Rivista Anarchica Online


anarchici

Ritratti in piedi
Dialoghi fra storia e letteratura

a cura di Massimo Ortalli

Conflitti in miniera

Siamo nella seconda metà dell'Ottocento. In un'Europa profondamente trasformata dalla rivoluzione industriale, si aggira, come è noto, uno spettro. Il quale, tanto temuto dagli uni quanto auspicato dagli altri, assume le sembianze di una nuova organizzazione, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. Ramificata in molti paesi del vecchio continente e negli Stati Uniti, l'Internazionale, la proletaria Prima Internazionale, raccoglie sotto le sue bandiere i ceti e le classi sociali che, fino a quel momento, non hanno mai goduto di una rappresentanza specifica. È la prima volta che accade. Non è più un'organizzazione politica che raggruppa una borghesia illuminata e progressista, non è più la fratellanza di tipo massonico che auspica il libero pensiero o combatte il dogma, non è più la paciosa società di mutuo soccorso; niente di tutto questo, è un'organizzazione sociale composta da proletari che lottano contro il padronato, per migliorare le proprie tremende condizioni di vita. E per cambiare il mondo. E sono queste sue caratteristiche, così nuove e "rivoluzionarie", che la rendono temuta, osteggiata e calunniata da un capitalismo profondamente offeso dalla sua audacia. E ancora impreparato al duro scontro sociale che si prospetta.
Naturalmente anche la letteratura diventa uno strumento utile per affrontare la questione, e come sempre, per suo tramite, si cerca di proporre un originale contributo interpretativo. Fra le opere coeve che parlano di Internazionale e di internazionalisti, ho scelto uno sconosciuto "romanzone" popolare, tanto significativo, quanto, ormai, dimenticato: I Minatori ovvero Internazionale e Comune, romanzo sociale di Emilio Tanfani, pubblicato ad Asiago nel 1879 dall'editore Rigoni Graber.
Riporto per grandi linee la trama, avvincente nello svolgimento e illuminante nei contenuti. In una miniera francese gli internazionalisti non cessano di sobillare ed eccitare i lavoratori. Nonostante la paternalistica offerta di aumento di salario, riduzione d'orario e compartecipazione agli utili avanzata dal padrone, la situazione precipita, la folla si ribella e distrugge col fuoco miniera e opifici. Enrico, bravo operaio pur se internazionalista, dopo aver inutilmente cercato una mediazione riformistica ed essere sfuggito per un pelo alla vendetta degli antichi compagni, salva i proprietari, mentre un loro intransigente impiegato si redime morendo eroicamente nel disperato sforzo di avvertire i gendarmi. A Parigi, durante la Comune, si ritrovano tutti. In un susseguirsi di drammatiche avventure, trionfano i buoni sentimenti e la giustizia. Mentre la Comune viene sconfitta nel sangue dalle truppe versagliesi (ma questa è un'altra storia), il minatore mauvais, dopo mille tradimenti trova la fine che merita, il padrone benedice le nozze fra l'eroico operaio e la figlia, il capo degli Internazionali, l'alter ego cattivo dell'internazionalista buono, si uccide per non soccombere ai suoi nemici, esprimendo, al tempo stesso, irriducibile malvagità e dignitoso coraggio. E i minatori, buoni buoni, tornano alla miniera rimessa in funzione, godendo di migliori condizioni di vita. Schiavi come sempre ma un po' meno poveri.
