Rivista Anarchica Online


 

Con i malfattori nel Cuore del sogno

Una sera di giugno al Centro Dialma Ruggero di La Spezia.
Scostata la tenda che ci separa dallo spazio scenico adibito dal Teatro degli Auras per la rappresentazione dello spettacolo “Spartana – Associazione di malfattori”, ci siamo sentiti improvvisamente scontornati dalla coscienza del presente e ritrapiantati in una scacchiera temporale che ci rendeva non solo testimoni d’un flusso storico eternamente fecondo ma spettatori attivi di un processo retroattivo ancora tutto vibrante d’invocazioni e anatemi. Scortati dagli stessi attori all’interno della struttura scenografica dove sedere, abbiamo avvertito il peso interrogante dei loro sguardi che muti e trasversali ci scrutavano soppesando la nostra disponibilità etica al tema che da lì a poco avrebbero trattato.
Eccoci dunque accomodati in un’antica baracca di cavatori addossata alle dolenti montagne che pare trasfigurarsi in una cattedrale sconsacrata che al posto delle litanie liturgiche – quelle si terroristiche e mortifere – accoglie dal passato e rimanda al presente l’eco polifonica della memoria anarchica carrarese, una partitura scolpita nel marmo con le sonorità del dolore e della rabbia ma anche con l’estasi del sogno estremo: l’estrema libertà. Questa “tensione verso” che non finirà di proiettarsi nel mondo e di introiettarsi nei “malfattori” vibra per tutto il percorso che parte dal 1874 e giunge sino al G8 in una sorta di stazioni storiche dove ad attenderci sono gli antieroi vittoriosi del pensiero anarchico anche evocati in quel popolo clandestino (forse anche noi) che a quella “tensione verso” aderì nel corso dei due secoli precedenti.
Gli attori, come ombre cinesi, appaiono e svaniscono con repentini e faticosi movimenti corporali attraverso giochi ad incastro simili a un vecchio caleidoscopio ritrovato in cantina diventando, per quell’atmosfera di limbo sospeso, le lancette di un orologio che segna il tempo d’un tempo non scaduto e ancora tutto inesploso: quello della rivolta negata e repressa che batte sul quadrante della controstoria. È quindi questa umile baracca una specie di lampada di Aladino che gli attori strofinandola coi loro corpi animano riportando alla luce personaggi, episodi, conflitti che come semi antitransgenici ci rigermogliano nell’indignazione e nella commozione.
Per questo, nelle rare pause, gettando un’occhiata alla baracca così grigiastra e trasparente ci sentiamo come dentro un bozzolo utopico, avvolti dalla fraternità di quei progenitori che ci regalarono il sogno innescato. Di più: ci sentiamo dentro a un incavo procreatore, una sacca amniotica di stampo onirico in cui galleggiare – gomito a gomito – con quell’anarchia come antidoto alla palude epocale e planetaria del terzo millennio.
Gli attori – Antonio Bertusi, Antonio Branchi, Riccardo Naldini, Alessio Romano – così affidabili e credibili, si sono avvicinati con rispetto, amore e convinzione ai ruoli interpretati restituendoli in una realistica colloquialità anche là dove l’enunciazione di principi “alti” e “altri” poteva indurli a toni enfatici o da comizio filosofico, al contrario riportare “a terra” l’utopia ha significato renderla possibile e estensibile pratica armoniosa fra tutti i “malfattori” di buona volontà. La coloritura recitativa – così pregna di tensione – nasce dal senso del lavoro comune e crea tra gli interpreti una compattezza organica efficace e ritmica che si manifesta al di là dei meriti individuali con punte di bravura diversificata. Lo stesso impianto drammaturgico – come ci spiega la regista Virginia Martini – è andato via via formandosi durante le prove attraverso una sequela di documenti, dialoghi, estrapolazioni, ricerche storiche che dal magma caotico originario hanno poi rivelato di sé la parte più significativa, itinerante e rappresentabile.
La regia della Martini così lucida e matura ha operato all’interno del gruppo nel segno della concertazione in modo equilibrato tenendosi prudentemente lontana dagli schemi del teatro borghese ma anche da quello obsoleto dell’avanguardia storica scegliendo, nell’ambito di un’estetica intermedia, l’utilità di una comunicazione diretta che comunque chiede allo spettatore una preinformazione tematica indispensabile e inevitabile.
Mi si conceda una piccola nota nostalgica nell’esternare la penetrante emozione all'ascolto, fuori campo, delle voci indimenticabili di Fabrizio De André, Luigi Tenco, e Jaques Brel. Pochi accenni ma palpitanti e sempre vivi “sotto pelle”. Doveroso, dopo averne tanto parlato, citare la scenografa Caterina Livi Bacci e i suoi collaboratori realizzativi Francesco Iardella e Stefania Luisi, le luci di Francesco Iardella, l’assistenza alla regia di Gaia Gardone. Ci piace inoltre segnalare un altro spettacolo del Teatro degli Auras e precisamente
“Cinquecentoquattromilionicinquantasettemila” dedicato a Silvia Baraldini.
Dunque in un momento epocale in cui il vento della cretineria planetaria spazza via talenti autentici e contenuti profondi per favorire volgari fantocci decerebralizzati su schermi televisivi è con autentica solidarietà che accogliamo questo gruppo teatrale così vicino a noi e a tutte le istanze di rivendicazione sociale e di rinnovamento culturale.

