Rivista Anarchica Online


 

Libertà di stampa?

Appena finito di leggere questo pamphlet (Rinaldo Boggiani, “La disgrazia di saper leggere”, Edizioni Associate Editrice Internazionale, Roma, 2002, pagg. 72, e 6,80) ho esclamato: finalmente!. Avevo voglia di sfogliare un saggio scritto da un non giornalista che sa scrivere e sa cosa scrivere. Un saggio arrabbiato, enragè direbbero i francesi. Ma l’arrabbiatura non è nei toni – troppo facile –, è nella sostanza. Deriva da anni di lavoro, ricerche, studi, lezioni universitarie, articoli; da una profonda conoscenza di due culture giuridiche completamente diverse: quella continentale e quella anglosassone.
Tratta della libertà di stampa in Italia, dagli albori (editto albertino del 1848) fino alla costituzione repubblicana dimostrando che, in cento anni, niente è cambiato nella cultura politica del nostro paese.
Dove i politici nostrani obbediscono a un imprinting culturale che, dalla Chiesa di Roma (il titolo è preso da una frase di “Civiltà Cattolica” riportata in quarta di copertina “Poiché abbiamo la disgrazia di saper leggere, meglio sarebbe che non si leggesse altro che la Bibbia corretta e il Bellarmino”, il cardinale che fece torturare Galileo Galilei), arriva ai giorni nostri passando attraverso veri “governi bianchi e finti governi rossi”.
La libertà di stampa, questa la teoria di Rinaldo Boggiani, si realizza veramente con l’assenza di leggi; meglio: con un divieto costituzionale di fare leggi. “Il Congresso non potrà fare” recita il primo emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti d’America “alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al governo per la riparazione di torti subiti”.
Da noi il Parlamento dovrà fare, dice la Costituzione italiana del 1948, una legge sulla stampa. Il saggio analizza le conseguenze istituzionali, sociali di non fare leggi, come negli Usa, e di fare leggi come da noi.
Devo dire che il sottotitolo, Antistoria della libertà di stampa in Italia, bene inquadra il contenuto delle settanta pagine che ne seguono: è anti, va contro, rompendo i tabù culturali della nostra tradizione. Quando non si vuole cambiare niente si dice: “Ma questa è la nostra storia, dobbiamo molto alle le nostre radici culturali, la nostra tradizione ci impone…”. E via di questo passo.
Sappiamo bene che l’oggettività della ricostruzione storica non esiste. Esistono tante possibili ricostruzioni storiche, a volte (quasi) tutte rispettabili. Le argomentazioni sono ovvie. Si è talmente tutti d’accordo su questo punto, che la soggettività di un studio storico è usata come arma per demolire, attaccare, screditare una ricostruzione storica scomoda. Ho sentito troppe volte in dibattiti, convegni, chiedere la parola per screditare l’opera di un avversario, per inquinarne il risultato scientifico che sarebbe potuto essere di ostacolo alla propria corrente. E di sicuro Boggiani andrà incontro a queste obiezioni, a questa corazzata armata di falsa dialettica e di collaudata oratoria.
Ma sarà difficile attaccare questo saggio che, non a caso, è vicinissimo alle fonti. E non, si badi bene, alle fonti storiche in genere, bensì ai testi di legge, alle Costituzioni, agli atti della Costituente, agli scritti del Federalista, da tutti considerato il commentario alla Costituzione degli Usa. E dato che il testo, pur nella sua non semplice materia, si rivolge ai giovani come l’autore subito vuole precisare nella prefazione, tutto viene riportato tra virgolette, in modo che il giovane lettore (e non solo lui) si abitui alle fonti, a toccare con mano, leggendo direttamente le fonti.
Il testo contiene anche una trappola. Un gioco di specchi che solo quando ci si è addentrati lo si può comprendere. Perché, la libertà di stampa in esso trattata, non è il fine del saggio, non è il vero oggetto di studio ma il mezzo per capire l’intero sistema democratico costituzionale, dimostrando così che la libertà di scrivere, parlare, denunciare è la prima delle libertà sociali.
Ecco quindi che il lettore, partito dalla libertà di stampa riconosciuta a forza dal sistema monarchico ai propri sudditi per evitare guai peggiori; passato attraverso quella voluta dal fascismo; arrivato infine alla Costituzione repubblicana (il tutto influenzato, a volte determinato dal potere cattolico) si ritrova a esaminare il sistema di pesi e contrappesi dell’intero sistema democratico: quello che non ha e quindi non è il sistema italiano.
Perché in Italia non c’è la giuria popolare? Perché ci appassionano i film di Perry Mason, Paul Newman (Il verdetto), i legal thriller di tutta la letteratura giuridica americana, dove i giurati popolari sono al centro del sistema giudiziario e poi non vogliamo lo stesso sistema qui in Italia? Qual’è il vero peso politico dell’elettore italiano? Perché il giornalista italiano è iscritto a un Ordine? Perché a scuola, i ragazzi, non studiano i nostri diritti?
Un gioco di specchi, quindi, dal quale ne usciremo grazie all’ultimo capitolo intitolato “Usucapione della libertà”. Il saggio, infatti, non demolisce, analizza. Non celebra una cultura su di un’altra; guarda storicamente quanto successo da noi e oltre oceano. Non demonizza idee o classi politiche; mostra soltanto una possibile strada istituzionale, sociale, politica alle nuove generazioni.
Un libro scomodo, coraggioso, che si potrà ignorare (l’ipotesi è più che probabile), o studiare.

