Rivista Anarchica Online


nativi americani

Canto senza fine
intervista di Elena Barbieri e Gianni Sartori
a Gilbert Douville

 

Rivediamo con piacere il poeta lakota Gilbert Douville che avevamo già conosciuto a Firenze per un incontro organizzato dal movimento U.N.A. (Uomo-Natura-Animali). Stavolta l’occasione viene dalla presentazione del suo libro Canto senza fine (Unkapi Editore, Genova), una raccolta di circa cinquanta poesie in versione originale con testo italiano a fronte.
La conversazione riparte dalla garbata polemica con cui ci eravamo lasciati e riguarda la questione se sia o meno lecito uccidere i nostri fratelli animali per nutrirsene. Naturalmente Gilbert espone la sua tesi per cui, in condizioni ambientali proibitive come quelle delle Montagne Rocciose, delle praterie nordamericane o delle foreste canadesi (ma lui attualmente vive a Torino), era impensabile sopravvivere senza fare uso anche di proteine di origine animale. Noi, animalisti e vegetariani, pur apprezzando sicuramente il profondo rispetto che traspare dalle culture degli Indiani d’America per ogni essere vivente e per la Madre Terra, manteniamo qualche perplessità.

Ne avevamo già parlato a Firenze. Come mai gli Indiani, che consideravano gli animali loro fratelli, li uccidevano per mangiarli?

Sostanzialmente perché avevano fame. In realtà prima di ucciderli ringraziavano il loro spirito, ringraziavano il bisonte o il cervo dicendogli che un giorno lo avrebbero ricambiato nutrendo i suoi cuccioli. Gli Indiani avevano due modi per “seppellire” i morti: o sopra un albero o su un’impalcatura. In questo modo i corpi si decomponevano rapidamente e i resti cadevano al suolo. L’erba posta sotto all’impalcatura diventava molto verde, rigogliosa e i figli del cervo e del bisonte potevano nutrirsene. In questo modo gli Indiani mantenevano la promessa di sfamare i cuccioli degli animali uccisi. Tutto questo appartiene al Grande Cerchio della Vita in cui ogni cosa è legata alle altre…

Questa vostra consapevolezza del profondo legame tra tutte le creature ci riporta al problema del rispetto per la vita; qual è il tuo pensiero di fronte ai disastri ambientali, alle devastazioni provocate dall’umanità sul pianeta Terra?

A volte mi pongo domande sul destino di questo pianeta e penso che la Terra ha qualcosa che noi umani non possediamo, se non in una quantità molto esigua: il tempo.
Noi umani siamo folli, facciamo alla Terra cose terribili. Quasi non pensiamo che dopo la nostra morte la Terra andrà avanti comunque. Noi abbiamo una vita molto breve, soltanto la Terra “possiede il Tempo”. Rispetto agli altri animali l’uomo è un essere molto particolare: ha paura, è molto possessivo, difficilmente vuol condividere quello che ha. Per difendere quello che possiede costruisce armi sempre più potenti; addirittura la bomba atomica, l’arma più micidiale (v. la poesia No nukes di Gilbert. N.d.A.)… L’uomo è talmente folle che, piuttosto di condividere, è disposto anche a massacrare i suoi simili… e si dimentica della brevità della sua vita di fronte a quella della Terra.

A quanto ci risulta anche gli Indiani avevano un loro sistema difensivo, ma sicuramente i loro rapporti sociali erano molto meno militarizzati, burocratizzati e condizionati dalla tecnologia… Cosa puoi dirci in proposito?

Premetto che il mio nome indiano significa “Sognatore del Cervo”, un nome che si richiama ad una precisa tradizione nell’organizzazione sociale e difensiva dei Lakota.
Noi Lakota riceviamo i nomi come voi, anche se sono molto più legati alla tradizione. Talvolta è il nome di un parente, di un antenato…Questo era il nome di mio zio.
Molti di voi credono che gli Indiani vivessero in villaggi “caotici”. In realtà erano molto ben organizzati. Essendo una società di guerrieri avevamo anche una forte organizzazione “militare” per poter difendere la nostra gente. Immaginate un primo cerchio esterno intorno al villaggio: erano i soldati-cane, i “possessori della lancia” che costituivano la prima linea di difesa intorno al villaggio. Poi c’era un’altra linea di guerrieri (“akismita”) che svolgevano una funzione di “polizia”. A loro spettava sia il compito di proteggere il villaggio che quello di andare a caccia. Inoltre dovevano far rispettare le regole per la convivenza del villaggio e sembra che fossero molto severi. Se poi i nemici fossero riusciti a superare anche questa seconda linea ce n’era un’altra, il terzo dei cerchi concentrici.
Questo era costituito da guerrieri molto particolari denominati “possessori della fascia”; la fascia era lunga alcuni metri e veniva fissata al suolo con una lancia. I guerrieri erano così simbolicamente vincolati e non potevano fuggire. Le norme tribali imponevano anche ai nemici di attaccarli uno per volta. Se il guerriero “portatore della fascia” era particolarmente valoroso, poteva accadere che tutti i nemici venissero sconfitti. Talvolta un amico, per pietà, strappava la lancia dal suolo per “liberarlo”, permettendogli di mettersi in salvo senza perdere l’onore. L’ultima barriera posta intorno alle donne e ai bambini raccolti al centro del villaggio erano i “Sognatori del Cervo”, un animale simbolo della forza e che si ritiene possa sacrificare la sua vita per il branco. Prendendo il nome di un animale se ne prendono le qualità e il cervo era considerato un grande amatore (raccoglie un gran numero di femmine attorno a sé) per cui questi guerrieri diventavano anche grandi esperti di problemi sentimentali. In tempo di pace svolgevano un ruolo di “consulenti matrimoniali” e spesso i giovani andavano da loro per farsi consigliare nelle questioni amorose. Per inciso: forse è per questo che molte delle mie poesie sono poesie d’amore…