Mauro Macario
Per informazioni:
Teatro degli Auras
V.le XX Settembre 247
54036 Marina di Carrara (MS)
Tel. 0585 856552 Fax 0585 854715
E-mail: teatro.auras@tin.it

 

Les Anarchistes di Carrara

In netto contrasto con la discografia commerciale che ci affligge con otiti purulente e crisi diabetiche causate da melodrammi zuccherosi nazional-popolari in tre minuti e che persegue nei suoi intenti programmatici non solo la diseducazione musicale e la mungitura di meteore canore stagionali ma anche lo svilimento culturale di una disciplina da sempre invisa agli accademici tronfi che pensano alla canzone come a un’arte “minore”, ecco apparire, spavaldo ed eroico, sull’orizzonte di questo encefalogramma piatto Les Anarchistes, un gruppo musicale colto, raffinato e, per fortuna, viscerale che formatosi a Carrara ripropone di Carrara l’anima storica più profonda e compulsiva in senso anarcoutopico ripercorrendo solchi tradizionali reinterpretati con una moderna sonorità originale sostenuta da un cuore percussionistico che bussa al tuo cervello per rianimare antiche memorie da tramandare avveneristicamente nel domani della rivolta.
A pronunciare Les Anarchistes torna subito alla mente la figura leggendaria di Léo Ferré, poeta e musicista libertario che al pari di una cometa incendiaria ha attraversato i cieli d’Europa nel novecento appena trascorso. Una cometa annunciatrice di sismi catartici nell’immaginario individuale e collettivo, una scia stellare che insemina germi insurrezionali illuminando nuovi luoghi di natività anarchica. IL CD, appena uscito, è intitolato FIGLI DI ORIGINE OSCURA, ancora un verso di Léo Ferré per timbrare un’affettiva e ideale appartenenza e offrirgli in tributo l’interpretazione di tre brani: GLI ANARCHICI – TU NON DICI MAI NIENTE – IL TUO STILE. Ferré che a Carrara tenne un memorabile concerto alla fine degli anni ottanta al teatro degli Animosi e dove, alla fine del recital, i compagni gli chiesero di leggere in italiano il monologo NON C’È PIU’ NIENTE, tra le cui pagine spicca l’equazione anarchica: il disordine è l’ordine meno il potere.
E del potere i nostri amici si renderanno conto quando, a causa della loro denominazione dichiarata, saranno rifiutati nei luoghi della conservazione e dell’oscurantismo istituzionale e epocale. Gli altri brani sono: Tamurriata delle mondine /Bella ciao – Sante Caserio – Il Galeone – Battan l’otto – Lacrime ’e cundannate (per Sacco e Vanzetti) – Su fratelli pugnamo da forti (per Carlo Giuliani) – The Mask of Anarchy – Dai monti di Carrara – Un dì discenderemo – O Gorizia tu sei maledetta – Un bolero per Goliardo.
Il gruppo è composto da: Nicola Toscano, chitarrista e arrangiatore, Booz al basso, Mauro Avanzini, sax e flauto, Max Guerrero, key & grooves, Lauro Rossi, trombone, Mirko Sabatini, batteria, e le voci di Alesandro Danelli e Marco Rovelli. Ospiti eccezionali: Raiz, cantante degli Alma Megretta, Blaine Reininger e il geniale Antonello Salis.
Concludono l’elenco gli artisti: Cristina Alioto, Anna Granata, Danilo Gransi, Byron Smith, Mauro Balestri. Questo progetto s’è reso possibile grazie all’intervento dei seguenti organismi:
Assessorato alla Cultura di Carrara, Associazione Musiche Associate, Progetto Porto Franco/Regione Toscana, Associazione culturale CA Michele, Circolo anarchico Goliardo Fiaschi, Arci Carrara-Lunigiana.
Il risultato è un CD dirompente per la forza retroattiva che contiene, una forza innescata che si coagula e deflagra nelle voci di Alessio Danelli detto “Gran Ganga” e Marco Rovelli, fionda vocale tesa allo spasimo. Interpreti che si alternano anche sul palcoscenico scambiandosi i brani come staffette impazzite pronti al sabotaggio quando depongono il loro canto ai piedi della Storia, quella ufficiale, per scardinarla nella controinformazione cantata.
Nicola Toscano concepì la nascita del gruppo fin da quando frequentando Manuela Ferré, scultrice e figlia del grande Léo, iniziò ad approfondire la conoscenza della sua opera musicale traendone stimolo ed energia. Energia oggi liberata in un bellissimo concerto avvenuto il 14 giugno al Centro Dialma Ruggero di La Spezia, spazio polivalente e multimediale gestito da una giovane determinata cooperativa e per la parte musicale da Pietro Senigallia. Il Centro offre sia ai professionisti che agli emergenti ampie possibilità d’azione attraverso una programmazione variegata e intelligente in simbiosi con le istanze espressive generazionali. In concerto Les Anarchistes, a mio modesto avviso, rendono ancora di più forse perché la particolare tematica di fondo che li unisce e li esalta trova nel rapporto dal vivo, con il pubblico, il proprio cavallo di fuoco che subito s’incendia e s’impenna dando vita a un percorso politicomusicale di grande emozione. Il brano “Su fratelli pugnamo da forti” sarà presente anche in un CD prodotto dal Comitato Carlo Giuliani che si chiamerà “Piazza Carlo Giuliani, ragazzo” e che vedrà, tra gli altri, la partecipazione dei 99 Posse, dei Subsonica e dei Modena City Ramblers.
Les Anarchistes, un gruppo musicale – vitaminico ed elettrico – che va a irrorare la desertificazione in atto per far germogliare tra le sabbie immobili del nostro tempo dei bei fiori carnivori nella serra del letargo collettivo.

