Rivista Anarchica Online


mass-media

Per difendersi dai giornalisti
di Cristiano Draghi

 

Non poteva che essere un giornalista a pubblicare (con Stampa Alternativa) un manuale contro la sua categoria. Eccone due stralci.

Iene anemiche

Sono duri, ma sciolti, come diceva Andrea Pazienza. Hanno studiato. Vogliono fare i giornalisti, andare per strada, vedere, parlare con la gente, scoprire altarini, raccontare, sui giornali e in tivù. Sembra una bella cosa, una buona idea. Sembra che abbiano capito tutto, che si stiano preparando a diventare dei veri professionisti dell’informazione. Finché non aggiungono: «Come il Gabibbo, come le Iene».
Eccoci serviti, ed il riferimento ai personaggi degli show televisivi di Mediaset è già un bel passo avanti rispetto alla media. Con buona pace di Indro Montanelli e i suoi reportage dalla Scandinavia durante l’occupazione nazista, di Giorgio Bocca davanti ai cancelli della Fiat per «Repubblica» durante il terrorismo, di Camilla Cederna dell’«Espresso» e le sue inchieste sulla famiglia del presidente della Repubblica Giovanni Leone, di Andrea Purgatori del «Corriere della Sera» e il suo lavoro di scavo su Ustica. Ed anche alla faccia di Bob Woodward e Carl Bernstein del «Washington Post», quelli dello scandalo Watergate che fece cadere il presidente americano Richard Nixon.
Certo, con le dovute eccezioni la professione di giornalista non è mai stata granché. E chissà se si stava meglio quando si stava peggio, quando c’era un telegiornale solo, governativo, e non si poteva dire merda, oppure casino, e neppure Fiat, ma «una nota fabbrica automobilistica torinese». Magari è un po’ meglio ora, anche se c’è questo gran caos di notizie che si annullano l’una con l’altra, dove ad ogni strillo corrisponde un controstrillo, in un teatrino – quello in cui è maestro Silvio Berlusconi – che ficca nello stesso calderone premi nobel e politici, ladri e giudici, spettatori e sportivi, direttori di giornali e presentatori televisivi. Con tutti che fanno il lavoro degli altri.
Quello che mi manca, fra questi due estremi, è la controinformazione, lo sforzo creativo, una certa spinta. Identifico tre cause della sua (quasi) scomparsa.
La prima è il predominio del mercato, quel triangolo delle Bermuda ai cui vertici si trovano i mezzi di comunicazione, le aziende e la pubblicità, in cui sparisce l’informazione come ricerca della verità probabile e come quarto potere, capace di tenere sotto controllo gli altri tre.
La seconda è la massa crescente di informazione prefabbricata che si riversa su ogni redazione e su ogni giornalista. Le agenzie di stampa, gli uffici stampa e quelli di relazioni pubbliche propongono via fax, via pc, via Internet una quantità impressionante di informazioni che è sufficiente tagliare, cucire e mettere in pagina o leggere in video. Fax ed e-mail sono veicoli attraverso i quali arriva ai giornali tutto e il contrario di tutto. Sempre salvo eccezioni, non c’è né tempo né modo per approfondire, per fabbricare autonomamente informazione, per dedicarsi ad altro che a smistare fogli e testi elettronici. Le tecnologie in questo non aiutano: ogni giornalista può confezionare più pagine più rapidamente, ma semplicemente cucinando incollato ad un video pietanze preparate da altri, limitando il proprio lavoro alla composizione di titoli, occhielli e sommari, alla scelta di foto (anch’esse proposte elettronicamente) e alla stesura di didascalie, e alla correzione di bozze, alla ricerca di errori e refusi. Facendo così tre parti in commedia: redattore, poligrafico e correttore di bozze.
La terza è lo strapotere degli editori, soprattutto di quelli medi e grandi, che si tengono la mano in un intreccio di interessi che omogeneizza ed omologa. Anche gli ultimi vecchi statuti dei giornali conquistati oltre vent’anni fa, come quello del «Messaggero», che a parole garantivano l’autonomia della categoria, sono già in archivio o in procinto di finirci. Terrorizzati di perdere il posto, la paga e soprattutto i benefit di un mestiere invecchiato, i giornalisti stanno chiusi nel loro ridotto, masticando pagine o minuti di video secondo le indicazioni dei loro direttori, che a loro volta seguono quelle dei loro editori, che a loro volta ascoltano pubblicitari, aziende, politici faccendieri e chi più ne ha più ne metta. Aspettano il giorno in cui faranno giornalismo come il capitano Drogo nella Fortezza Bastiani aspettava i Tartari, ma fa prima ad arrivare la pensione. Con l’aggravante dell’autocensura, con la quale i giornalisti si flagellano per paura di beccarsi qualche querela, una smentita o una rettifica, ma soprattutto per mancanza di coraggio di fronte ai propri editori e direttori, in ogni caso per evitare grane. Di nuovo certe parole non si dicono, telefonate di controllo spiacevoli non se ne fanno, ricerche sul campo o d’archivio men che meno. Così l’informazione arriva ai lettori bell’e filtrata, tagliuzzata, ridotta a nulla o a men che nulla. Spettacolarizzata, magari – e lo dico per tornare al Gabibbo o alle Iene – ma incolore, insapore e indolore.

