Rivista Anarchica Online


anni ’60

Nessuno ci può giudicare
di Massimo Ortalli

 

Il ruolo della musica nella nascita dei primi movimenti di contestazione: un bel libro di Diego Giachetti.

Non è un caso che, parlando degli anni sessanta, si finisca sempre col definirli «mitici». Fuor di retorica, infatti, e depurati da inevitabili incrostazioni nostalgiche, quegli anni furono davvero un eccezionale momento di svolta, e di non ritorno, per un’intera generazione di giovani che accedeva in massa, per la prima volta, ad opportunità che solo il nuovo e diffuso benessere degli anni del miracolo potevano offrire. Anni che rappresentarono una cesura irreversibile con un passato definitivamente «passato» e che al volgere del decennio terminarono, coerentemente, con l’altrettanto mitico 68, punto di arrivo di un processo generazionale assolutamente originale nelle sue dinamiche, e punto di partenza di un altro straordinario percorso, i cui approdi, nonostante tutto, sono tuttora alla base di una quantità di aspetti del nostro quotidiano ben maggiore di quanto non si voglia credere.
Recentemente abbiamo assistito al fiorire degli studi sulla storia dei movimenti contestativi e di lotta nati allo scadere del decennio, e parecchi di questi hanno saputo cogliere e descrivere la complessità di quel periodo, che fu così breve temporalmente quanto portatore di cambiamenti epocali. È anche raro, però, incontrare lavori interessati al più lungo processo di formazione di quella coscienza ribelle che prefigurò e rese possibile l’esplosiva «contestazione globale» sessantottesca. Più che a proposito, pertanto, esce oggi questo bel libro di Diego Giachetti edito dalla Biblioteca Franco Serantini (Anni sessanta comincia la danza. Giovani, capelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, BFS, 2002) nel quale si dà conto, mi pare per la prima volta in modo organico, dei passaggi di quel percorso di trasgressione che ebbe inizio nel lontano e sovversivo 1960 e che arrivò a compiutezza con gli avvenimenti del 1968 e degli anni immediatamente successivi. Una bella occasione, finalmente, per riconsiderare quegli anni senza il «rimpianto del tempo che fu» (anche perché Giachetti, quando arrivarono in Italia le canzoni dei Beatles, non aveva ancora 10 anni) ma anche senza quella insopportabile spocchia ipercritica sfoggiata da tanti pentiti dell’antico entusiasmo. Tanto più una bella occasione perché in questa sua ultima fatica Giachetti, già autore di altri studi sul periodo, affianca ai consueti strumenti dello storico quelli dell’antropologo, ricavando dai documenti coevi (in gran parte testi delle canzoni e giornaletti per i giovani) le radici di quell’autentica mutazione culturale che fu alla base della sovversiva originalità degli atteggiamenti di allora.
Dall’attenta lettura dei testi delle canzoni più significative e dirompenti, e dallo spoglio delle lettere che arrivavano alle redazioni dei primi giornali «per giovani» usciti in Italia, emerge un filo rosso che lega, passo dopo passo, le profonde trasformazioni che interessarono il modo di sentire e i comportamenti quotidiani di una parte tanto minoritaria quanto significativa del mondo giovanile. Un filo rosso partito da una esigenza sostanzialmente esistenziale, attenta soprattutto alle pulsioni generazionali, poi trasformatasi in una maturità dalle forti connotazioni politiche e sociali: in pratica la cronaca di una «educazione sentimentale» che dal bisogno di trasformare se stessi è arrivata, non c’è bisogno di ricordarlo, al tentativo di trasformare il mondo. Un percorso di ribellione, dunque, e di trasgressioni, condotte da una «minoranza agente» per affermare il rifiuto dei valori perbenistici e utilitaristici del mondo degli adulti accettati acriticamente dalla maggioranza dei coetanei, ma anche un percorso di impegno per dare forma e sostanza a una socialità diversa e innovativa, nella quale potesse esprimersi la naturale generosità di tutto il mondo giovanile.

