Rivista Anarchica Online


guerra

Semantica delle patatine
di Carlo Oliva

 

Non più “french fries”, ora si chiamano “freedom fries” le patatine in vendita al Congresso USA. Alla faccia di Chirac.

Avrete probabilmente dimenticato, con tutto quello che è successo, che uno dei primi segnali che hanno fatto capire agli analisti internazionali che gli Stati Uniti avevano preso l’irrevocabile decisione di scatenare la guerra, checché ne dicessero i vari Chirac e Schröder, è stata la decisione di cambiare il nome delle patatine comunemente servite come contorno alla cafeteria del Congresso di Washington. Invece di un piatto o un cartoccio di french fries («fritte francesi», come venivano chiamate fino ad allora) senatori e deputati hanno dovuto adattarsi a chiederne uno di freedom fries, che vuol dire «fritte della libertà», un termine che in sé poteva suonare vagamente ridicolo, ma aveva il vantaggio, se non altro, di conservare l’allitterazione originaria e di richiamare alla memoria quell’operazione Enduring Freedom in cui il paese si sentiva impegnato. Qualcuno avrà pensato che, di fronte a tanti vantaggi, i legislatori a stelle e strisce, facendo appello al proprio ben noto spirito patriottico, avrebbero potuto ben rassegnarsi a investire, nell’ordinare il proprio contorno preferito, il fiato necessario per una sillaba in più.
La notizia, in sé, poteva sembrare abbastanza cretina, soprattutto nel contesto tragico di una guerra (allora) imminente, e in effetti sono stati parecchi i commentatori che, quando ancora ce lo si poteva permettere, non hanno resistito alla tentazione di riferirne con un minimo di ironia. Ma il nazionalismo linguistico, per quanti aspetti ridicoli abbia, è una cosa più seria di quanto non paia e, soprattutto, non risparmia nessuno. Chiunque abbia commesso l’errore di ordinare in un bar greco un caffè «turco» (o, suppongo, viceversa) può testimoniare di come, in certi contesti, l’identità del significato non escluda la contraddittorietà ideologica dei significanti. E in questi giorni di solidarietà franco tedesca pochi possono immaginare la virulenza con cui, negli anni ’30 del secolo scorso, in Francia si dibatté il problema dell’acqua di Colonia, un vanto dell’industria profumiera nazionale che i veri patrioti volevano a ogni costo ribattezzare «acqua di Parigi», per epurarne l’immagine da ogni allusione ai nemici d’oltre Reno (perché Colonia era, e restava, stranamente, una città tedesca). All’epoca la situazione fu risolta osservando come in tutto il mondo, Germania compresa, quel profumo si definisse comunemente eau de Cologne, una vittoria linguistica che faceva aggio, evidentemente, sulla subordinazione toponomastica e che si poteva, nel caso, accentuare, scrivendo, come da allora si scrive, cologne con la minuscola. La decisione, d’altronde, fu premiata dal successivo fallimento di ogni tentativo tedesco di ribattezzare il prodotto come Kölnischwasser. Ma di episodi del genere sono piene le cronache, a dimostrazione del fatto che quando si tratta di contrapporre un uso linguistico a un altro nessuno è mai arretrato di fronte al senso del ridicolo.
I nomi, si sa, non sono neutrali e meno che mai lo sono quelli dei cibi di cui ci nutriamo. Figuriamoci nel caso delle patate fritte, che, nella versione comunemente servita in America, di francese non hanno praticamente nulla, ma che in Francia, preparate in ben altro modo, sono considerate un vanto della cucina nazionale, il più semplice e degno accompagnamento che si possa trovare per una bella bistecca e se c’è della gente che, come in America, si ostina a servirle con le polpette di carne tritata tanto peggio per loro. Basta andare a rileggersi, per documentazione, quanto sul tema «bistecca e patate fritte» scriveva, già nel 1957, Roland Barthes in Mythologies (Miti d’oggi, per il lettore italiano): ricordando le polemiche suscitate dal generale de Castries che, per il suo primo pasto dopo la firma dell’armistizio in Indocina, aveva ordinato un piatto di patate fritte, come volesse esprimere la volontà di riappropriarsi di un’identità nazionale che l’esito di quella guerra aveva un po’ scarrufato, l’illustre semiologo non esitava a definire quell’alimento «Il segno alimentare della ‘francesità’».