Redazioni & redattori (tratti da questo paragrafo)

Una forma tutta particolare di redattore è il cronista. I cronisti sono quei giornalisti che lavorano sul territorio nella località in cui ha sede il quotidiano, dovrebbero essere sempre giornalisti professionisti e si occupano di cronaca nera (delitti e incidenti), cronaca giudiziaria (processi e inchieste giudiziarie), politica, cronaca bianca, cioè tutto il resto, salvo lo sport che è seguito dai cronisti sportivi e gli spettacoli che sono seguiti dai critici (teatrale, cinematografico, eccetera).
Qualcuno potrebbe essere tentato di chiamare i cronisti reporter, ma sbaglierebbe. Reporter è un termine anglosassone che da noi non si usa più. Nelle vecchie redazioni indicava quei giornalisti che limitavano il loro lavoro alla raccolta di informazioni da riferire ad un estensore, cioè a un redattore di bella scrittura, a sua volta incaricato di compilare l’articolo. Potete invece usare la parola fotoreporter per indicare i fotografi della cronaca, qualche volta dipendenti del giornale o più spesso di agenzie specializzate.
Il cronista, in sostanza, è colui che esce dalla redazione alla ricerca di notizie. Ha fra le sue fonti polizia, carabinieri, vigili del fuoco, procure e tribunali, Comune, Provincia, Regione, sindacati, uffici stampa aziendali, enti e organismi di ogni genere. Si muoverà anche per realizzare inchieste o interviste o assistere a eventi di vario genere, comprese le conferenze stampa, quegli incontri con i giornalisti in un luogo e un’ora prefissati che anche voi potreste essere tentati di organizzare e di cui riparleremo diffusamente più avanti.
È quindi il cronista uno dei personaggi in cui vi sarà più facile incappare. Sappiate quindi che i cronisti dispongono di un certo potere nell’ambiente in cui si muovono, ma sono anche condizionati dalle loro stesse fonti. Il cronista di nera, per esempio, vivrà a stretto contatto con poliziotti, carabinieri e magistrati, rischiando così di diventare uno strumento consapevole o inconsapevole della strategia di comunicazione scelta dalle fonti stesse.
Tenuto costantemente sotto sterzo dalle sue fonti – che possono in ogni momento tagliarlo fuori dal gioco favorendo la concorrenza – scriverà quello che gli sarà concesso di scrivere: la versione dei fatti che leggerete sui giornali sarà quasi sempre quella fornita dalle questure, dai commissariati e dai comandi dei carabinieri. Raramente – anche se capita – il cronista di nera verificherà le notizie diffuse dalle fonti ufficiali e andrà a sentire le altre voci, magari quelle fuori dal coro come le vostre.
Lo stesso discorso vale per il cronista politico: anche a prescindere dalla posizione sua personale o della sua testata – che spesso non coincidono – a forza di frequentare i politici ne potrà diventare il confidente, l’amico, lo strumento. Spesso, invece di limitarsi a osservare la partita e a farne la cronaca, vorrà mettersi a giocare: non è casuale che siano così numerosi i giornalisti che finiscono per entrare di persona in politica. Fra gli esempi più clamorosi, in questo campo, troviamo Giulio Andreotti, che non solo è stato giornalista ma ancora dirige un periodico, il mensile «Trenta Giorni», e Giovanni Spadolini, che è stato direttore del «Resto del Carlino» e del «Corriere della Sera». Eugenio Scalfari è stato deputato, così come lo è stata Sandra Bonsanti, ex inviata della «Repubblica» e ora direttore del «Tirreno».
Ancora una volta, la maggiore preoccupazione del cronista saranno i buchi dati o presi. Per questo, nelle città in cui sono presenti più mezzi di informazione e quindi teoricamente ci sarebbe maggior concorrenza, è facile che i cronisti si organizzino spontaneamente in pool, gruppetti che si danno una mano per tenere sotto controllo la situazione e non prendere buchi. Accade in luoghi come i tribunali e la procura della Repubblica (quindi in cronaca giudiziaria), nelle questure e nei comandi dei carabinieri (quindi in cronaca nera) o nei palazzi delle istituzioni come Comune o Regione (quindi nelle cronache politiche). Non è quasi mai questione di rapporti politici o economici fra giornali, ma di amicizie e alleanze fra gli stessi giornalisti. Così potrete trovarvi a parlare con il cronista di un quotidiano vicino alle vostre posizioni e scoprire il giorno dopo che quello che gli avete detto è stato riferito anche ad altri quotidiani – i cui cronisti fanno parte di un pool – magari lontanissimi da voi e dal vostro modo di pensare. Se poi il giornalista che avrete incontrato lavora per un’agenzia di stampa il problema non si pone neppure: quello che scriverà sarà trasmesso via computer o via telescrivente a tutti gli organi d’informazione abbonati all’agenzia stessa. Se l’agenzia è l’Ansa, la maggiore agenzia di stampa italiana e una delle maggiori agenzie d’Europa, di proprietà di una cooperativa formata dagli stessi organi d’informazione italiana, lo stesso lancio – lancio o flash è quel testo redatto dai giornalisti di agenzia trasmesso via telescrivente o via computer – arriverà a tutti i giornali, le radio e le tivù abbonate, a prescindere dal loro modo di trattare la cronaca o dalla loro collocazione politica. Sarà poi il redattore incaricato di mettere in pagina il lancio di agenzia a decidere se lasciarlo tale quale o modificarlo più o meno profondamente.
