Rivista Anarchica Online


costume

Dolenti e condolenti
di Carlo Oliva

 

A proposito dell’abbuffata mediatica sui funerali dell’Avvocato (e sui suoi meriti francamente inesistenti).

Non so se vi siate chiesti anche voi cosa ci facessero Cofferati, D’Alema e Fassino al funerale di Giovanni Agnelli. È una domanda, lo ammetterete, che merita di essere posta. Nessuno di loro, per quel che mi risulta, era in rapporti di amicizia con il defunto, o aveva particolari obblighi e relazioni con la sua famiglia, né si poteva spiegare la loro presenza come un obbligo ex officio, nei termini di una doverosa partecipazione alle esequie di una pubblica personalità. Il presidente onorario della Fiat, per quanto noto e ammirato nell’intero paese, non era, in senso stretto, una personalità pubblica, visto che quella di senatore a vita è una carica essenzialmente onoraria e onorifica, delle cui prerogative, oltretutto, lo scomparso, a differenza di altri, non abusava. Né mi sembra si possa o parlare, come pure si è fatto, di una sorta di commosso riconoscimento della correttezza e della lealtà dell’avversario, perché, a parte il fatto che quella dell’ossequio all’avversario leale è una leggenda che alligna più nei romanzi di cappa e spada che nel mondo della politica, nessuno dei tre poteva avere dimenticato (almeno mi auguro) la spregiudicatezza con cui, in tutti questi anni, la dirigenza Fiat ha condotto la sua battaglia contro le organizzazioni dei lavoratori e i partiti politici a esse vicini. La lotta di classe (se mi permettete di continuare a chiamarla così) non è un pranzo di gala, ma nei paesi democratici le relazioni industriali dovrebbero essere improntate a un certo numero di regole cui non sempre i signori dell’automobile si sono attenuti.
Eppure erano lì, gli uomini che impersonano – a quanto si dice – il passato, il presente e il futuro della sinistra, insieme a buona parte del loro stato maggiore e a quello dei partiti alleati e vicini, in compagnia delle più alte autorità dello stato, dei vertici aziendali e di una quantità di persone più o meno degne costrette a fare atto di presenza perché nei riti di questo tipo si estrinsecano dei rapporti sociali da cui non sempre si può prescindere, ad ascoltare compunti le cortesi banalità pronunciate dal cardinale arcivescovo e a manifestare un lutto che non si capiva proprio perché dovessero sentire, al di là del doveroso senso di perdita che ogni persona civile prova (o dovrebbe provare) per la scomparsa di un altro, perché nessun uomo è un isola, naturalmente, e non bisogna mai chiedersi per chi suona la campana, non ci piove, ma poi, per un motivo o per l’altro, i funerali dei ricchi e dei potenti sono sempre affollati e a quelli dei poveri ignoti non ci va mai nessuno. E di fatto al funerale di Agnelli sono andati in tantissimi, mossi ciascuno da chissà quali motivi suoi, non tutti necessariamente deplorevoli, chi dalla curiosità, chi dalla devozione, chi dallo snobismo sociale chi dal semplice gusto di esserci, ma accomunati comunque tutti da un senso dell’ossequio che si tingeva, nobilitandosi, con i colori dell’ammirazione.
Del resto, l’ossequio e l’ammirazione hanno rappresentato la cifra dominante, se non esclusiva, del giorno dei funerali e dell’abbuffata mediatica che li ha preceduti e seguiti. Anzi, lo zelo degli incensatori è stato, a ben vedere, tanto e tale, si è librato così manifestamente sopra le righe, da far sì che molti si siano chiesti perplessi se non fosse, per avventura, un po’ esagerato. Avrete notato anche voi come a tanta abbondanza di lodi non sempre corrispondesse una motivazione convincente: come l’eccellenza dell’Avvocato, sulla stampa e in televisione, sia stata più spesso affermata che illustrata nei dettagli. E si capisce anche: non era facile dipingere come un colosso intellettuale e un pilastro della tradizione umanistica un uomo che, oltre a dispensare battute piuttosto sciocche sulla propensione delle cameriere a innamorarsi et similia, ben di rado si è fatto sorprendere a un concerto o con un libro in mano (e se collezionava quadri, non vale, perché quello può essere considerato soprattutto un buon investimento), mentre i suoi interessi più vivi vertevano, a quanto si è appreso, sulle partite di calcio e sulle corse di formula uno, due attività rispettabilissime e care a molte persone dabbene, senza però che la cosa sia in sé garanzia di una particolare affidabilità culturale.
E ancora più difficile, naturalmente, era presentare come un mago del management un imprenditore che, avendo a suo tempo ricevuto dalle mani dell’ingegner Valletta un’azienda sana, vitale e padrona assoluta del suo mercato (si è parlato, se non ho capito male, del quinto gruppo automobilistico al mondo) l’ha lasciata, se non proprio al tracollo, come minimo ridotta al lumicino, in stato di sorveglianza speciale da parte delle banche creditrici e alla mercé delle più ambigue e impreviste “cordate” che la fantasia dei nostri finanzieri riesca a immaginare.
Non sarà stata tutta colpa sua, figuriamoci. I tempi cambiano, i mercati anche e la cultura industriale si evolve. Ma questo è il punto, nel senso che di questa evoluzione non sembra che l’illustre defunto abbia saputo, come dire, tenere completamente il passo. E il giudizio, ovviamente, va formulato tenendo presente quanto, in termini di politiche e di risorse, è costata alla comunità nazionale l’eterna crisi della Fiat. Per cui, se oggi la Famiglia (con la F maiuscola, mi raccomando) sembra mantenere potere e ricchezza, ed è convinta di poterli mantenere ritirandosi, guarda un po’, dal settore dell’automobile, mentre l’Azienda che di quella ricchezza e di quel potere avrebbe dovuto essere la fonte e l’origine se ne va allegramente a rotoli, è difficile sfuggire all’impressione che l’Avvocato e i suoi, senza offesa, abbiano ricevuto molto di più di quanto abbiano saputo concretamente dare. Questa, d’altronde, è la legge fondamentale del capitalismo, un sistema per cui è normale che i pochi si arricchiscano a spese dei molti, e non si vede perché il loro caso avrebbe dovuto fare eccezione.

