Rivista Anarchica Online


arte

Unica eccezione, l’anarchia
Intervista di Ute Tischler e Rana Brentjes
a Andrea Crociani

 

Andrea Crociani è un artista, che vive e lavora a Berlino e a Londra. Lo scorso anno nella capitale tedesca ha tenuto un’esposizione incentrata sull’anarchico Errico Malatesta (1853-1932).

In uno dei tuoi ultimi lavori, hai ripreso una intervista di Frank Kofski con il musicista jazz John Coltrane. Connessa con la tua personale asserzione espressa nel video “What I have done in the last 10 years”, la conversazione con John Coltrane diventa non solo una icona nella storia del jazz ma si oppone sotto certi aspetti all’immagine stessa degli artisti della fine degli anni ’90. Senti la mancanza di una forza, di una tensione emotiva nell’arte contemporanea?

Nell’intervista c’è una frase, “la musica può cambiare la società”. È un concetto che oggi suona magari naïf, ma mi piace questa tensione verso l’impossibile, che comporta anche il credere nelle potenzialità del mezzo che si sta usando. Cerco di non sentire la mancanza di niente, vivo nel presente e cerco di costruire cose, ma certo mi piace questo continuo tentativo di arrivare all’orizzonte, quando si sa che l’orizzonte è inarrivabile. Per me è un modo per apprezzare l’umanità intera, e vedere l’uomo per quello che è, un animale fortunatamente imperfetto. Non sopporto ogni pretesa superiorità e il pretendere la perfezione, credo che siano falsi valori, che non portano a niente di buono. La tensione emotiva implica imperfezione, questo mi piace.

Cosa intendi come orizzonte?

È lo sforzo di raggiungere un punto, quando si sa che quel punto è impossibile da raggiungere. È l’espressione di un processo dove non si arriva mai dove si vorrebbe arrivare, e tutto lo sforzo che si fa è nel processo stesso, nel tentativo di arrivare ad un punto.

Puoi descrivere il punto che vuoi raggiungere con il tuo lavoro?

Non so, credo sia qualche cosa connesso con la continua ricerca di un mio punto di vista sul mondo, sulle cose. Arte è per me una possibilità di stare sempre in guardia, di avere una attenzione costante su quello che succede. Per cui direi che quello che voglio raggiungere con il mio lavoro è una costante attenzione sulle cose, esercitare e sviluppare il mio spirito critico. Ma anche questo in effetti fa parte del processo, per cui quello che voglio raggiungere con il mio lavoro in definitiva è il processo stesso, la meta finale mi interessa meno.

Nei tuoi lavori usi spesso la musica. Che ruolo gioca la musica nel tuo lavoro?

Un ruolo molto importante; prima di tutto la musica è basata molto su espressione e matematica, per cui c’è questa integrazione tra due anime differenti che mi interessa. Inoltre la mia formazione è musicale, oltre che artistica. Suono la chitarra, collaboro con un gruppo musicale qui a Berlino con proiezioni di diapositive e di video durante i concerti, per cui sono spesso relazionato alla musica. E mi piace l’approccio in musica che, come in letteratura, non è strettamente connesso con qualche cosa di fisico. Mi piace questo approccio di lavorare senza avere la necessità di un particolare materiale, di un particolare supporto.

Credi che la musica possa raggiungere il pubblico più facilmente che l’arte?

Sì, c’è questo aspetto. Musica è un media immediato, immediatamente recepibile. A volte la musica sembra essere in grado di toccare delle necessità recondite dell’uomo, che l’arte non può toccare veramente. Credo che arte sia un media molto lento, uno dei più lenti. Ma credo però che arte, l’arte visiva, o come la vuoi chiamare, possa potenzialmente andare più in profondità. Forse perché rispetto alla musica ha una maggiore stretta relazione con le cose e la realtà. Non so cosa questo voglia dire, non ne sono per niente sicuro, è solo una mia impressione. Arte comunque può inglobare tutto, anche media differenti, per cui posso lavorare comunque con la musica – uno dei miei ultimi lavori è stato suonare la chitarra elettrica per le persone e organizzare un concerto per un chitarrista classico – posso scrivere, o viaggiare, o fotografare, o dormire, non so... tutto può essere arte.

Ma la musica anche, puoi dormire e presentarlo come un brano musicale...

Sì, ma in musica questo è un atteggiamento che viene poi chiuso in un angolo ed etichettato come “sperimentazione”. Non mi troverei a mio agio, è una definizione e una posizione che non mi piace. Alla musica invidio invece la sua grande potenzialità di parlare a molte persone in maniera semplice, diretta, e di farsi capire.

Hai detto che la musica è più immediata, mentre l’arte visiva è un media più lento. Credi che questo sia perché la musica è più estroversa, e per questo più popolare?

La musica spesso riesce a toccare il tuo corpo, arte invece difficilmente tocca il corpo, è un approccio differente. E credo che se in arte vuoi toccare ad ogni costo il corpo delle persone lavorando sull’emozione, spesso poi la cosa diventa eccessiva, perde quella naturale e tranquilla voglia di comunicare che in arte trovo molto interessante.