Il cronista, durante il suo lavoro, non risponde né a voi né a una ipotetica opinione pubblica, ma al proprio capocronista e di riflesso al proprio direttore. Parlerà di diritto di cronaca e d’informazione, si capisce, ma soprattutto vorrà fare bella figura all’interno dell’organizzazione giornalistica e consolidare il proprio ruolo, cercando nel contempo di evitare incidenti, cioè di non prendere querele né di incappare in rettifiche e smentite, alle quali comunque reagirà con stizza e aggressività: la categoria non brilla per capacità di ammettere di potersi sbagliare.
L’atteggiamento del cronista verso il proprio lavoro dipenderà anche dall’età e dall’esperienza: il giovane appena entrato in redazione si darà da fare più possibile per entusiasmo, per farsi notare, nella speranza di fare carriera verso un posto da caposervizio o da inviato. I più anziani, spesso delusi nelle loro aspettative di fare carriera, si saranno probabilmente adagiati in un certo tran tran. Non sarà infrequente, durante giornate particolarmente impegnative, osservare i cronisti di un pool mettersi d’accordo per rimandare la diffusione di una o più notizie al giorno dopo, evitando così di sovraccaricarsi oggi e garantendosi nel contempo il lavoro di domani.
Fra i problemi che il cronista affronta quotidianamente ci sarà anche la competizione fra colleghi che regna all’interno delle testate giornalistiche. Il successo professionale e la relativa autostima di un giornalista, infatti, non dipendono solo dall’assegnazione di particolari qualifiche – caposervizio, caporedattore, inviato – ma anche dall’importanza degli argomenti che gli saranno assegnati, dalla posizione in pagina dei suoi articoli, dalla frequenza nella pubblicazione della firma: ci sono quotidiani in cui il numero dei giornalisti è così alto rispetto allo spazio disponibile in pagina che è difficile riuscire perfino a farsi assegnare servizi e articoli, rischiando di finire in uno spiacevole limbo professionale. È un problema qualche volta anche politico: i cronisti sgraditi alla direzione o alla proprietà corrono il rischio di finire in frigorifero, tristemente inutilizzati.
Se i cronisti lavorano soprattutto nelle città, in provincia incontrerete molto più facilmente i corrispondenti, quei giornalisti che da una certa località scrivono articoli – detti corrispondenze perché una volta venivano spediti per posta o fuorisacco, cioè lasciandoli fuori dei sacchi postali e affidandoli alle mani degli autisti dei pullman o dei macchinisti dei treni – per un giornale che ha sede da un’altra parte.
I grandi giornali, come il «Corriere della Sera», «La Repubblica», «Il Sole 24 Ore», «La Gazzetta dello Sport», «La Stampa», «Il Messaggero» e via dicendo, ma anche le agenzie di stampa, la Rai e le radio più importanti hanno corrispondenti da tutte le parti, sia in Italia che all’estero. I corrispondenti potranno essere sia professionisti che pubblicisti, potranno dedicarsi in esclusiva ad una testata o lavorare per più giornali, radio e tivù.
È molto comune che gli stessi cronisti o redattori di quotidiani, agenzie, radio e tivù di una certa città abbiano in portafoglio una o più corrispondenze per testate di altre città. È un modo per arrotondare lo stipendio, ma anche per fare apparire la propria firma su una testata di maggior prestigio di quella per cui si scrive abitualmente, guadagnarsi una posizione di potere maggiore nel territorio in cui si opera, tenersi aperta una diversa opportunità professionale.
Fare il corrispondente può essere un mestiere prestigioso, come nel caso di Tiziano Terzani, l’autore del libro Un Indovino mi disse e del recente Lettere contro la guerra, per trent’anni corrispondente della rivista tedesca «Spiegel» in Oriente. Ma può essere un lavoro triste e sottopagato: sono, infatti, corrispondenti anche coloro che spediscono ai quotidiani regionali o provinciali articoli e articoletti da qualche paesino, sempre sperando, come nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati (giornalista pure lui, fra l’altro, ideatore del suo libro più famoso mentre passava lunghe notti di guardia alla cronaca del «Corriere della Sera»), che accada un fatto eccezionale dal quale trarre un momento di gloria. Che non ci sarà, perché quando quel fatto accadrà davvero il giornale per cui scrivono molto probabilmente preferirà spedire sul posto un inviato...