Roberto Magaraggia

L’economia uccide l’infanzia

Esce in queste settimane in libreria per i tipi di Elèuthera, Ladri d’infanzia (pagg. 128, euro 9,00, di Philippe Godard direttore della collana Junior Historie delle edizioni Autrement di Parigi e autore di La vie des enfants travailleurs pendant la révolution industrielle (Desmaret, 2001).
La legge del profitto – questa la tesi di fondo del libro – uccide l’infanzia, trasformando un numero crescente di minori del Terzo mondo in piccoli-lavoratori schiavi, e i minori dei Paesi ricchi in super-consumatori di prodotti fabbricati spesso dai primi. Il fenomeno del lavoro infantile è aumentato a dismisura negli ultimi vent’anni: i bambini sfruttati sono passati da 56 milioni a oltre 250 milioni. Di fronte a questo fenomeno, l’autore non si limita all’agghiacciante constatazione dei fatti o a lanciare un grido d’allarme, ma presenta una riflessione d’ordine insieme economico, politico, storico ed etico, si interroga sui rapporti minori-adulti nelle nostre società, su ciò che rende possibile questo strazio “globale” dell’infanzia, e propone mezzi per porvi fine.
Il pamphlet di Godard è preceduto da un’introduzione di Raoul Vaneigem (che riproduciamo qui di seguito) e seguito da un’appendice di documenti e testimonianze.

In memoria di Iqbal Masih
venduto al padrone
di una fabbrica di tappeti
del Punjab a quattro anni,
portavoce dei suoi compagni
di lavoro a dieci anni,
assassinato a dodici anni.

