erano scesi a 50.000. Ma non era solo questo a determinare il tracollo. Mentre la CGdL (in particolar modo la FIOM) aveva accettato di entrare nel Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale, organismo paritetico (rappresentanti degli imprenditori, degli operai e del comando militare) con il compito di dirigere l’economia bellica, l’USI aveva rifiutato quella che le appariva come un esempio di collaborazione di classe. Con la conseguenza di isolarsi e di lasciare mano libera alle organizzazioni confederali. In effetti, al termine della guerra, nel momento più alto (1920), la CGdL superava i due milioni di iscritti, mentre l’USI (l’indicazione è di Giuseppe Di Vittorio, ma potrebbe essere ottimistica) non oltrepassava le 500.000 unità. Un divario eccessivo perché potesse essere colmato soltanto da una maggiore combattività.
Del resto, nel cosiddetto “biennio rosso” (1919 – 1920), erano gli avvenimenti, spesso se non sempre, a precedere le organizzazioni. Così la nascita dei Consigli di fabbrica, che l’USI, nel suo congresso parmense del dicembre 1919, salutava entusiasticamente; così le agitazioni operaie e i moti del caro viveri del ’19, che vedevano l’USI presente, ma non promotrice. Anche l’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920, nata dall’ostruzionismo dei metallurgici (che aveva visto FIOM e Sindacato Nazionale Metallurgico dell’USI associati) aveva avuto più i caratteri della spontaneità che della mossa predeterminata. Certo, l’USI, sul terreno della volontà di lotta non aveva esitazioni, ma quello che le sfuggiva, tranne forse in alcune zone e in particolari settori, era la capacità di rappresentare la possibilità del mutamento reale, la potenzialità rivoluzionaria. Non si vuol dire con questo che la rivoluzione fosse possibile. Ma non era questo a contare. Era l’USI a non costituire più il punto di riferimento delle tensioni rivoluzionarie. La rivoluzione russa aveva cambiato le cose. In un primo momento, infatti, nel 1919, l’USI non solo aveva aderito alla III Internazionale, ma aveva visto la “concezione sovietistica della ricostruzione sociale come antitetica dello Stato”. Ben presto, però, una più profonda conoscenza e analisi degli avvenimenti russi aveva portato alla critica e al distacco. Tanto che nel 1922 l’USI aderiva alla nuova Associazione Internazionale dei Lavoratori berlinese (sindacalista rivoluzionaria) dando luogo al suo interno a vivaci polemiche tra la maggioranza anarchica e sindacalista e la minoranza filocomunista.

Alberto Meschi (1879-1958)

Fratture verticali

L’USI, come anche la CGdL, veniva attraversata da fratture verticali, il cui motivo originario erano i rapporti con le forze politiche del momento. E questo metteva in forse la sua unità. Si faceva strada anche, soprattutto tra i sostenitori del legame con Mosca, l’idea di una fusione con la CGdL, in linea con la tesi leninista dell’unità sindacale. Il problema emergeva con chiarezza al IV Congresso nazionale (Roma, marzo 1922) che doveva anche affrontare la scottante questione delle candidature politiche di esponenti come Faggi e Di Vittorio. L’ipotesi dell’unificazione veniva respinta, ma non eliminata. Nel 1925 era la volta di anarchici come Malatesta, Fabbri e Molaschi, ad invitare, senza successo, i resti dell’USI ad unirsi alla CGdL (“visto che l’Unione Sindacale Italiana non può far altro che seguire l’azione della Confederazione del Lavoro, a quale scopo mantenerla o contribuire a mantenerla in vita?”, scriveva quest’ultimo nel marzo 1925). Tali proposte, indipendentemente dalla strategia leninista, avevano il pregio di essere realiste. Dopo l’occupazione delle fabbriche il movimento operaio era stato costretto sulla difensiva dalla massiccia offensiva fascista. Nel 1921/22, l’obiettivo principale era l’opposizione al fascismo dilagante che distruggeva materialmente le organizzazioni operaie e contadine, colpendo individualmente i dirigenti e i militanti e devastando le sedi. Nel novembre 1922, un esposto dell’Unione al Ministro dell’Interno parlava di “quasi tutte le organizzazioni – sindacati e camere del lavoro – distrutte o poste in condizione di non poter funzionare regolarmente”. Nel 1925, in una fase di totale riflusso, non si può certo dire che Unione Sindacale e CGdL si differenziassero molto, sul piano della pratica sindacale. Ma le speranze unitarie finivano con il cozzare contro forti resistenze sia nell’USI che nella Confederazione. Le lacerazioni erano troppo profonde per pensare di ricucirle con una decisione, tutto sommato, di vertice.