Prestigio francese

La patata, peraltro, è un prodotto tipicamente americano: è anzi uno dei doni più importanti, sul piano alimentare, che dal nuovo continente siano giunti nel resto del mondo, il vegetale la cui introduzione ha salvato interi paesi, dall’Irlanda a quelli dell’Europa centrale, da una storia di secolare miseria e carestie ripetute. Ma è in Europa (anzi, proprio in Francia) che si è imparato a mangiarne ed è dall’Europa che il suo consumo è rimbalzato nella terra d’origine, portando con sé una serie di consuetudini alimentari cui si sono fatalmente aggregati dei tipici giudizi di valore. Non sarà un caso, così, se negli Stati Uniti la preparazione «alla francese» – le french fries, appunto – è considerata più pregiata di quella «casalinga», le home fried potatoes, che riflettono, alla lontana, una tradizione mitteleuropea, che, sul piano gastronomico, è normalmente assai meno rinomata. In quel contesto, come in altri, del resto, l’aggettivo non ha una connotazione nazionale, ma una, soprattutto, di eccellenza. Le patate fritte si dicono «francesi» per lo stesso motivo per cui i vignaioli californiani, che sono quasi tutti, per inciso, di origine italiana, cercano di nobilitare i loro vini più correnti con nomi quali burgundy e chablis, anche se con quei nobili vitigni il prodotto, in sé, ha poco a che fare. Il meccanismo si ripete anche fuori dall’ambito alimentare: basterà ricordare, senza stare a perdersi nelle insondabili problematiche del french kiss, le porte finestra che danno in giardino, che negli U.S.A. non si chiamano french doors perché vengono dalla Francia, ma perché chi vive in una villa circondata dal verde si considera portatore di una raffinatezza e di una civiltà superiore alla media di quanti vivono in un volgare appartamento. Si tratta, in fondo, di un lontano ricordo dei tempi in cui, nel sistema di valori dei coloni ribelli alla madre patria inglese, tutto ciò che si collegava al potente alleato francese godeva di un ovvio prestigio. In fondo gli Stati Uniti, nella loro breve storia, hanno combattuto ben due guerre contro la Gran Bretagna e una, particolarmente sporca, contro la Spagna, mentre con la Francia le cose sono sempre andate piuttosto bene. È ovvio che la rottura (se una rottura c’è stata davvero) oggi sia sentita come particolarmente grave e si senta il bisogno di sanzionarla con la dovuta evidenza. E visto che non è possibile rimandare a Parigi la Statua della Libertà, che è il simbolo storico di quella amicizia (ma qualcuno, a New York, lo ha seriamente proposto…), si può sempre provare a cancellare i termini gallici dai menù dei ristoranti, anche se sembra che ci siano delle difficoltà per il filet mignon, e cambiare, quanto meno, il nome alle patatine.

Una guerra cretina

È chiaro, comunque, che in questa sorta di battesimo sono in gioco delle ritualità e delle motivazioni più complicate di quanto si possa supporre. Oltre al piacere, sempre indiscutibile, di fare un dispetto a qualcuno che, per un motivo o per l’altro, ti sta antipatico, ha a che fare con la volontà, più o meno esplicita, di ridefinire il proprio sistema di riferimenti culturali. L’America, in questi giorni, ha compiuto davvero un salto di qualità, non tanto sul piano della sua politica estera, che resta ispirata, come succede ormai da oltre un secolo, al principio roosveltiano del «grosso bastone», quanto su quello della consapevolezza relativa. In pratica, ha allargato al mondo intero la dottrina di Monroe e un evento di questo genere, in un modo o nell’altro, andava adeguatamente segnalato.
Naturalmente la vecchia, nobile (e inettissima) Europa potrebbe provarsi a reagire dando il bando agli american bar, rinunciando una volta per tutte all’homard à l’américaine, restituendo alle noccioline salate il loro corretto locativo africano, cambiando aggettivo alla gomma da masticare e decidendo solennemente, a ulteriore affermazione della propria identità, che un aperitivo composto in parti uguali da bitter e vermut, con una fetta di arancia e uno schizzo di acqua di soda, non si può chiamare più «americano». Materiale per la contesa, a cercarlo, ce ne sarebbe parecchio e chiunque se la senta può fare le sue proposte in merito. E sì, sarebbe una guerra cretina, ma non mai tanto cretina quanto il tragico massacro che hanno scatenato l’americano Bush, l’europeo Blair e i loro amici e sottoposti nei vari continenti.

Carlo Oliva