Nel libro, di gradevole lettura, non compaiono, ovviamente, solo queste tematiche sociali, ma anche tutti gli elementi canonici del feuilleton ottocentesco: le passioni forti, la traviata e la figlia della colpa, la squallida megera, gli assassinii, il fuoco divoratore, il vecchio genitore povero ma onesto, l'amore fra l'operaio e la padroncina, il buon dottore, la folla invasata, la bimba rapita in fasce... Tutto serve a rendere attraente il racconto, e a indurre a parteggiare, mai come stavolta, per i buoni padroni e gli onesti operai, uniti nella lotta contro i cattivi internazionalisti. L'aspetto più interessante di questo romanzo, tuttavia, è che non si tratta affatto del prevedibile testo reazionario scritto dal pennivendolo di turno, ma della "lungimirante" opera di un riformatore sociale avveduto e intelligente, il quale, nonostante cadute obbligate quale la descrizione dell'Internazionale come una setta tenebrosa e assetata di sangue, prospetta una soluzione riformistica e compromissoria del conflitto sociale, in grado di garantire il permanere dei privilegi a fronte di un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, e di tarpare le ali alle insopprimibili rivendicazioni proletarie.
Questo conflitto fra capitale e lavoro, fra proposte riformistiche e istanze rivoluzionarie, si coglie, soprattutto, nella caratterizzazione dei due antagonisti. Da una parte il buon operaio Enrico Vergani, antesignano del gradualismo e della via parlamentare, solidale coi compagni di lavoro e con l'Internazionale ma non tanto da accettarne i metodi "sanguinari", dall'altra il cattivo, malvagio e cinico Guglielmo Darwing, alias Rodolfo Musson alias Arturo Chariots, l'irriducibile emissario dell'oscura setta, intransigente nel suo cieco furore antipadronale e rivoluzionario. Ossia, il nostro "ritratto in piedi" di questo mese. Perché, e non credo di sbagliarmi, sotto le sue sembianze, si possono intravvedere quelle, ben più famose e nobili, di Michele Bakunin. Il suo attivismo, la sua capacità di convincere, il suo disprezzo per ogni interesse personale, la sua coerente intransigenza, il suo anteporre il trionfo della rivoluzione alle regole morali, sembrano infatti descrivere, con la vividezza del contemporaneo (la prima stesura del romanzo è del 1873) se non i tratti biografici, sicuramente quelli caratteriali e politici del grande russo.
Bakunin è troppo famoso, perché mi soffermi a tracciarne una biografia, per cui qui mi limito a riportare una sua bella istantanea tratta da G.D.H. Cole, (Il Pensiero socialista. Marxismo e anarchismo, vol. II, Bari, Laterza, 1967), nella quale l'autore riesce a ritrarne, con vivaci colori, l'estroverso comportamento. Scegliendo poi fra una pubblicistica imponente, affianco, a queste, le pagine di Renato Zangheri, (Storia del Socialismo italiano. Dalla Rivoluzione francese a Andrea Costa, Torino, Einaudi, 1993), nelle quali il grande storico marxista presenta l'altro vero protagonista de i Minatori, vale a dire lo Sciopero. Seguono quelle di Pier Carlo Masini, (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano, Rizzoli, 1969), nelle quali il caposcuola degli studi sull'anarchismo illustra le aspirazioni alla rivoluzione sociale dei primi internazionalisti italiani. Del libro di Tanfani, del quale non posso raccomandare la lettura perché essendo introvabile, dovrei imprestarlo (e non lo farei volentieri) avrei voluto riportare interi capitoli. Nella evidente impossibilità, ho scelto alcuni brani particolarmente "importanti" nell'economia del racconto, sperando di poter così trasmettere, a chi mi legge, almeno una parte del piacere che mi ha dato la sua lettura.