Dicevi che anche la prima poesia del tuo libro (Schiavitù) in realtà è una poesia d’amore…

Io penso che tutto sulla Terra abbia un senso e che soprattutto noi umani non siamo fatti per vivere da soli. Ho scritto Schiavitù pensando a tutti quelli che per timidezza, per paura di manifestare i loro sentimenti alla persona amata scelgono di vivere in solitudine. Scrivo prendendo spunto dalle mie esperienze, da cose concrete e spero talvolta di poter aiutare qualcuno…
Negli USA, oltre alle vaste aree naturali, abbiamo molte grandi città, vere megalopoli che sembrano quasi vivere di vita propria, che ingannano le persone costringendole a correre, a non trovare il tempo per se stesse; forse per questo molte persone sembrano invecchiare troppo in fretta, prima del tempo. Da vecchi poi si comincia a pensare al tempo in cui si era giovani, alle occasioni che la vita ci aveva offerto…E ci si chiede: “Come sarebbe stato se…?” Se, per esempio, avessi avuto il coraggio di parlare con quella persona…

Sostanzialmente si può dire che la visione del mondo dei nativi americani è profondamente impregnata del senso del sacro. Tu parlavi anche della “preghiera”; cosa puoi dirci a riguardo?

Per noi pregare è molto importante, sempre. Cerchiamo di pregare continuamente affinché la religione cresca con noi, non rimanga statica.
Guardiamo al Grande Spirito come a nostro padre; talvolta quando preghiamo piangiamo, forse pensando che nessun genitore potrebbe negare qualcosa a un figlio in lacrime. Digiuniamo per molti giorni e facciamo anche “sciopero della sete” affinché il Grande Spirito ci ascolti. Noi chiamiamo la nostra preghiera “piangere mentre si parla”; invece “piangere nella notte” indica la ricerca di una visione. Anche gli Ebrei anticamente avevano le “visioni”: Abramo, Mosè; lo stesso Gesù Cristo andò nel deserto per avere una visione (v. la poesia Vision). Per avere una visione, oltre al digiuno, ci affidiamo agli elementi naturali. Pregando ci rivolgiamo prima verso l’Ovest e poi verso le altre direzioni ritornando infine all’Ovest. Questo perché noi riteniamo che la vita incominci e si concluda nell’oscurità. Da quando veniamo al mondo facciamo un percorso di ritorno verso l’oscurità, verso la Terra nostra Madre: dal grembo della madre al grembo della Terra.

Quello subito dagli Indiani d’America è stato sicuramente un vero e proprio genocidio. Qual è la tua opinione?

Sicuramente i pionieri prima e il governo americano poi hanno ripetutamente cercato di sterminare i nostri popoli. Questo è avvenuto in vari modi, alcuni più compatibili con la religione dei colonizzatori cristiani. Per anni la propaganda (soprattutto con il cinema) ha descritto gli Indiani come feroci selvaggi alla continua ricerca di scalpi. Tra l’altro quello dell’indiano cacciatore di scalpi è uno dei tanti stereotipi che ci hanno ricucito addosso. La tecnica di scalpare i nemici uccisi esisteva ma era stata avviata dai coloni francesi e inglesi che uccidevano gli Indiani. Come si poteva dimostrare di aver ucciso un indiano? La prova era costituita dal cuoio capelluto; alcuni governi offrivano una taglia per ogni scalpo: 15 dollari per lo scalpo di un guerriero, 10 dollari per quello di una donna, 5 dollari per quello di un bambino.
Questa politica portò all’uccisione di migliaia e migliaia di Indiani; molte tribù dell’Est si estinsero completamente. Un altro modo per sterminarli era quello di esporli alle malattie portate dall’Europa: colera, peste…anche la semplice influenza dato che non avevamo anticorpi specifici. Si calcola che all’arrivo degli Inglesi e dei Francesi in America vivessero circa 100 milioni di persone; solo duecento anni dopo ne sopravvivevano meno di un milione. Il 90% dei decessi era stato provocato dalle malattie, dato che queste viaggiano più veloci degli uomini.
Successivamente lo “spirito cristiano” dei colonizzatori ha modificato tale politica genocida
Passando all’assimilazione forzata. Volevano trasformare ogni indiano rinchiuso nelle riserve in un agricoltore, possibilmente cristiano. A tale scopo le riserve vennero “lottizzate”, divise a scacchiera, in modo che ogni religione cristiana avesse il suo settore. La riserva dove io sono nato per esempio era equamente divisa tra cattolici e protestanti. Contemporaneamente il governo impediva l’esercizio delle nostre pratiche religiose tradizionali e di molte feste rituali. Questa politica è durata molto a lungo, fino al 1967.