Mauro Macario
Per informazioni:
niktoscano@libero.it

Les Anarchistes, da sinistra: Nicola Toscano, Booz, Max Guerrero, Alessandro Danelli, Mauro Avanzini, Lauro Rossi, Marco Rovelli, Mirko Sabatini

 

Guerra di classe o lotta umana

Gigi Di Lembo è uno storico dell’anarchismo che rifugge dalle accademie e dai luoghi comuni fiorenti nell’ambiente universitario, dove insegna, e che vanno attecchendo anche nel movimento a cui dedica da decenni il suo impegno militante e i suoi consigli di buon senso “malatestiano”. Gigi è anche per molti giovani storici e compagni un “amico” nel senso profondo e polisemico della parola: consulente, confidente, critico benevolo, contraddittore, alleato prezioso e, non ultimo, di piacevole compagnia. Queste qualità umane si riflettono nel suo ultimo libro, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), apparso recentemente per i tipi della BFS di Pisa, che solo riduttivamente può essere definito un capolavoro della storiografia sull’anarchismo italiano (e scusate se è poco!), ma che è soprattutto espressione di una grande disponibilità al confronto e allo scambio comunicativo su un terreno, quello storico, che sembrerebbe negarli. Ne emerge un’opera “aperta”, fertile, discontinua ma armonica, e letterariamente suggestiva: miracolo occorso a pochissimi storici di vaglia. E qui il pensiero va subito a Pier Carlo Masini, della cui Storia degli anarchici italiani, che s’interrompe alla vigilia della prima guerra mondiale, il libro di Di Lembo costituisce il naturale prolungamento.
Guerra di classe e lotta umana regge brillantemente il confronto con la Storia di Masini. Quest’ultimo era un inarrivabile e forbito narratore, cesellatore del dettaglio preciso, razionalista meticoloso, erudito compiaciuto e compiacente, finanche a scapito della completezza dei fatti e delle idee che tratteggiava. Ben pochi avrebbero potuto competere con lui su quei terreni. Ma talvolta egli si dimostrava uno scrittore partigiano (di quella tendenza politica o di quel personaggio che più lo attraeva). Di Lembo non lo imita in questo: accanto alle proprie, infatti, riporta e discute le convinzioni di altri. Magistrali in tal senso le pagine sul “fronte unico rivoluzionario” e particolarmente la critica che vi svolge in rapporto al fallimento del movimento delle occupazioni nelle fabbriche (pp. 89-92).
Masini di tanto in tanto sfornava giudizi apodittici, considerazioni definitive, lì dove Di Lembo avrebbe posto e pone efficaci interrogativi. Come quando tenta di spiegare (p. 94 ma più avanti vi tornerà sopra) la tenuta del movimento anarchico dopo l’arresto di Malatesta e della redazione di “Umanità Nova” al completo, con l’abitudine «ad agire sulla base dell’iniziativa individuale e su quella dei contatti personali tra elementi che si conoscevano a fondo, e non sulla base di organismi che comunque lasciano tracce». In tal modo rimette in discussione quell’opinione, prevalente tra gli storici dell’anarchismo, che attribuisce all’organizzazione strutturata quei benefici che nega invece alla libera iniziativa dei singoli e dei gruppi. Di Lembo preferisce tenersi lontano dalle dispute tra le varie tendenze; punta piuttosto a evidenziare le responsabilità comuni. Come, ad esempio, per la rottura consumata al congresso di Ancona del 1921 tra l’Unione Anarchica Italiana e l’”Avvenire Anarchico”, il maggiore organo degli antiorganizzatori: pur considerando l’iniziativa come “formalmente legittima”, egli non manca di definirla politicamente “dissennata” (p. 124).