Massimo Ortalli

Il buono e il cattivo
di Emilio Tanfani

(...). A queste parole Guglielmo divenne pensieroso e corrugò la fronte. Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, che gli avevano forse servito a riconcentrare 1e proprie idee, con accento sommesso ma concitato, disse:
"La lega dei mestieri e l'Associazione Internazionale degli operai sono due benefiche istituzioni che nei tempi moderni propugnano in favore degli operai la rivendicazione dei diritti del salariato.
Per mezzo di esse abbiamo già potuto stabilire la solidarietà rivoluzionaria fra quattro milioni circa di individui. Ebbene, voi che siete gl'instancabili agenti della moderna rigenerazione, a coloro che non capiscono o non vogliono capire che soltanto un' altra terribile rivoluzione sociale può porre un argine alla prepotenza dei capitalisti alle miserie degli operai, direte che il tempo delle dissertazioni è finito e che quello dell'azione sta per cominciare.
Direte che ogni loro più caro sogno, ogni più gradita loro speranza addiverrà un fatto compiuto, se sapranno mostrarsi uomini all'ora della terribile rivendicazione dei loro sacrosanti diritti.
Direte che fra breve avverrà tra la Francia e la Germania una delle più sanguinose e più accanite guerre. E allora sarà giunto il momento propizio a noi, qualunque sia la parte vincitrice!
Noi non apparteniamo ad alcun partito, a nessun paese, noi siamo l'Internazionale, abbiamo quattro milioni di soldati... e guai al vinto!
Ecco, amici miei, l'avvenire; ecco la meta, ecco la ricompensa promessa ai nostri sforzi!"
(...). Finalmente Enrico, dopo aver vissuto in Inghilterra ed in America, d'onde ebbero origine le nuove idee socialiste che attualmente minacciano la pace del mondo, e d' onde si diramò in Europa l'Associazione Internazionale degli operai, ebbe modo, di acquistare esperienza, di convincersi che non è tutto oro quel che riluce e che le rivoluzioni sociali non si possono effettuare coi mezzi illeciti e violenti, ma colla progressiva educazione delle masse alle nuove teorie dell'economia sociale; moderò I'impeto giovanile delle proprie convinzioni e s'indusse a pregare lo zio di porre una pietra sulle passate discordie, assicurandolo, che non avrebbe mai preso parte all'opera dissolutrice già iniziata; specialmente in Francia, dai segreti agenti dell'Internazionale.
(...). Né si tacque all'arrivo di Enrico, sicchè questi potè udire le ultime parole del suo discorso e convincersi che non s'era ingannato nel credere che il Darwing da lui conosciuto a New York come uno dei più fanatici capi dell'Internazionale, e il Soprintendente della miniera del signor Dubois, fossero una stessa ed unica persona.
"Pare impossibile che dopo tre rivoluzioni politiche – diceva Guglielmo – tanto radicali come quelle del 1789, del 1831 e del 1848, la classe operaia si trovi ancora miserabile e oppressa come prima! È dunque necessario combattere con armi nuove e nuove idee!
V'ingannano coloro che vi parlano di repubblica: essi sono affezionati alle viete formule del passato, e invece noi dobbiamo proclamare quelle dell'avvenire! Sono tre i flagelli dell'attuale società: il prete, il soldato, il possidente; e per sottrarci alla dannosa influenza di queste tre caste, fa d'uopo combattere senza pietà finchè non sieno per sempre annientate.
Siate pronti ad ogni mio cenno; cercate costantemente di porre a profitto dell'Internazionale l'influenza che avete sui vostri compagni di sventura, per accrescere così le file dei combattenti... e la vittoria sarà nostra".
Un fragoroso applauso accolse queste ultime parole di Guglielmo, sul di cui volto passò un lampo di indefinibile soddisfazione. E siccome i capisquadra si disponevano a separarsi per tornare chi a casa e chi al lavoro, ei li fermò col gesto e additando loro Enrico, che muto e pensieroso aspettava di conoscere per qual ragione avesse dovuto recarsi in quel luogo, disse: "Amici, vi presento il cittadino Enrico Vergani da molti di voi già conosciuto e stimato. Egli proviene da New York ove ha ricevuto il primo battesimo dell'Associazione Internazionale. Nella sua qualità di Sottodirettore dell'Opificio meccanico, egli avrà modo di far nuovi proseliti fra gli operai che non si trovano alla mia dipendenza e che finora rimasero sordi alle vostre istigazioni. Rispettatelo come superiore, amatelo come compagno di cospirazione! Al pari di noi egli vuole il trionfo della nostra causa, al pari di noi farà di tutto per conseguirlo".