Il bambino è la prima vittima della società di mercato, perché porta in sé la promessa di una vita il cui slancio è spezzato dalla legge del profitto. Non essere redditizio è il suo crimine, diventarlo in fretta è il solo modo che ha per espiarlo.
Emancipato – perlomeno in Europa – dalla famiglia patriarcale in cui era solo un oggetto sottomesso al potere arbitrario e quasi assoluto del padre, eccolo, sin dalla culla, destinato a consumare il tempo inutile per il guadagno, in attesa dell’età in cui avrà il dovere di produrre.
La menzogna dell’umanesimo è mascherare con un volto umano un sistema che non è nient’altro che sfruttamento dell’uomo.
L’essere umano è nato per creare e per realizzarsi nel godimento di sé e del mondo, non per lavorare. Finché il progetto di una civilizzazione radicalmente nuova non si fonderà su questa certezza, l’infanzia non avrà nemici peggiori di coloro che l’hanno uccisa in loro stessi, preferendo il denaro alla felicità.
Com’è possibile denunciare coloro che maltrattano i bambini senza denunciare l’inumanità che l’accumulazione di un capitale speculativo e non socializzato fa prosperare?
La paura e il disprezzo della vita stillano come umori malsani dal linguaggio politico, economico e sociale dominante. La barbarie che regna in Pakistan, in India, nel Nepal, in Colombia, in Argentina, in Russia ha i suoi sostenitori più fedeli nei mafiosi dell’affarismo mondiale, aggiotatori dei mercati finanziari e omuncoli della jet society pedofila, portati in palmo di mano dalla vigliaccheria quotidiana della stampa, della radio, della televisione.
I negrieri sono ovunque. Se li tolleriamo in Europa, dove i giornali li esaltano secondo la loro quotazione in borsa, come intervenire contro quelli che imperversano nei paesi di cui il Fmi sfrutta la povertà, e che ricorrono, per giustificare il lavoro dei bambini, ad argomenti economici e filantropici in voga tra i proprietari di miniere nell’Inghilterra dell’Ottocento?
Philippe Godard lo sottolinea opportunamente: il boicottaggio mondiale dei prodotti ottenuti con il lavoro dei bambini ha senso solo a patto di preparare anche delle associazioni locali capaci di assicurare al bambino delle strutture di accoglienza e di vita. Noi vogliamo sostenere l’autonomia dei bambini, non legarli a delle istituzioni d’assistenza e di dipendenza.
Se desideriamo veramente che il bambino giochi, perché la vita insegna a giocare e il gioco prepara alla vita, dobbiamo allo stesso tempo creare delle scuole di tipo nuovo e abolire un insegnamento da allevamento industriale, esposto ai pericoli dell’epizoozia e alle follie della violenza. Non possiamo più tollerare un sistema educativo programmato per produrre schiavi informatizzati. Dobbiamo mettere fine a un sistema di formazione aberrante in cui il corpo, ridotto a due mani che battono sulla tastiera di un computer davanti alla finestra di un mondo virtuale, finisce per imbizzarrirsi e, disconnesso da ogni sensibilità umana, arriva a distruggere e uccidere tutto quello che gli capita sotto mano.
L’infanzia, in quanto manifestazione della vita in tutta la sua esuberanza, è inconciliabile con l’economia. Imparare a sopravvivere nella giungla del mercato non è imparare a vivere. Noi rifiutiamo un insegnamento per cui la competizione, la concorrenza, il diritto del più forte e del più furbo trasformano in un gioco di guerra, di odio, d’aggressività e di morte il gioco dei verdi paradisi dell’infanzia, dove germoglia la passione del conoscere.
Il diritto al lavoro è un macabra barzelletta. Il lavoro è sempre stato una maledizione. Non salva dalla miseria, nasce dalla misera e la genera, perché è sottomesso a un profitto che la scarsità accresce.
La sottomissione al denaro produce una ricchezza astratta che impoverisce la vita, tanto da mettere in pericolo la sopravvivenza del pianeta.
L’emergenza non consiste nell’attenuare la barbarie, ma nel sopprimerla. La lotta contro lo sfruttamento dei minori è una lotta internazionale e assoluta. Al cuore della battaglia contro il gulag mondiale creato dall’economia dello sfruttamento, c’è la consapevolezza che la creatività propria di ogni individuo deve prevalere ovunque, e ovunque è in grado di tagliare i nodi inestricabili dell’alienazione del mercato.
Per questo, nessuna impresa sinceramente interessata a far emergere e sviluppare l’umanità dell’infanzia trascurerà di favorire l’istituzione di scuole nuove e di collegare, a livello locale e internazionale, i luoghi di produzione in cui la qualità dei prodotti si accorda con la qualità del trattamento garantito al produttore.
Lo sviluppo dell’individuo e di un ambiente favorevole permetteranno di abolire la più antica delle maledizioni, quella che nega il semplice e naturale piacere di vivere a chiunque è costretto a guadagnare del denaro.
È così che un progetto di vita sociale fondato sulla qualità dei rapporti umani e su dei sistemi di produzione che impiegano risorse naturali rinnovabili e non inquinanti, può inserirsi e forzare – fino a distruggerla – una società in cui la noia, l’assenza di immaginazione, la rassegnazione aggressiva, la mancanza di creatività sono peggiori della fame, perché impoveriscono in nome del guadagno quanto potrebbe essere arricchito in nome delle capacità degli esseri umani.

