Rivista Anarchica Online


(in)cultura

Rompere il cerimoniale
di Piero Brunello

 

Intervento all’incontro per l’abolizione dell’assessorato regionale alle politiche per la cultura e l’identità veneta, promosso da storiAmestre e dall’Osservatorio sulle trasformazioni del Veneto (municipio di Mestre, 28 settembre 2002).

Oggi inizia al Castel Brando di Cison di Valmarino, in provincia di Treviso, una manifestazione di due giorni denominata “Una piazza per la storia veneta”. Come si legge nel comunicato stampa, l’iniziativa è stata presentata dall’assessore alle politiche per la cultura e l’identità veneta Ermanno Serrajotto e dal sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini. Si rievoca Giovanni Brandolino, conte di Valmarino, “condottiero delle truppe venete [….] sul fronte nord della Repubblica veneziana”. Ci sarà una “festa d’armi” con duelli, tornei a cavallo e figuranti in costume. Il manifesto parla di una festa di “Veneti di terraferma”, e annuncia l’incontro tra Veneti, Tirolesi e Bavaresi. Si fa ordine. Si catalogano culture, etnie, comunità, e gli individui vengono assegnati o all’una o all’altra. Si prescrivono norme di comportamento. I Veneti, dietro il crocefisso e il leone di San Marco. “Il mio auspicio – dichiara l’assessore all’identità nel sito ufficiale della Regione – è che nelle scuole del nostro territorio, assieme al crocifisso, si esponga anche la bandiera della Regione, emblema della storia del popolo veneto”. Da tutto questo si capisce che sarebbe meglio chiamare la manifestazione non “Una piazza per la storia veneta”, ma “Una storia veneta per la piazza”.
Il senso comune che sta dietro a iniziative di questo tipo è che la globalizzazione, in primo luogo gli stranieri poveri immigrati, minaccia la “nostra” cultura, la “nostra” storia, le “nostre” tradizioni eccetera, e che quindi dobbiamo riscoprire e valorizzare la “nostra” identità. Gentilini dichiara di sostenere “con entusiasmo” la rievocazione storica di Castel Brando, “per le sue finalità di valorizzazione del nostro passato”. Quando nello scorso mese di agosto un gruppo di immigrati magrebini occuparono il portico del duomo di Treviso, Gentilini parlava di “razza Piave”, dichiarando di non fare “questione di superiorità o inferiorità”, ma di differenza: “Questo non è razzismo, è conservazione della propria cultura” (“Il gazzettino”, 28 agosto 2002). Sappiamo come vanno queste cose. Le misure di esclusione avvengono progressivamente, in modo graduale e diluito, e così sono rese accettabili. “Tutto diventa una questione di tempo e di vocabolario”, scrive Georges Bensoussan nel libro L’eredità di Auschwitz: come ricordare? (Einaudi 2002, p. 64). Si è svolto da poco il primo festival “per la musica popolare dei veneti”, come l’ha chiamato il “Gazzettino” (3 settembre). Alla fine dell’anno scolastico si distribuiranno 50 premi di cinquemila euro ciascuno, per ricerche fatte a scuola sulla storia veneta: “si premiano cultura e identità veneta”, intitola sempre il “Gazzettino” (20 agosto).
Pratiche di ricerca dal basso – come la storia locale o la ricerca folclorica ed etnomusicologica – diventano una mobilitazione dall’alto. L’assessore all’identità veneta, nel bandire il primo Festival per la musica popolare dei veneti (uso il titolo del “Gazzettino”) ha dichiarato di voler “difendere le nostre tradizioni”, dato che oggi in Veneto si balla musica romagnola e si canta quella napoletana (R. Mazzaro, L’identità veneta espressa in musica, “Nuova Venezia”, 3 settembre 2002). Lasciando perdere le classificazioni dell’assessore – gli emiliani il liscio, i napoletani ’O sole mio, forse ai trentini spettano i cori della Sat – il problema è il significato di “canti popolari”. Nella tradizione del Canzoniere popolare veneto e dei gruppi che facevano riferimento all’Istituto Ernesto De Martino, le canzoni popolari esprimono i sentimenti delle classi popolari – delle classi sociali sfruttate –, delle donne e dei soggetti esclusi dalla storia. Con tutto l’amore che aveva per la canzone veneziana, anzi proprio per questo, non credo che Luisa Ronchini avrebbe mai dichiarato di voler difendere, come dichiara di voler fare l’assessore regionale, “la lingua, la cultura e le tradizioni venete”. Basti pensare all’importanza delle canzoni anarchiche nel suo repertorio. Lei e il Canzoniere popolare veneto avrebbero parlato di “espressività popolare” e di “canzone politica”.