Il confronto con la Storia di Masini consente di mettere a fuoco quello che, a mio avviso, è il pregio maggiore del libro di Di Lembo. Masini era alla ricerca di una linea evolutiva dell’anarchismo italiano, alla quale sacrificava sovente i frammenti di alternative marginali eppur congeniali alla stessa comprensione. Di Lembo, se lo spazio glielo consentisse, non smetterebbe di raccontarci degli infiniti rivoli e delle innumerevoli storie “minime” che rendono il movimento anarchico inafferrabile alla morsa di qualsivoglia potere e impermeabile alle facili classificazioni: rivoli e storie che spesso racchiudono tesori di concreta utopia, che attendono oggi d’essere riscoperti, studiati e reimmessi nel dibattito politico. Egli pure focalizza l’attenzione su di una possibile linea evolutiva dell’anarchismo italiano che trae origine dall’”anarchismo realizzatore” dell’ultimo Malatesta, così felicemente sintetizzato: «1) Tutte le istituzioni vigenti sono una risposta, sia pure in chiave di potere, a necessità reali. Si possono quindi sostituire con successo solo avendo concrete alternative.
2) All’anarchismo non si arriva con una rivoluzione ma con un succedersi di rivoluzioni che gradualmente approssiminino ad una società anarchica. 3) Ogni rivoluzione si avvicinerà tanto più all’ideale quanto più gli anarchici riusciranno ad immettere soluzioni libertarie alle necessità della società in cui vivono, da ricercare e da sperimentare
» (p. 145). A tale concezione affianca quelle di Gigi Damiani, secondo cui gli anarchici avrebbero dovuto farsi «portatori di lotte per la libertà. Quella libertà, in quel momento, si traduceva concretamente nella lotta per il federalismo più ampio, sociale, economico, politico» (p. 146), e di Camillo Berneri, che «cercò di rompere il dualismo urbano proletariato-borghesia, in cui si era cacciato anche l’anarchismo, ridando importanza agli strati intermedi e a quelli popolari e contadini» e individuando il potere dello Stato nella funzione amministrativa «che lo Stato pretendeva di assolvere, e in verità assolveva, ma nel modo più accentrato. La distruzione dello Stato implicava quindi l’assunzione delle insopprimibili funzioni amministrative da parte della società dei produttori» (p. 180). L’anarchismo insurrezionalista e classista ottocentesco si trovò tutto d’un tratto messo alle corde. Quelle idee fornivano infatti al comunismo antistatalista degli anarchici, emancipato dagli influssi marxisti, una nuova base teorica e progettuale, imperniata sull’autonomia dei liberi comuni e sull’autogestione delle fabbriche. Non riusciranno tuttavia ad imporsi e con esse sfumerà, nel secondo dopoguerra, gran parte della presunta evoluzione dell’anarchismo. Come ricorda lo stesso Di Lembo, a proposito del federalismo di Berneri, «non è che queste idee convincessero tutti né che passassero tranquillamente … né che Berneri fosse la guida spirituale dell’anarchismo dell’epoca». Gigi da un lato giunge a relativizzare (e umanizzare) il pensiero di giganti come Malatesta, Damiani e Berneri, sottoponendolo alla prova dei fatti e al giudizio impietoso della storia, dall’altro lato però lo ripropone criticamente all’attenzione dei compagni e degli studiosi. Quanto queste due formule, lotta di classe e lotta umana, corrispondono all’essenza stessa dell’anarchismo? Quanta influenza hanno avuto nella storia degli anarchici italiani? È possibile ed auspicabile una convivenza fra loro? Questi sono nodi non solo storiografici ma culturali e politici che il movimento anarchico esita a riconoscere e a sciogliere ancora oggi..