Il silenzio è d’oro

Può darsi che il vostro istinto vi dica di mandare al diavolo i giornalisti appena arrivati fino a voi. Il loro atteggiamento potrebbe farvi venir voglia di prenderli, molto semplicemente, a calci. Potete provarci – lo fanno le star dello spettacolo e quelle dello sport (ricordate Alberto Tomba e le sue aggressioni a cronisti e fotografi?), lo hanno fatto i poliziotti e i carabinieri a Genova, perché voi no? – ma ricordate che aggiungerete benzina al fuoco, del vostro gesto si parlerà, se ne scriverà proprio sui giornali dei cronisti che volevate allontanare a forza. Magari quel calcione sarà ripreso da fotografi e teleoperatori, proprio mentre la rabbia vi contrae il volto, facendo il gioco di chi vuole danneggiare l’immagine vostra e del gruppo di cui eventualmente fate parte.
Inoltre non pensate di trovare sempre scarsa resistenza. Soprattutto i fotografi al lavoro nelle grandi città come Roma e Milano, che devono difendere attrezzature che valgono migliaia di euro e devono per professione esporsi maggiormente, sono preparati a rispondere alle aggressioni. Ogni bravo fotoreporter di cronaca ne ha subita più d’una ed è deciso a reagire. Badate: una macchina fotografica impugnata dalla cinghia e fatta roteare in aria diventa un’arma di una certa efficacia.
Comunque, violenze (che disapprovo) a parte, il silenzio verso la stampa può essere una scelta politica, oppure essere dettato da un legittimo desiderio di riservatezza, specie quando la situazione in cui vi trovate è delicata o il gruppo di cui fate parte lavora con soggetti particolari (minori, handicappati, emarginati eccetera). Ancora più semplicemente, potete non fidarvi dei mezzi di comunicazione e dei suoi rappresentanti. È un vostro diritto restare in silenzio, come dicono i poliziotti dei film americani, e se questa è la strada che intendete imboccare la vostra lettura di questo manuale potrebbe anche finire qui. Salvo seguirmi per il tempo necessario a precisare qualche dettaglio:
• se non volete parlare non fatelo, ma tutti i membri del vostro gruppo devono cucirsi la bocca. Un articolo o un servizio radio o tivù basato su mezze parole, qualche frase incontrollata, indiscrezioni e chiacchiere potrebbe rivelarsi veramente dannoso. Tanto per fare un esempio: se avete un centralino telefonico, magari presidiato da volontari, tutti devono sapere che non si devono fare né dichiarazioni né commenti;
• non barate. Se avete annunciato che fino a domani non ci saranno dichiarazioni, fino a domani state zitti con tutti i giornalisti, a meno che non vi diverta farvi dei nemici: ricordate il problema dei buchi dati e presi che affligge i cronisti, gli inviati e i corrispondenti;
• non rimandate inutilmente la scelta. Se avete già deciso di non parlare non annunciate dichiarazioni che non ci saranno. Non dite: parleremo fra un’ora per poi mancare l’appuntamento. Ricordate il problema dei tempi di chiusura e le preoccupazioni di tutta la catena giornalistica, dal collaboratore che aspetta le vostre parole per scrivere il suo articolo, fino al caporedattore che vuole chiudere le pagine per mandarle in tempo in tipografia;
• non tirate immotivati colpi bassi. Se non c’è una ragione ben precisa, per esempio una discriminante politica, non dite di no ad alcuni giornalisti e sì ad altri. Non tagliate fuori i piccoli, i giornalisti alle prime armi o di mezzi di comunicazione di scarso rilievo. Non fatevi affascinare dai nomi delle grandi testate, dai microfoni e dalle telecamere. Trattate tutti i giornalisti con lo stesso metro: lo sgarbo, il buco dato al collaboratore di una piccola testata potrebbe provocarvi la sua eterna inimicizia. Immaginate il ragazzino di oggi quando sarà arrivato a un posto di comando dal quale potrà influenzare in negativo la comunicazione su di voi.