(...). "Ignoro se poc'anzi avete promesso ai rivoltosi di prendere in considerazione i loro reclami, colla ferma idea di concedere davvero almeno una parte di ciò che vi è stato chiesto. Comunque sia, mentre ammiro l'avvedutezza da voi dimostrata in sì difficile situazione, avvedutezza che vi ha risparmiato certamente qualche scena di sangue, mi trovo in obbligo di avvisarvi che la vostra salvezza presente e avvenire dipende appunto dall'evitar qualunque altra causa di lamento.
Per giungere a questo, occorre dunque che agli occhi dei vostri operai possiate sembrare un principale modello, informato ai princìpi della moderna questione sociale, e per conseguenza penetrato dalla giustezza dei reclami che vi sono stati fatti".
"Tu dunque intenderesti che io concedessi tutto ciò che mi è stato chiesto?" domandò il signor Dubois, alquanto agitato dall' idea di dover sottostare ad un atto di brutale prepotenza per parte di coloro che gli dovevano l'esistenza.
"Questa, a mio parere, sarebbe l'unica via per iscongiurare qualunque altro doloroso avvenimento, per assicurarvi al presente e in futuro la più perfetta tranquillità, per garantire alla signorina Anaide il possesso avvenire della vostra proprietà. Al punto cui siamo oggigiorno con la questione sociale, e stante l'eccitamento in cui si trovano le masse operaie, è necessario, indispensabile ovviare qualunque causa di malcontento, non solo, ma evitare anche ogni sospetto di preconcetta malafede.
Così diverrete l'idolo dei vostri operai, così sarete da loro mille volte benedetto, così disarmerete i malintenzionati, così annienterete l'azione dell'Internazionale! Invece, eludendo le speranze che dianzi avete avvalorate colle vostre stesse parole, o ricorrendo all'intervento della truppa per punire i colpevoli e ristabilire l'ordine colla forza e col terrore, sareste esecrato, e non garantirei a lungo né la vostra vita, né le vostre sostanze".
(...). Ma Guglielmo intendeva le cose in ben altro modo; ei non istigava le masse alla lotta per amore ad un principio di giustizia, di diritto e di umanità; ma bensì per un diabolico trasporto a tutto ciò che genera discordia e distruzione. Ei non aveva per fine, nella sua incessante azione sovversiva, gl'interessi della classe operaia, ma voleva valersene come mezzo per giungere ad appagare una smodata cupidigia di ricchezza e una irresistibile bramosia di potere.
Perciò, con quel fare misterioso e quell'accento profetico che tanto gli giovava sempre ad acquistarsi gli animi dei suoi uditori, disse: "che un fatto parziale a profitto di poche diecine d'operai non poteva ritenersi come un trionfo per tutta l'Associazione Internazionale; che il sig. Dubois aveva probabilmente ceduto più per timore di qualche serio disordine, che per desiderio di avvantaggiare le sorti dei suoi dipendenti; che prima o poi avrebbe certamente cercato di rendere illusorie le fatte concessioni; che, per conseguenza, nell'interesse della solidarietà indispensabile fra tutti i membri della gran famiglia operaia, era d'uopo stare all'erta e diffidare, per non avere poi da rimpiangere di aver troppo presto deposto le armi e troppo presto rinunciato alla sanguinosa lotta che in ogni parte del mondo si stava preparando fra la mano d'opera e il capitale."
A queste parole gli occhi di Tigrotto lanciarono uno sguardo feroce e selvaggio.
Anch'esso anelava sangue, stragi, carneficine, e gioiva nel sentir confermato dal Darwing il proprio convincimento, cioè: che le concessioni del Dubois non dovessero avere per conseguenza una pace duratura, ma una semplice tregua. L'improvvisa sparizione di Michele Perrier l'aveva già spinto a ritenere per fermo che il sig. Dubois intendesse giocare una commedia che prima o poi doveva tramutarsi in ispaventevole dramma.