Raoul Vaneigem

Philippe Godard

 

Scrivere l’esperienza

Fin dalle prime pagine è una dichiarazione di riconoscenza a muovere l’aria dentro cui l’anima di chi legge viene toccata da chi scrive.
I testi che nutrono, come quelli di Etty Hillesum, si ha l’impressione di tradirli se, anziché esprimere gratitudine per la ricchezza che ci hanno donato, li si sottopone al filtro dell’interpretazione, del commento, della critica.
Sono parole di profonda risonanza, precisate nel corso dell’opera – di ascolto e di studio – con cui Wanda Tommasi – Etty Hillesum, L’intelligenza del cuore, Edizioni Messaggero, Padova – ha rintracciato il senso di una testimonianza scritturale intessuta di vibrante spiritualità.
Alla gratitudine fa eco la predisposizione di chi, senza immedesimarsi, riconosce la verità dell’altra e ne mantiene l’irriducibile alterità quale dono a sé e al mondo.
Che il libro di Wanda Tommasi sia un dono – e prezioso – lo rivelano, in una catena di passaggi, le possibilità dischiuse ad essere letto su differenti scansioni: la politica, la morale, l’essere, la vita religiosa. Sottraendosi dal metodo di sistemare in categorie universali la costringente libertà di assoluto che unifica l’umano, l’autrice dispone in opera le forme simboliche illuminanti l’esistenza minima di una storia del tutto peculiare.
Definire “biografia” il libro su Etty Hillesum appare, a mio avviso, inadeguato e anche riduttivo.
Insostituibile, è “l’intelligenza del cuore” – sottotitolo di un nome proprio – a corrispondere verso la distanza che staglia, separando, la vita simbolica.
Se la bellezza è, e secondo me lo è, una prova di verità, questo testo è bello e vero. Vero per la sorgiva testimonianza storica apportata alla luce del presente; bello per il piacere di sentirsi al mondo «senza sprechi di sofferenza».*
In effetti il libro apre la dimensione politica proprio con non essere un libro di politica canonica e con l’offrire uno sfondo, né ideologico, né incentrato su valori di contrapposizione, agli innumerevoli quanto postumi interrogativi etici sul nazismo e la Shoah. Il libro lascia emergere la questione, nei termini vivi di un contesto esistenziale, da un’esperienza che testimonia in presenza. E, al di là di qualsiasi intenzione, senza pretese risolutive, trova la maniera di elaborarla a “partire da sé”.
Annota Etty Hillesum nel diario da lei tenuto come pratica di scrittura fine a se stessa:
Dappertutto ci sono cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono rendere la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può sentirsi tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo la vita bella e mi sento libera.
Etty Hillesum – ci dice Wanda Tommasi con “l’intelligenza del cuore” – non è un’ingenua, un’illusa quando scrive quel che scrive. Aveva molto chiara la realtà dei lager, lavorando come dattilografa nel Consiglio ebraico di Amsterdam ed era ben cosciente di ciò che succedeva intorno a lei. Lo dimostrano le pagine del Diario e le Lettere indirizzate agli amici, fino a poco tempo prima di morire. Etty non si sottrasse alla sorte a cui sarebbe andata incontro e rifiutò l’espatrio per fedeltà a se stessa in quello che sentiva e che necessariamente la trasformava. Non si oppose al male con altro male. Affermò l’amore che le faceva vedere il marciume che c’è negli altri, c’è anche in noi.
Per questo sentire e per questo agire le si imputa di non essersi opposta – lei ebrea – al male e all’orrore nazista. La risposta di Etty Hillesum alle circostanze storiche suscita non di rado, come ho potuto constatare di persona, sconcerto, se non risentimento, addirittura aspro e violento.
Dico questo perché in ciò scopro lo spessore morale e politico implicito sia alla visione delle cose sia all’esplorazione scritturale, agita da Hillesum, di quel non-essere del tutto ciò che si dice o ci sembra.
Nel diario – riferisce Tommasi – Etty aveva obiettato alle critiche di amici che le rimproveravano un’estraneità a un mondo fatto di contrapposizioni e di guerra, rispondendo che lei non si sentiva «un sognatore visionario», una «bell’anima ancora un po’ adolescente». Facendosi forte della sua estraneità al mondo maschile della sopraffazione e della violenza, Etty rivendicava la possibilità di guardare quello stesso mondo in modo diverso: «Io guardo il tuo mondo in faccia, Dio, e non sfuggo alla realtà per rifugiarmi nei sogni – voglio dire che accanto alla realtà più atroce c’è posto per i bei sogni – e continuo a lodare la tua creazione, malgrado tutto».