È quella dell’attenzione ai temi interni e alle prospettive di sviluppo dell’anarchismo di ieri e di oggi, un’altra delle costanti del lavoro di Di Lembo, che si stacca pertanto non solo più da Masini ma da tutti quegli storici che tendono a relegare la storia … ai libri di storia, e limitarne il suo uso sociale e politico, con la scusa ch’essa sia irripetibile o che trascenda inevitabilmente in letture faziose e inattuali. «La storia – disse Franco Della Peruta in un convegno tenutosi a Palermo nel 1995 – non serve a niente, perché non è maestra di vita, non riesce a far evitare gli errori che si sono compiuti nel passato, aiuta come dice un mio amico storico a fare le parole incrociate, questo sì, se volete, può però aiutare a dare la coscienza della propria identità, un senso critico, ad affrontare il mondo che ci circonda che è fatto di politica, di economia, di rapporti sociali, con un maggiore tasso di applicazione della ragione». Sono parole che hanno ricadute notevoli sul mestiere di storico. Inducono tra l’altro ad abbandonare le superfici levigate e ad addentrarsi nei labirinti del pensiero e dell’agire umano. Se ne colgono talvolta delle perle di saggezza, come a p. 37 del nostro libro: «Le guerre, se hanno sempre portato idee nuove e spesso di libertà, non hanno mai portato pratiche di libertà. Come si andavano accorgendo con allarme gli anarchici, spinta ribellistica e propensione alla delega non sembravano in contrasto …» Oppure ispirano osservazioni critiche di notevole spessore, come quando Di Lembo lamenta in campo anarchico l’insufficienza di analisi e di previsione del fenomeno fascista (pp. 124-128), seppur non comparabile con la miopia costituzionale di altri movimenti politici, il comunista in primo luogo; e come quando indugia, divertito e indispettito a un tempo, sui “granchi” presi da Armando Borghi di nuovo sul fascismo, sulla rivoluzione russa, sul mito dell’unità operaia, ecc. Ma neanche Damiani, per il quale Di Lembo nutre una trasparente simpatia, viene risparmiato: si noti quella frase lapidaria («In realtà, a osare di lì a qualche giorno sarà Giolitti») con la quale liquida una lunga e retorica tirata dello stesso Damiani (pp. 85-86) che chiamava gli anarchici, provati dal fallimento delle occupazioni, a “osare” nuovamente, mossi da «una forza che essi stessi hanno il torto di non voler riconoscere»(?).
Possiamo in conclusione affermare che questo libro sia privo di difetti? Ma nemmeno per sogno. Tra le numerosissime e vistose lacune, occorre segnalare qui quella che riguarda le vicende dell’anarchismo nel Meridione d’Italia, che di suo già sconta una carenza di bibliografia specializzata e di ricerche locali; e soprattutto deplorare il silenzio sugli episodi d’incessante seppur sotterranea resistenza al fascismo da parte degli anarchici rimasti in Italia durante il ventennio. Lacune imperdonabili, se Di Lembo avesse avuto la pretesa di “esaurire” l’argomento e la predisposizione mentale a farlo. Trascurabili invece per un’opera che tra i suoi principali obiettivi, oltre a indicare un indirizzo metodologico coinvolgente e rispettoso delle diversità, contempla quello di suscitare nuove e più accurate indagini che un’affrettata e onnicomprensiva ricostruzione avrebbe potuto inibire. Non è forse anche questa una scelta di campo nel segno della lotta per la libertà?

Natale Musarra