Ma quale identità veneta?

Scopo della Regione è controllare il repertorio mettendolo sotto l’etichetta di “identità veneta”, intendendo in altre parole le canzoni popolari come espressione della cultura e identità di un popolo che proclama di identificarsi con un territorio fin dai tempi più antichi. Non esagero se dico che siamo dinanzi a un legame di terra e sangue. Il sussidiario Noi Veneti prodotto dalla Regione e distribuito in tutte le scuole (Cierre, Verona 2001) è una sorta di catechismo per aneddoti che va dai Paleoveneti agli imprenditori del nord-est. Faccio una parentesi sui Paleoveneti. Luciano Bianciardi ha scritto pagine esilaranti sugli studiosi che inventavano gli Etruschi e li vedevano dappertutto. Chissà che cosa avrebbe scritto se questi studiosi avessero parlato di Paleotoscani. Per quanto non se ne sappia quasi niente, di sicuro le fonti parlano di Eneti o Veneti. Paleoveneti è una espressione che si può usare solo se li si immagina come i progenitori di Neoveneti abitanti dentro i confini dell’attuale regione del Veneto, o di qui emigrati nel corso dei secoli, rimanendo Veneti.
Immaginiamo un festival. Il rito inizia con il discorso di una autorità politica. Porta i saluti, come si dice. Ecco più o meno il discorso: “Gaelici! È con grande piacere del mio cuore gaelico che oggi mi trovo qui con voi a parlare gaelico, in questa sagra gaelica, nel punto centrale dell’area di lingua gaelica. Devo forse dirvi che sono un gaelico?! Ebbene sì, sono gaelico dalla cima della testa fin sotto la pianta dei piedi, davanti e didietro, sopra e sotto. E anche voi siete tutti veri gaelici. Siamo tutti veri gaelici di vera stirpe gaelica. Chi è gaelico, sarà per sempre gaelico. […] Sissignori, se vogliamo essere veri gaelici, dobbiamo discutere costantemente il problema della rinascita gaelica e la questione della gaelicità. Inutile avere la lingua gaelica, se dobbiamo usarla per parlare di argomenti non gaelici. Chi parla gaelico ma dimentica di parlare del problema della lingua, non è un vero gaelico; una condotta simile non è di alcun beneficio alla causa della gaelicità, anzi, significa che costoro si prendon gioco del gaelico, insultano gli stessi gaelici. Non c’è niente al mondo di altrettanto bello e altrettanto gaelico quanto i gaelici autenticamente tali che parlano nel più gaelico dei gaelici della vera lingua gaelica. Dichiaro quindi gaelicamente aperta questa sagra. Viva i gaelici e lunga vita alla vita gaelica!” (Flann O’ Brien, La miseria in bocca. Prefazione di Gianni Celati, Feltrinelli 2000, pp. 84-85).
Dopo il discorso iniziale, tocca ai gruppi musicali. I gruppi sono diversi l’uno dall’altro. Ci sono di quelli che fanno vere canzoni gaeliche, e che chiuderanno il concerto con un inno alle glorie dell’animale totemico dei Paleogaelici, che è il cavallo. Non è detto che questi siano la maggioranza di quelli invitati a cantare.
Tra i gruppi che fanno canzoni in gaelico, ce ne sono di quelli che trovano pericoloso distinguere tra veri gaelici, gaelici traditori e non gaelici. Questi gruppi partecipano ugualmente all’iniziativa e per prendere le distanze scelgono canzoni di lotta in gaelico. Nessuno può prevedere l’esito di una canzone. Potrebbe succedere che qualcuno che credeva di essere un vero gaelico, sentendo una canzone del genere, cominci ad avere dei dubbi. Ma più dubbi ancora – stiamo sempre immaginando – vengono a questi gruppi musicali quando si accorgono che tutti prendono le loro canzoni come canzoni gaeliche e che il più entusiasta di tutti è l’autorità seduta in prima fila, lo stesso che ha portato i saluti. Le cose non succedono nel corso di una serata. Anche qui, tutto è questione di tempo e di vocabolario. La canzone di lotta in gaelico diventa dapprima una canzone gaelica di lotta, e poi una canzone di lotta gaelica.
Ci saranno poi gruppi che vanno dove si svolge il festival, dichiarano di non collaborare, fanno appello alla diserzione, e continuano a suonare dove e con chi l’hanno sempre fatto.
Infine è possibile, soprattutto nelle prime fasi delle sagre gaeliche, che ci siano gruppi invitati al festival per sbaglio. Quando capiscono di cosa si tratta, si chiedono cosa ci stanno a fare e ci danno dentro con “Nostra patria il mondo intero”; e potrebbe anche succedere che il pubblico si metta a pogare cantando in coro con il pugno chiuso alzato, e che il festival ottenga l’effetto opposto. Questo gruppo non verrà più invitato, a meno che non addomestichi il repertorio.