Aggiungo che non c’è un solo tipo di silenzio. Fra le frasi «non abbiamo niente da dire» e «no comment» c’è una bella differenza. Secondo le regole non scritte della comunicazione, «no comment» non vuole dire veramente no, ma è una dichiarazione a tutti gli effetti, pubblicabile, e vuole dire «probabilmente è vero, ma per ora non possiamo confermarlo». Immaginate di sentire questo dialogo alla «Domenica Sportiva»: «È vero che il vostro allenatore si è dimesso?» «No comment». Voi cosa capite? Che l’allenatore magari non si è ancora dimesso, ma sta per farlo. Quindi se volete dire solo «no» dite no e nient’altro. Meglio ancora: non aprite quella porta, con i giornalisti non parlateci proprio.
Anche il silenzio stampa è una cosa diversa dal silenzio puro e semplice. Il silenzio stampa è una richiesta tipica delle famiglie dei rapiti che chiedono alla stampa di non interferire con le indagini. Si parla di silenzio stampa anche nel campionato di calcio: lo adottano le società calcistiche o i giocatori che per un motivo qualsiasi sono arrabbiati con i giornalisti. In altri termini, il silenzio stampa è un’azione ben precisa verso la stampa, rappresenta un «tagliare i ponti» intenzionale, l’inizio di un braccio di ferro per fare cambiare opinione o atteggiamento ai giornalisti. Se volete usarlo, fatelo, ma con cognizione di causa, pensando che prima o poi potreste rimettervi a parlare.
Concludo questa parte del mio discorso avvertendo che stare zitti non impedirà la stesura degli articoli o dei servizi radio e tivù, se il caso in cui siete coinvolti è davvero interessante. Avete presente i diversi profili professionali dei giornalisti? Li unifica la necessità di concludere il lavoro, di portare comunque in redazione un risultato. Così non stupitevi se leggerete descrizioni dei luoghi in cui vi trovate, di voi stessi o delle persone che sono insieme a voi, oppure fra virgolette qualsiasi frase abbiate pronunciato, anche solo: «Andatevene, non abbiamo niente da dire», magari con precisazioni sul tono che avete usato, sul vostro accento, sul fatto che siate uomo o donna, sui vostri abiti o il taglio dei capelli. Tutti i cronisti sono in grado di trasformare il niente in un articolo di cinquanta o cento righe. Senza contare quelli più cinici che, se siete soggetti abbastanza deboli, sono semplicemente capaci di inventarsi di sana pianta una vostra dichiarazione: è successo a personaggi illustri dello spettacolo o dello sport, figurarsi se non può succedere a voi. D’altra parte ditemi come verificare se è stata davvero pronunciata una frase attribuita a «un giovane del centro sociale» o a «un membro dell’associazione» o a «un conoscente della famiglia».

Cristiano Draghi

Cristiano Draghi
Nato nel 1955 a Firenze, è arrivato al giornalismo nel 1980 dopo la laurea in pedagogia, indirizzo psicologico. È di formazione politica libertaria, pacifista e ambientalista. È stato cronista in varie città e collaboratore di grandi quotidiani come il «Corriere della Sera» e «La Stampa». È l’attuale direttore responsabile dei quotidiani locali il «Corriere di Firenze» e il «Corriere di Lucca». Scrive per i maggiori periodici italiani specializzati in giornalismo, editoria e comunicazione, il mensile «Prima Comunicazione» e il trimestrale «Problemi dell’Informazione». È consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ed è spesso chiamato a tenere lezioni e seminari da università, master e scuole di specializzazione.