Tratto da: Emilio Tanfani, I Minatori ovvero Internazionale e Comune, Asiago, 1879.

 

 

Forza vulcanica
di G.D.H. Cole

Fisicamente, Bakunin era un gigante, dotato d'una forza erculea. Gli anni trascorsi in carcere dopo il '49 gli costarono la perdita di tutti i denti e contribuirono molto a minare la sua fibra; ma rimase sempre capace di un'attività immensa, anche se spasmodica. Dovunque andasse era una forza vulcanica ed esercitava spesso un fascino veramente notevole su coloro ai quali si associava: dirgli di no era quasi impossibile, anche quando non era agevole accogliere le sue richieste. Per altri aspetti, invece, non era uomo con cui fosse semplice intendersi. Sempre a corto di denaro – anzi, non possedendo mai un soldo che non venisse dai suoi amici era uno scroccone impenitente e insaziabile, non tanto perché facesse per sé spese pazzesche, quanto perché non aveva il senso dell'economia, era molto generoso col denaro che si faceva prestare e si trovava di solito in difficoltà familiari che mettevano a dura prova la sua borsa. Appena qualcuno gli dava un po' di soldi, subito li spendeva o li dava via e si metteva alla ricerca di altri amici dai quali farsi fare altri prestiti, di rado o mai sdebitandosi, ma senza mai cessare di trovare nuovi fornitori. Visse molto in casa d'altri, per lo più con gran disagio di chi l'ospitava, giacché non sapeva che cosa fossero né gli orari né l'ordine: riduceva ogni appartamento da lui abitato ad un caos, e tendeva a stare a letto tutto il giorno e in piedi tutta la notte, scrivendo indefessamente e consumando enormi quantità di caffè e tabacco. La sua corrispondenza era di una mole prodigiosa, e continuamente metteva mano a opere che, iniziate come opuscoli, acquistavano via via le dimensioni di grossi libri ed erano poi di solito abbandonate per qualcos'altro, molto prima che fossero finite. Quasi tutte le opere di Bakunin sono incompiute; e in verità non c'era ragione che venissero finite, dato che più egli scriveva più affrontava nuovi argomenti, sicché alla fine si stancava e cominciava a scrivere qualche altra cosa, per lo più con le stesse idee essenziali, ma sistemate in modo alquanto diverso. Lo stesso accadeva con le serie di articoli che egli accettava di scrivere per vari giornali: di solito restavano interrotti a metà, o perché si stancava o perché la sua attenzione veniva attratta da altre cose. È indubbio che Bakunin fu fedele ai suoi princìpi anarchici anche nel suo modo di vivere: quel paio di tentativi che fece negli ultimi anni per adattarsi a una vita più regolare fallirono in partenza. Il grande principio del vivere è la libertà, egli proclamò sempre; e certamente nessuno mai visse più libero con così poco denaro proprio.
Tuttavia quest'uomo tanto importuno era evidentemente una persona amabile, e ispirava un affetto profondo, se i suoi amici sopportavano per lui una mostruosa quantità di fastidi. Aveva quel tipo di temperamento aristocratico che rende chi lo possiede totalmente inconscio delle barriere di classe e pronto ad accontentarsi di una cipolla come a gradire il lusso, quando il lusso gli càpiti dinanzi. Era geniale in grado eminente, quasi incapace di offendersi e irresponsabile all'estremo. Era inoltre un amico lealissimo, pronto a fare qualunque cosa per i suoi compagni tranne che restituire il denaro che gli avevan prestato, e molto generoso nell'apprezzare i suoi avversari se riteneva che fossero fondamentalmente "dalla parte " della rivoluzione, la quale era la sua passione.

Tratto da: G.D.H. Cole, Il pensiero socialista. Marxismo e anarchismo, vol.2, Bari, 1967.

 

 