Spiazzanti iniziative

Rifiuto di valori e modelli alieni, dicevo, ma comunque mai estraneità rispetto al presente, alla realtà circostante. Infatti, a differenza dei comportamenti «altri» caratteristici di generazioni successive chiuse al mondo di fuori, i ribelli degli anni ’60 non intesero mai la loro provocatoria alterità come isolamento, ma cercarono sempre di utilizzarla per nuove forme di interazione e di cambiamento di quel presente che non volevano più accettare. Non c’era ancora un altrove nel quale rifugiarsi per nascondere le proprie sconfitte (fosse pure, questo altrove, la lotta armata o l’eroina), e l’incazzatura che traspariva dalle scioccanti esteriorità che finalmente cominciavano a farsi strada in quel mondo di grigie uniformi (li ricordate gli uomini blu di Yellow Submarine?) era quella di chi voleva anche convincere, e non cercare solo un astioso conflitto. E basta ricordare le spiazzanti iniziative dei Provos olandesi, vero e proprio modello per tutta la galassia beat, per convincersene!
Buona parte delle tappe descritte da Giachetti coincidono con quelle della mia maturazione sociale e politica, ed è quindi comprensibile che, dopo quasi quarant’anni, la lettura di Anni Sessanta comincia la danza mi abbia provocato il risveglio di sopite emozioni. Infatti, in quella specie di percorso ad ostacoli che furono quegli anni, si misurarono le mie qualità e i miei difetti, così come si misurarono quelli di migliaia e migliaia di altri giovani che si ritrovarono fianco a fianco, con le loro contraddizioni e le loro madornali ingenuità, sconosciuti ed estranei ma sempre vicini e «destinati» a un solo, comune traguardo.
La danza comincia nel 1960, quando la rabbia dei giovani operai e proletari, ancora influenzati, ma senza esserne più inquadrati, dagli apparati della sinistra tradizionale, si manifestò nelle città del nord Italia contro i fascisti di Almirante e i democristiani di Tambroni. E già da quel momento le forze politiche che più avrebbero dovuto apprezzare la generosa spontaneità manifestatasi nelle piazze italiane cominciarono a dare, con la rara eccezione di alcuni spiriti liberi, quei segni di incomprensione del cambiamento che avrebbero sempre più caratterizzato i rapporti generazionali. L’iniziativa autonoma giovanile cominciava a fare paura, come dicono le numerose testimonianze raccolte dall’autore, e nessuno si sarebbe mostrato attrezzato per comprenderla. E inevitabilmente le difficoltà di comunicazione e l’incapacità di dare risposte convincenti a chi cominciava a rifiutare le aride prospettive della società dei «grandi» (casa, famiglia, lavoro nella più deprimente delle routine) diventarono il tratto caratteristico del dialogo (o meglio, della sua assenza) fra giovani e adulti.
La rivolta dei giovani operai torinesi di Piazza Statuto, le manifestazioni milanesi in cui fu ucciso il giovane comunista Ardizzone, la nascita del primo governo di centrosinistra nel 1964, sentito più come un cedimento all’egemonia democristiana che non come l’apertura di una stagione di riforme, l’intervento americano nel Vietnam, i conflitti razziali in Africa benedetti dalle grandi potenze, la fame nel Biafra, la guerra dei sei giorni fra Israele e paesi arabi contribuirono, fra gli altri, nella loro drammaticità, ad approfondire il solco fra una generazione da poco uscita dalla guerra mondiale, e già pronta a proporre nuove tragedie, e una bombardata quotidianamente da promesse che non potevano essere mantenute. E la risposta fu il sorgere di un fenomeno sociale e culturale che avrebbe segnato l’intero decennio. Anche il nostro paese, sull’esempio di quelli più «evoluti», cominciò a vedere nelle strade e nelle piazze strani giovani, vestiti in modo bizzarro e con chiome di insolita lunghezza, che marcavano con la loro estremistica diversità l’inconciliabilità di due mondi. Avanguardie di un sentire collettivo che si propagava a macchia d’olio, i beat posero al centro della questione giovanile le loro profonde insoddisfazioni esistenziali: il bisogno di una sessualità più libera, la fuga dalle gabbie del perbenismo, la scoperta ambientalista, l’oppressione di un servizio militare di 18 mesi, l’esigenza di rapporti non opportunistici, l’incomprensione degli adulti.... Un bagaglio «ideologico» che si espresse, con straordinaria efficacia, nei testi e nelle note di una musica completamente nuova che faceva da cassa di risonanza di nuove tensioni e aspettative.
Fu quella una vera e propria colonna sonora collettiva, che trovava le proprie forme espressive in autori ed interpreti che si muovevano in totale sintonia con il loro pubblico e si lasciava alle spalle il tradizionale genere melodico italiano, ormai incapace di farsi ascoltare da orecchie che non ne volevano più di cuore in rima con amore. Grazie alle contaminazioni coi generi musicali anglosassoni, che contribuirono a sprovincializzare definitivamente i contenuti tradizionali, la musica italiana acquistò una funzione dapprima impensabile, diventando un momento di unificazione interclassista, in grado, in un certo senso, di ribaltare i momenti dell’aggregazione giovanile (sezione e parrocchia) quali si erano espressi fino ad allora. Attraverso una lettura «pignola» dei testi musicali, Giachetti ci permette di comprendere questi passaggi, mostrando come i principali topoi caratteristici di quel nuovo ribellismo, la rabbia, la speranza, l’impegno sociale, il desiderio di libertà..., trovassero tutti i propri referenti in questo o quel testo. E ci fa anche capire come mai, a distanza di quasi quarant’anni, molte di quelle canzoni (quelle italiane, principalmente, perché i testi dei Beatles o di Bob Dylan, o di Joan Baez quasi nessuno era in grado di tradurli) siano ancora presenti nella nostra memoria.