Di questo attacco alla vostra identità hai avuto anche qualche esperienza personale?

Essendo nato nel 1951 ho avuto modo di sperimentarla di persona. A cinque anni ho dovuto andare in collegio dai missionari, i gesuiti tedeschi che gestivano la parte “cattolica” della riserva. Se ci sentivano parlare in lingua lakota ci facevano mangiare sapone, quasi che dovessimo “ripulirci la bocca”…L’ho dovuto mangiare talmente tante volte che alla fine quasi mi piaceva, dopo il bruciore iniziale era come masticare gomma. Nella poesia Missionary ho scritto: “Danzavo tra le colline/ Poi sei venuto tu/ a trascinare in basso il mio spirito/ hai detto che ero malvagio…”.
Purtroppo i missionari sono riusciti a indebolire le nostre tradizioni, rendendo le persone molto confuse. Hanno cercato in tutti i modi di distruggere l’indianità dei Lakota; dentro alle riserve non dovevamo sentirci indiani, quando uscivamo dalle riserve venivamo identificati come indiani…Non capivamo più quale fosse la nostra vera identità e molti si sono rivolti all’alcool e alla droga.

Anche sull’abuso di alcool hai scritto qualcosa…

Quello dell’alcool è ancora un grosso problema per molti Indiani. Viene usato per dimenticare questa crisi d’identità. Alcuni mi dicono che soltanto quando bevono riescono a parlare la proprie lingua, a cantare, a eseguire le danze tradizionali senza vergognarsene.
È un circolo vizioso che alimenta l’autodistruzione. Negli USA l’età media è di 76 anni, nelle riserve è di 47. L’alcool si porta via ancora molte persone tra gli Indiani. Per fare un esempio: nel mio collegio avevo trenta compagni di scuola; ne sono ancora in vita soltanto tre e la maggior parte è morta prima dei trent’anni, soprattutto a causa dell’alcool o di incidenti provocati dall’ubriachezza. La poesia Society’s child è appunto dedicata a una persona che conoscevo uccisa dall’alcool.

Per quanto riguarda la salvaguardia delle vostre tradizioni, la situazione oggi è migliorata rispetto agli anni sessanta?

Le cose stanno sicuramente migliorando. La comunità lakota ha potuto stendere programmi scolastici, decidere in merito all’insegnamento, sia per quanto riguarda la nostra lingua che per le nostre tradizioni culturali. Nella mia riserva nel 1970 abbiamo fondato una scuola e ora è diventata un’università dove si insegna quella cultura tradizionale che molti giovani non avevano mai conosciuto. Le prospettive per il futuro sono abbastanza buone.
Naturalmente vi sono anche aspetti negativi legati alla modernità. Per esempio la televisione è stata sicuramente deleteria, un elemento di disgregazione; le “telenovelas” hanno contribuito a distruggere molti nuclei familiari rendendo socialmente accettabili comportamenti (tradimenti, violenza…) che in passato erano malvisti. Inoltre la televisione ti dice anche come devi vestirti, cosa bere, cosa mangiare…Vivendo in Italia ho notato che anche qui in molte famiglie entrambi i genitori devono lavorare, talvolta per poter soddisfare bisogni più indotti dalla pubblicità che reali. E mi sono chiesto: “Ma allora chi accudisce i figli in casa?”. E mi sono anche risposto: “Evidentemente è lo stesso oggetto che manda a lavorare entrambi i genitori, la TV”.

Oltre che di poesia tu ti occupi anche di artigianato tradizionale…

Il futuro dipende anche dall’impegno delle singole persone che vogliono salvaguardare e promuovere le tradizioni del mio popolo. Attualmente i Lakota sono circa centomila, ma soltanto duecento persone sono in grado di eseguire quei lavori tradizionali, per es. con le perline, che fanno parte della nostra cultura (Gilbert è anche un eccellente artigiano e artista in grado di creare collane, braccialetti, pendagli, orecchini, armi…nello stile tradizionale degli Indiani. N.d.A.). Personalmente ritengo importante che anche questa nostra arte tradizionale non muoia.

Elena Barbieri e Gianni Sartori