Migliore di Berlusconi?

A cambiare, si intende, non sono state solo la cultura industriale e il mercato automobilistico. Nel rimescolamento degli ultimi anni si sono trasformati, se non i valori di fondo del sistema produttivo, almeno i modi con cui si era soliti percepirli. Per cui è stato possibile che quello che, una volta, incarnava l’immagine del Padrone per eccellenza (con tutto quanto di negativo questa connotazione comportava, perché i padroni, nell’immaginario di allora, erano considerati, proprio in quanto sottratti al bisogno, gente un po’ dissoluta, o, come minimo, esente dagli obblighi di frugalità, laboriosità e rettitudine morale che si esigevano, in forme diverse, dalle classi lavoratrici e dalla borghesia produttiva) venisse visto come una sorta di benevola divinità super partes, come qualcuno che, pur facendo, come inevitabile, i propri interessi, andava considerato, se non altro, migliore di un Berlusconi. Un paragone in cui certe differenze di stile, come ha notato, unico tra i commentatori, Adriano Sofri, sono state forzate fino a sembrare vere e proprie differenze di qualità. Ma per chi delle differenze di stile non si preoccupa, anche perché sa quanto dipendano, in ultima analisi, dalle tecniche di comunicazione, un paragone non aveva ragione di essere. È probabile che i due personaggi non avessero l’uno per l’altro una gran simpatia, se non altro per via del noto principio che non ammette la presenza di troppi galli nello stesso, ridotto pollaio, ma questo non esclude la loro appartenenza alla stessa classe e, in fondo, alla stessa tipologia umana. Di fatto, quando è stato necessario, hanno sempre saputo trovare un accordo profittevole per ambedue.
Cosa ci facevano, allora, gli esponenti della sinistra al funerale di Agnelli? Be’, è abbastanza ovvio: manifestavano il proprio rifiuto (o, se preferite, la propria incapacità) di concepire la dialettica sociale secondo quei vecchi modelli. Erano lì a seppellire, non che l’Avvocato, la contraddizione tra capitale e lavoro o, più modestamente, la contrapposizione tra quei lavoratori che formano ancora la maggior parte del loro elettorato e i padroni. Avranno avuto, naturalmente, le loro buone ragioni e non è la sede, questa, per metterle in discussione. Ma visto che quel funerale è stato organizzato come una sorta di trionfo postumo, a me, che volete che vi dica, la loro presenza ha ricordato un po’ quella dei capi dei popoli vinti ai trionfi dei generali antichi. E non obiettatemi che, a differenza di Vercingetorige al trionfo di Cesare, nel duomo di Torino Fassino, D’Alema e Cofferati ci erano andati di loro spontanea volontà, che nessuno li aveva costretti. È questo, appunto, il problema.

Carlo Oliva