Un “delitto morale”
di Renato Zangheri

L'anno 1872 segnò nel paese una presa di coscienza degli scioperi. Uscìi in quell'anno il IV volume del Dizionario della lingua italiana del Tommaseo in cui la parola "sciopero" veniva definita nel suo significato attuale, sconosciuto ai vocabolari tradizionali: "Voce pur troppo viva, di lavoranti che smettono le opere consuete, per forzare chi paga la mercede a aumentarla" (1). Due fascicoli furono pubblicati sugli scioperi negli Annali del ministero di agricoltura, industria e commercio per il 1872, il secondo dei quali conteneva notizie sui conflitti del lavoro a Torino e a Milano, Parma, Venezia, Verona, Cremona. Poco perspicui erano i commenti dei prefetti ivi contenuti: gli scioperi erano stati determinati da cause politiche, dal desiderio di imitare quello che si era fatto altrove o da altre cause "innaturali". L'Internazionale veniva indicata come principale promotrice. L'anno prima Cesare Cantù nel suo Portafoglio dell'operaio, romanzo edificante commissionato dall'industriale Alessandro Rossi, aveva indicato lo sciopero come "un delitto morale", responsabile di "una perdita sociale ". Era ormai in corso non solo una percezione ma una reazione delle classi dominanti. Agli arresti degli "eccitatori" si accompagnava se cosi possiamo chiamarla una offensiva di persuasione (2).
Venne pubblicato dai fratelli Treves nella collana "La scienza del popolo" un volumetto di Leone Paladini, Gli scioperi e la questione sociale in Italia. Parole ai poveri ed ai ricchi (3), in cui erano profusi tutti i possibili argomenti per distogliere gli operai dalle "inutili agitazioni" e dai "sordi rancori ", dalle "azioni sconsigliate e colpevoli ". Gli scioperi non servivano a fronteggiare il caro degli affitti, perché se avessero provocato un aumento delle paghe, altri lavoratori sarebbero affluiti nelle città e gli alloggi sarebbero diventati più costosi. Cosi ogni accrescimento dei salari porrebbe in difficoltà i fabbricanti di fronte alla concorrenza straniera, farebbe lievitare i prezzi, si tradurrebbe in disoccupazione, renderebbe la vita più difficile. In realtà, i lavoratori non riconoscerebbero necessari gli scioperi, se dei sobillatori non li eccitassero. È vero che essi patiscono " dure sofferenze"; ma ciò che conturba le loro menti non è tanto il caro vita quanto "altre aspirazioni, altre tendenze, altre suggestioni ", nella " seducente ma pur menzognera speranza di un' immaginaria trasformazione sociale".
(...).
Il Paladini sapeva qualcosa dei recenti contrasti in seno all'Internazionale. I suoi membri, affermava, sono poco stimabili: "dai medesimi rendiconti dei loro congressi risulta che sono essi i primi a disprezzarsi, a coprirsi d'insulti, a nutrire la massima diffidenza verso coloro che si danno per loro capi, ed accusarli brutalmente di seduzione, di ambizione e di intrigo", com'è avvenuto all'Aia. Essi non hanno programmi, il loro vero piano "è la dissoluzione sociale ed il caos, lusingandosi che possa poi da sé costituirsi una società meglio organizzata". Non é comunque da parte di questi comunisti che si debba temere il peggio, e non c'è motivo di grave allarme né necessità di "applicare quelle misure violente di repressione, che alcuni troppo pessimisti e paurosi vanno invocando con troppa sollecitudine". È vero che il malumore che cova fra le classi povere "è purtroppo appoggiato anche sul fatto che i proletari hanno imparato a ragionare sui propri diritti, sulle loro condizioni, sull'eguaglianza umana, e sono irresistibilmente allettati dalla speranza di poter modificare il loro stato di povertà, di privazioni e di sacrifici". Ma solo i pochi seguono "le perniciose teorie dell'Internazionale". La stessa Comune fu il risultato di circostanze eccezionali, un concorso di nobili sentimenti e di subdole imprese, che non si potranno mai riprodurre né a Parigi né in altre città. Il vero rimedio sarà l'istruzione impartita dai dotti agli ignoranti, una morale "più filosofica ed evangelica", un impegno educativo delle "classi agiate ed elevate".

1. G.C. Jocteau, L'armonia perturbata. Classi dirigenti e percezioni degli scioperi nell'Italia liberale, Roma - Bari 1988, p.3.
2. Ibid., pp.10-16, 19-20. E sul "Portafoglio" di Cantù si veda il commento di C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d'Italia Einaudi, I. I caratteri originali, pp. 660-70.
3. L'edizione da me consultata è la terza, del 1874.

Tratto da: Renato Zangheri , Storia del socialismo italiano. Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa, Torino, 1993.