In questo momento il mondo è sotto shock a causa dell’attacco terroristico dell’11 settembre. Una domanda molto comune nel mondo dell’arte e non è che se questo cambierà la produzione artistica nell’immediato futuro. Cosa ne pensi?

Sì, credo che lo farà, il pericolo è che diventi una specie di moda. E poi non trovo sia corretto parlare di guerra solo quando la guerra ci tocca direttamente. Questo dimostra una mancanza di attenzione ai problemi che sono al di fuori dei nostri stessi interessi. Cosa che può essere naturale, ma che espressa in maniera così massiccia come in questi giorni rivela come minimo dei chiari aspetti di ipocrisia.

E perché credi che sia possibile che diventi di moda parlare di queste cose?

Forse perché l’arte contemporanea è alla ricerca di attenzione, perché magari vuole sentirsi utile, o perché è alla ricerca di una legittimazione. Credo che arte non abbia bisogno di alcuna legittimazione, è semplicemente una forza in continuo cambiamento, che non ha bisogno di legittimazione. Niente ha bisogno di legittimazione, legittimazione è un giudizio, e non credo nei giudizi. E poi legittimare l’arte significa darle una specie di cornice quando invece l’arte deve, o almeno deve provare, a uscire da ogni cornice imposta, provare a toccare altri punti.

Le strategie dei media nella rappresentazione della forza sono state per te un interesse per molto tempo. Il crimine organizzato, il terrorismo, sono inoltre aspetti profondamente legati alla cultura politica in Italia, paese dove hai vissuto per vari anni. In che modo il tuo lavoro ne è stato influenzato?

Quando parlo di violenza, o meglio ancora di repressione, mi interessa dare una idea generale del problema, non focalizzare la mia attenzione su una specifica situazione. È come nei film di Sergio Leone, non è la violenza del west che viene toccata, ma la violenza e i suoi meccanismi di sempre, in generale. Non credo poi che in Italia a questo proposito le cose siano molto diverse dal resto d’Europa. Ogni potere politico porta con sé i suoi crimini e genera tensioni sociali, è inevitabile, perché il fine di ogni politico è la riconferma del proprio potere, e per questo ognuno è disposto a tutto. È un difetto genetico delle democrazie, è un problema intimamente legato al potere. Ogni politico è potenzialmente un criminale, perché è inevitabile che esercitando il suo potere generi tensioni sociali che a loro volta generano crimini.

Trovo che ci siano sempre state affinità tra arte e forza, tra arte e violenza, che sono esperienze esistenziali che influenzano costantemente il discorso artistico. Arte ha il potere di distruggere?

L’arte deve cercare di costruire, cercando di sbagliare il più possibile. È solo in questo modo, lo svilupparsi tramite il dubbio e la ricerca volontaria dell’errore, che l’arte può differenziarsi dalla politica di oggi, dai media, dall’economia, da ogni sistema che ha la pretesa di giudicare. Il distruggere significa imporre il proprio pensiero e privare altre persone della possibilità di sperimentare soluzioni alternative. L’arte deve invece difendere ad ogni costo la possibilità di sperimentare ogni tipo di possibilità alternativa, anche posizioni differenti dalla propria. La società civile sembra disinteressarsi completamente a questo aspetto, non accetta altre soluzioni oltre alla via che ha scelto. L’arte ha il potenziale di proporre un differente modello di convivenza, proprio perché può contemplare in sé la possibilità dell’errore e l’interesse per altri tipi di pensieri e altri tipi di soluzioni. Invece la ricerca di soluzioni alternative in ogni tipo di società, compresa quella democratica, sono penalmente perseguibili. L’unica eccezione è la società anarchica, proprio perché applica su larga scala un metodo che è fondamentalmente creativo. I punti da dove un artista e un anarchico partono a mio parere sono essenzialmente gli stessi. Per me la verità in arte come in ogni altra cosa non esiste. Per questo credo che l’arte sia molto vicina all’anarchia, o viceversa. Se si accetta il fatto che una singola verità non esiste, termini come distruzione, legittimazione, giudizio non hanno più senso. Uno dei problemi della società contemporanea, oltre a quello di guardare troppo al proprio portafoglio, è che crede nell’esistenza di una singola verità.

Credi nella responsabilità?

Credo molto nella responsabilità, e credo che sia un valore male esercitato in democrazia, come in ogni altro tipo di regime, dove non c’è spazio per la responsabilità perché tutto è organizzato da regole. Mi piace pensare all’uomo come ad una persona matura, e cerco di trattarlo come tale. Il senso di responsabilità e il rispetto in questo senso giocano un ruolo fondamentale.

Ute Tischler e Rana Brentjes
Intervista apparsa su “Temporale”, n. 54-55,
edizioni Studio Dabbeni, Lugano

Esposizione "Signor Errico Malatesta", 2001, galleria Juliane Wellerdiek, Berlino