Il proliferare dei complessi

Eravamo in molti a identificarci nelle parole dei Corvi e cantavamo: io sono un poco di buono/non faccio la vita che fai/sono un ragazzo di strada/lasciami in pace perché..., pur non essendo dei poco di buono, né dei ragazzi di strada e neppure, almeno non del tutto, almeno non ancora, degli emarginati. Ma quelle parole rendevano ragione, più di un trattato di sociologia, di una insoddisfazione e di una rabbia che trovavano solo nell’esclusione dall’esistente la possibilità di costruire qualcosa di diverso. Il ragazzo della via Gluck di Celentano, Proposta dei Giganti, Auschwitz e Dio è morto di Guccini e I Nomadi, Nessuno mi può giudicare della Caselli, E la pioggia che va dei Rokes, 29 Settembre dell’Equipe 84, e molte altre canzoni nei loro testi «di protesta» rappresentavano e davano voce a un mondo giovanile refrattario e irriducibile rispetto a una realtà cupamente immobile. Refrattario e irriducibile, ma anche profondamente convinto che dopo la pioggia «poi torna il sereno» e che le possibilità di cambiamento, sulle ali di una spinta che pareva inarrestabile, fossero davvero a portata di mano. Lo stesso proliferare dei «complessi», che si sostituivano al classico cantante con orchestra, non era solo un nuovo modo di fare musica ma soprattutto l’intenzione di socializzare il proprio bisogno di esprimersi. Era una prima forma di aggregazione che prefigurava in sedicesimo il gruppo politico, altrettanto fortemente coeso ed armonico. E a fianco delle canzoni, poiché il movimento non si esauriva con esse, nascevano, soprattutto nelle grandi città, i primi fogli autoprodotti, dedicati esclusivamente alle tematiche giovanili. Fu anche quello un fenomeno del tutto originale, che lasciava presagire l’esplosione della stampa e dell’informazione «alternativa» degli anni a seguire.
Con queste premesse, sovversive anche se prepolitiche, diventa evidente la necessità del passaggio dalla contestazione musicale e generazionale a quella più espressamente politica, e parallelamente dell’incontro fra canzone rossa e canzone beat. Mano a mano che la coscienza sociale trova nuove urgenze, beat e capelloni cominciano a prendere a prestito contenuti e strumenti dei movimenti di lotta che li avevano preceduti. Le tematiche libertarie proprie dell’anarchismo (forse un po’ sottovalutate da Giachetti, e questo è l’unico appunto che mi sento di fargli) e quelle della tradizione marxista cominciarono a «contaminare» e ad arricchire l’afflato giovanilistico, determinandone una sostanziale evoluzione. Gli ultimi anni del decennio, a cavallo fra il 1967 e il 1968, vedono quindi il trapasso, né traumatico né doloroso, dalla fase «primitiva» a quella «matura» della protesta, con la progressiva emarginazione di gran parte dei contenuti fin lì espressi. Fu un passaggio logico, non contraddittorio e nemmeno autoritario, ma l’esito naturale di un processo storico che stava aprendo altre prospettive. I capelloni, in quanto emergenza sociale, si facevano da parte, ed entravano in gioco i compagni. Ma senza sostanziali soluzioni di continuità: questi avevano cominciato la danza, adesso erano gli altri a mandarla avanti.

Massimo Ortalli