 

La Rivoluzione Sociale
di Pier Carlo Masini

"VIVA LA RIVOLUZIONE SOCIALE ", con questo grido erano finiti i lavori della Conferenza di Rimini. E il Cafiero, presidente di quella conferenza, aveva poco dopo concluso il suo articolo sul congresso dell'Aia con parole altrettanto impegnative e solenni: "A provare le nostre forze attendiamo la Rivoluzione: che essa giudichi autoritari ed anarchici" (1).
Ma che cosa intendevano gli internazionalisti italiani per rivoluzione sociale? Essi anzitutto, mettendo piuttosto l'accento sull'aggettivo che sul sostantivo, intendevano il contrario della rivoluzione politica, di cui il Risorgimento con il suo epilogo unitario-monarchico, rappresentava l'esempio negativo e deludente. In secondo luogo, per la stessa impostazione anarchica del problema, non potevano concepire la rivoluzione nei termini delle esperienze quarantottesche: come conquista del potere politico a mezzo di colpi di mano sui centri di questo potere. Infatti gli internazionalisti non volevano in alcun modo – né violento, né pacifico, né legale, né illegale – la conquista del potere politico, ma si proponevano piuttosto di distruggerlo. Le due questioni erano legate perché la conquista del potere politico ricadeva ancora negli schemi della rivoluzione politica che appunto gli internazionalisti rifiutavano in nome della rivoluzione sociale.
D'altra parte la rivoluzione politica richiedeva anche per il suo successo una organizzazione fortemente centralizzata, un efficiente apparato militare, una rigida disciplina ideologica e tattica che gli internazionalisti, per ragioni di principio, rifiutavano.
Detto ciò che gli internazionalisti non volevano, resta più facile capire che cosa in effetti volessero.
Di positivo volevano, come dicono i loro programmi, "l'emancipazione del proletario" e "l'organamento del lavoro": due obiettivi che a loro giudizio stavano completamente fuori della politica corrente, in una nuova dimensione storica. Per "emancipazione del proletario" essi intendevano la liberazione dei lavoratori dalla condizione del salariato e dalla soggezione al capitale; per "organamento del lavoro" una organizzazione economica collettivistica a base federativa fra i comuni e le associazioni produttive: questa era la parte socialista del loro programma.
Quanto alla rivoluzione sociale – o come si diceva talvolta più fantasiosamente liquidazione sociale (2) – essa si presentava agli occhi degli internazionalisti come una prospettiva catastrofica e palingenetica, una specie di sisma politico più o meno imminente. Si trattava di un mito di potente effetto nell'agitazione e nella propaganda, mancante peraltro di quella concretezza e praticabilità che invece si ritrovava nei piani rivoluzionari di tipo tradizionale, giacobino o blanquista, mazziniano o garibaldino.
Un nuovo millenarismo animava questa idea di rivoluzione sociale non più concentrata in un punto dato e prevista per un momento convenuto, ma concepita come un moto diffuso e ininterrotto, una guerra senza quartiere, senza rigidi fronti di combattimento, senza possibilità di armistizi e di soluzioni provvisorie: cospirazioni, dimostrazioni barricate guerriglia per bande, sortite, moti di piazza, proteste, agitazioni, scioperi, attentati, rivolte in campagne e in città, atti individuali e movimentI collettivi, fino alla totale distruzione del nemico: tutto questo era la rivoluzione sociale.


1. L'articolo, intitolato Il Congresso dell'Aia e apparso suI giornale "La Rivoluzione Sociale" del settembre 1872, non è firmato ma lo si può attribuire con certezza a Cafiero, unico italiano presente all'Aia che riferisce, da testimone, alcuni particolari sui lavori del congresso.

2. Per una critica della parola d'ordine "anarchia e liquidazione sociale" spesso usata dagli internazionalisti italiani e spagnoli, si vedano le interessanti e significative osservazioni di James Guillaume in una lettera a Victor Cyrille del 22 settembre 1873 pubblicata da Marc Vuilleumier, La correspondance d'un internationaliste: Victor Cyrille (1871-1874), in "Movimento operaio e socialista" del luglio-dicembre 1966.

Tratto da: Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Milano. 1969.