Roma, 10-13 marzo 1922. IV Congresso dell'Unione Sindacale Italiana

Decimata dagli arresti

L’avvento del fascismo significava in pratica la distruzione dell’Unione Sindacale. Attaccata ben più duramente della CGdL, l’USI già nel 1923 era costretta a chiudere il proprio organo «Guerra di classe» e a sostituirlo, l’anno successivo, con un mensile “di studi” dal titolo “tranquillo” («Rassegna sindacale») e a vivere una vita semiclandestina. Le sue fila venivano decimate da arresti in massa e da processi per “sindacalismo criminale”. Malgrado una resistenza tenace e tentativi di riorganizzazione in alcune zone (Puglie, Liguria, Toscana) l’USI non aveva ormai più nessuna possibilità di azione. La vita sindacale era semplicemente una formalità e solo qualche sporadico sussulto (gli scioperi dei metallurgici nel 1925, ad esempio) sembrava mettere in discussione l’egemonia fascista. Agli inizi del 1925, del resto, prima ancora del Patto di Palazzo Vidoni (con cui la Confindustria stabiliva relazioni uniche con i sindacati fascisti) e delle leggi eccezionali che mettevano fuori gioco partiti e sindacati “liberi”, l’USI veniva dichiarata illegale. Un ultimo tentativo (un congresso clandestino, tenuto a Genova nel giugno1925), pur in un coro di speranze, era la dimostrazione definitiva del crollo. L’Unione Sindacale non esisteva più né i comitati fondati nell’emigrazione (quello parigino in particolare) riuscivano ad assicurarle la continuità. «Guerra di classe» riprendeva le pubblicazioni in Francia sul finire degli anni Venti e le continuava, irregolarmente, negli anni Trenta, ma l’Unione Sindacale non poteva ormai essere che un semplice simbolo.

Maurizio Antonioli

 

L’USI-AIT oggi

Riattivata alla fine degli anni settanta, l’USI-AIT è oggi una componente importante all’interno del Sindacalismo di Base e della conflittualità sociale.
L’USI è diffusa sul territorio nazionale con sue Unioni Locali territoriali e Sindacati Aziendali e di Settore.
Particolare importanza la presenza nella Sanità dove l’USI-AIT risulta uno dei Sindacati più forti in importanti ospedali della Lombardia (e a livello nazionale in tutta la sanità privata) con significative presenze anche a Trieste, nella provincia di Savona e in altre realtà. L’esperienza e la lotta condotta dai Sindacati Autogestiti USI degli ospedali milanesi (San Raffaele, San Paolo, San Carlo, San Gerardo di Monza, ecc.) ne fa da tempo punto di riferimento per tutta la conflittualità di questo settore.
Nelle Poste (UsiPostel), negli Enti Locali, nel Commercio e tra le Arti e mestieri l’USI opera con suoi sindacati nazionali di settore (un altro è in costituzione nella Scuola). Presenze anche tra le cooperative sociali, i metalmeccanici, i precari e i disoccupati.
Da segnalare infine le vincenti belle battaglie condotte nella cartiera della Val Bormida (Sv) dove la quasi totalità dei lavoratori è iscritta all’USI.
Territorialmente consistente è la presenza USI in Lombardia (con le Federazioni, oltre a Milano, della Brianza, di Brescia e di Bergamo) mentre attive sezioni operano a Trieste, Udine, Pordenone, Savona, Firenze, Bologna, Parma, Reggio Emilia, Correggio, Ancona, Macerata. Recentemente si è ricostituita una combattiva sezione USI nella provincia di Massa e Carrara. Altri nuclei e gruppi operano in diverse altre città e regioni.
Caratteristica particolare dell’USI è l’aver mantenuto intatta la sua struttura assembleare e autogestionaria, priva di qualsiasi burocrazia.
In questa fase l’USI, in coerenza con la sua scelta antimilitarista, si sta impegnando a fondo nella lotta contro la guerra e il militarismo promuovendo mobilitazioni, boicottaggi e scioperi.
Tra i recapiti: Segreteria Generale e Redazione “Lotta di Classe”: USI, via Dalmazia 30, 60126 Ancona (e-mail: usi-ait@ecn.org, tel.: 071-32047).
Periodico dell’USI è “Lotta di Classe”. Abbonarsi costa 15,00 euro da inviare con ccp 10284602 intestato a USI via Dalmazia 30 Ancona.
Per contatti con l’USI Sanità: e-mail usis@libero.it.

Gianfranco Careri
segretario nazionale dell’USI-AIT