Il riconoscimento di esser(ci) altro da sé, con lo scarto del soggetto identico, mette in gioco un movimento politico, il cui senso non va unicamente sul valore assimilatorio o sull’orientamento ostile verso ciò che non ci conviene e non ci convince. Apre, in altro verso, alla possibilità di rendere possibile quello che per ‘noi’ – gruppo, etnia, stato nazionale – è ancora nell’ordine dell’impossibile. La legge dell’altro rimanda così il rispetto d’amore.
Il lavoro di ricerca svolto dall’autrice si basa, fra l’altro, sulla traduzione inglese, inedita ma integrale, del Diario di Etty Hillesum, la cui versione originale consiste in oltre 400 pagine.**
L’intelligenza del cuore, quale filo conduttore d’eccellenza, Wanda Tommasi l’ha rintracciata con l’attenzione rivolta ai fatti quotidiani di una vita breve nella pienezza di senso. I contenuti tematici del saggio vengono elaborati sul testo esperenziale cui Etty Hillesum ha dato tempo di pensiero in parola e spazio di scrittura.
Dall’incontro con Julius Spier, lo psicochirologo di ispirazione junghiana, che aiuta Etty a confliggere quella “costipazione spirituale” in cui si era venuta a trovare, sono tratteggiate da Tommasi le forme simboliche delineanti la relazione di differenza sessuale. A questo riguardo scrive in maniera illuminante:
Se dunque, a causa del suo amore esclusivo una donna rischia di mettere un uomo al posto di Dio, Etty, che non è lontana dal correre questo rischio nella sua devozione a Spier, dimostra però, nel seguito del suo itinerario, quanto può essere fecondo un tale attaccamento.
Questo accade solo se il desiderio di infinito, che si esprime nell’amore per un uomo, sa poi andare oltre quel singolo amato per attingere alle sorgenti, queste sì veramente infinite, dell’amore divino
.
Il rapporto che Etty intesse con la letteratura – adora le “Elegie duinesi” di Rilke e se ne nutre con la leggerezza dell’anima – apre uno spazio di elezione che le fa dire: La mia seconda patria, la letteratura.
Se per sua parte Spier conferisce un certo lenimento alla «costipazione spirituale», è dalla faticosa e liberatoria pratica di scrittura che Etty si mette in scena, non per esaurirsi, in piena autonomia, nella conoscenza a tutto campo di se stessa, per alimentare bensì quella ignota interiorità che fa essere.
Etty Hillesum – precisa Wanda Tommasi – con l’immagine della scrittura come qualcosa che fluisce da una sorgente interiore, dimostra di avere grande fiducia nel lavorìo inconscio, che si compie dentro di noi, a nostra insaputa, in una sorta di passività attiva, quella della gestazione e della maturazione interiore, ma questo non esclude, anzi richiede la fatica di un lavoro artigianale, simile a quello dello scultore che, nel suo laboratorio, estrae delle forme dal granito.
Un altro riferimento, non meno significante, evocato a più riprese dall’autrice, è quello che vede Etty Hillesum accogliere – al di là del bene e del male – il richiamo impersonale della natura.
Risalgono al periodo vissuto nel centro di smistamento di Westerbork, in cui Etty e la sua famiglia rimasero per circa un anno, in attesa di essere definitivamente deportate ad Auschwitz, le pagine del diario e le lettere dove ricorrente è l’immagine di un campo di lupini. Una distesa gialla nella brughiera del Drenthe, la cui visione sembra animare l’agire di Etty nel luogo della sofferenza generalizzata: riconosciuta questa nella incarnata e peculiare singolarità di ogni essere vivente.
Villaggio di baracche di legno – scrive – incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini straordinariamente gialli e tutt’intorno filo spinato.
Così come il pezzo di cielo, che comunque è il cielo tutto intero, sovrasta le «tre strade, un canale e un ponticello» che la separano e la uniscono a Spier nell’Amsterdam della seconda guerra mondiale, anche la Sventura e bellezza titolano le pagine conclusive di questa incarnata e peculiare singolarità resa ‘intelligenza del cuore’.
Libro scritto sull’impalpabile registro dell’alterità – linea dal tratto condiviso e al contempo invalicabile con cui Wanda Tommasi disegna un attraversamento filosofico – esso resuscita alla lettura la vita di Etty Hillesum e restituisce alla civiltà un tesoro segreto.