Solidarietà, non identità

Come sempre, le situazioni sono più sfumate. Ma è per dire che io sostengo l’idea di non collaborare. Credo che la singola canzone derivi il suo significato soprattutto dalle altre canzoni a cui si accompagna e dal contesto in cui è inserita. Cito Alessandro Portelli: “Ho sentito O Roma o Roma città tanto cara cantata da una famiglia di ferrovieri comunisti della borgata di Val Melaina, dopo La guardia rossa e prima di Su comunisti della capitale: non c’è alcun dubbio che questo contesto precisasse la protesta di per sé generica della canzone” (Tipologia della canzone operaia, “Movimento operaio e socialista”, n.s., VI, 1983, 2, p. 215).
Sono inoltre per la non collaborazione perché trovo buoni gli insegnamenti di Tolstoj, quando dice che il potere ha prestigio solo perché c’è chi obbedisce: solo per chi obbedisce. Quando si disobbedisce, il re appare nudo. La tradizione libertaria mostra che il potere e in primo luogo gli Stati si impongono perché gli individui hanno paura della libertà, e che le istituzioni politiche sono tanto più forti quanto più indeboliscono la capacità che i singoli e gli individui associati hanno di pensare, di incontrarsi, di decidere, di autogovernarsi, di attribuire un senso alle cose che fanno. Libertà e autonomia non sono obiettivi da rivendicare, ma un valore da mettere in pratica: non vanno richieste e attese da una qualche autorità, ma vissute.
Qualche giorno fa c’è stato un convegno promosso dall’Irre e dall’assessorato regionale alle politiche per la cultura e l’identità veneta, dal titolo Insegnare le storie locali nell’età della globalizzazione (Treviso, 23-24 settembre). Ci hanno collaborato le principali associazioni di storia. L’associazione storiAmestre ha dichiarato di non collaborare perché le politiche per l’identità veneta sono “politiche per la discriminazione”, e sono “incompatibili con la libertà della ricerca e con l’abitudine alla critica auspicabile nell’insegnamento”; e ha invitato relatori e partecipanti a chiedere l’abolizione del nome dell’assessorato. Il documento è stato volantinato al convegno. Nel frattempo anche l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza, riprendendo il documento di storiAmestre, si era dissociato. Questo ha dato più forza ai relatori che condividono queste idee, tanto che al convegno praticamente tutti, in modo più o meno esplicito, si sono dissociati dalle politiche dell’assessorato. La vicenda è importante perché ha fatto capire che si deve rompere il cerimoniale, e che questo è possibile.
Le ideologie che mobilitano sulla base di una identità etnico-culturale non parlano di amore per un territorio, ma dicono a chi obbedire e come si debba organizzare una società. “Identità” non è opposto di omologazione, come proclama, ma di uguaglianza. Solo contrastando apertamente tali ideologie – solo dicendo “questo non mi piace” – si possono attivare pratiche di ricerca, di solidarietà e di mutuo aiuto nell’ambito locale, in cui viviamo.

Piero Brunello