Monica Giorgi

Note:
* «Sprechi di sofferenza» è un’espressione di Lia Cigarini, da lei proferita durante il Grande Seminario di ‘Diotima’ a proposito di politica e relazione di differenza, tenutosi all’Università di Verona, 11 ottobre 2002.
** Etty Hillesum, De nagelaten geschriften van Etty Hillesum 1941-1943, a cura di K.A.D. Smelik, Vitgeverij Balans, Amesterdam 1986.

Chi è Wanda Tommasi
Wanda Tommasi insegna Storia della filosofia contemporanea all’Università di Verona. Le sue prime opere riguardano Hegel e Blanchot sui quali ha pubblicato:
La natura e la macchina. Hegel sull’economia e le scienze (1979); Maurice Blanchot: la parola errante (1984).
È impegnata nella comunità filosofica ‘Diotima’. Contribuisce, fin dalla fondazione al dibattito interno e seminariale con testi scritti, tra i quali si ricordano:
La tentazione del neutro, in Il pensiero della differenza sessuale (1987); Simone Weil: dare corpo al pensiero, in Mettere al mondo il mondo (1990); Il lavoro del servo, in Oltre l’uguaglianza (1995); Il lavoro tra necessità e libertà, in La rivoluzione inattesa (1997); Di madre in figlia, in Approfittare dell’assenza (2002).
Ha scritto inoltre raffinati saggi su Simone Weil: Segni, idoli e simboli (1993); Esperienza religiosa, esperienza femminile (1997).
Occorre ricordare la ricerca di storia della filosofia nel taglio operato dal pensiero della differenza sessuale riguardante I filosofi e le donne. La differenza sessuale nella storia della filosofia, Tre lune, Mantova 2001.
Oltre al saggio qui recensito, su Etty Hillesum ha scritto: «Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi». Il problema del male in Etty Hillesum, Trame 2001; Introduzione a Esperienza religiosa, esperienza femminile: Simone Weil e Etty Hillesum, Liguori, Napoli, 1997.

Esther (Etty) Hillesum
(Middelburg 1914 – Auschwitz 1943)
Il padre Louis, insegnante di greco e di latino, diviene preside del Ginnasio Municipale di Deventer, cittadina dell’Olanda orientale. La madre, Rebecca Bernestein, di origine russa, si rifugia in Olanda nel 1907, a causa del progrom antiebraico.
Etty è la primogenita tra due fratelli, Jaap e Mischa. Trasferitasi dopo la scuola ad Amsterdam, si laurea in Giurisprudenza, dedicandosi anche alle lingue slave. Per rendersi economicamente indipendente dalla famiglia si impegna nelle attività domestiche per la casa-pensione dove vive. Stabilisce una relazione sentimentale con il proprietario e coinquilino Han Vegerif.
Agli inizi del ’41 conosce Julius Spier, figura fondamentale per l’affinamento spirituale che Etty coltiva cominciando a scrivere il Diario. Con le Lettere, esso costituisce la testimonianza scritta di un percorso esistenziale straordinario, nel senso letterale del termine: fuori dall’ordinario e contemporaneamente nella ‘comune’ dimensione della vita quotidiana. Si dimette dal Consiglio ebraico di Amsterdam, dove si era impiegata come dattilografa, avendo riconosciuto a questo organismo una funzione a suo avviso troppo compromessa con il regime nazista che poteva, attraverso i Consigli appunto, organizzare e controllare meglio le deportazioni. Etty decide spontaneamente di chiedere il trasferimento a Westerbork per essere vicina alla sua gente e condividerne la condizione. Da lì, il 7 settembre del ’43, viene caricata sul treno per Auschwitz dove, insieme ai suoi familiari morirà poco dopo. Prima di lasciare il territorio olandese, Etty riesce a gettare dal vagone una cartolina, indirizzata all’amica Christine van Nooten, che viene raccolta e spedita da contadini. In essa scrive: «abbiamo lasciato il campo cantando».
Esiste una ricca bibliografia su di lei, riportata nel saggio di Wanda Tommasi.
Sulla Rivista A è apparso il seguente articolo: Nadia Agustoni, Risposte che non sono mai risposte, n. 257 ottobre 1999.
La casa editrice Adelphi, Milano 1985, 1990, ha pubblicato – per la traduzione di Chiara Passanti – il Diario 1941-1943 e le Lettere 1942-1943.