| Conflitti in miniera  Siamo nella seconda metà dell'Ottocento. In un'Europa 
                  profondamente trasformata dalla rivoluzione industriale, si 
                  aggira, come è noto, uno spettro. Il quale, tanto temuto dagli 
                  uni quanto auspicato dagli altri, assume le sembianze di una 
                  nuova organizzazione, l'Associazione Internazionale dei Lavoratori. 
                  Ramificata in molti paesi del vecchio continente e negli Stati 
                  Uniti, l'Internazionale, la proletaria Prima Internazionale, 
                  raccoglie sotto le sue bandiere i ceti e le classi sociali che, 
                  fino a quel momento, non hanno mai goduto di una rappresentanza 
                  specifica. È la prima volta che accade. Non è più un'organizzazione 
                  politica che raggruppa una borghesia illuminata e progressista, 
                  non è più la fratellanza di tipo massonico che auspica il libero 
                  pensiero o combatte il dogma, non è più la paciosa società di 
                  mutuo soccorso; niente di tutto questo, è un'organizzazione 
                  sociale composta da proletari che lottano contro il padronato, 
                  per migliorare le proprie tremende condizioni di vita. E per 
                  cambiare il mondo. E sono queste sue caratteristiche, così nuove 
                  e "rivoluzionarie", che la rendono temuta, osteggiata e calunniata 
                  da un capitalismo profondamente offeso dalla sua audacia. E 
                  ancora impreparato al duro scontro sociale che si prospetta. 
                  Naturalmente anche la letteratura diventa uno strumento utile 
                  per affrontare la questione, e come sempre, per suo tramite, 
                  si cerca di proporre un originale contributo interpretativo. 
                  Fra le opere coeve che parlano di Internazionale e di internazionalisti, 
                  ho scelto uno sconosciuto "romanzone" popolare, tanto significativo, 
                  quanto, ormai, dimenticato: I Minatori ovvero Internazionale 
                  e Comune, romanzo sociale di Emilio Tanfani, pubblicato 
                  ad Asiago nel 1879 dall'editore Rigoni Graber.
 Riporto per grandi linee la trama, avvincente nello svolgimento 
                  e illuminante nei contenuti. In una miniera francese gli internazionalisti 
                  non cessano di sobillare ed eccitare i lavoratori. Nonostante 
                  la paternalistica offerta di aumento di salario, riduzione d'orario 
                  e compartecipazione agli utili avanzata dal padrone, la situazione 
                  precipita, la folla si ribella e distrugge col fuoco miniera 
                  e opifici. Enrico, bravo operaio pur se internazionalista, dopo 
                  aver inutilmente cercato una mediazione riformistica ed essere 
                  sfuggito per un pelo alla vendetta degli antichi compagni, salva 
                  i proprietari, mentre un loro intransigente impiegato si redime 
                  morendo eroicamente nel disperato sforzo di avvertire i gendarmi. 
                  A Parigi, durante la Comune, si ritrovano tutti. In un susseguirsi 
                  di drammatiche avventure, trionfano i buoni sentimenti e la 
                  giustizia. Mentre la Comune viene sconfitta nel sangue dalle 
                  truppe versagliesi (ma questa è un'altra storia), il minatore 
                  mauvais, dopo mille tradimenti trova la fine che merita, 
                  il padrone benedice le nozze fra l'eroico operaio e la figlia, 
                  il capo degli Internazionali, l'alter ego cattivo dell'internazionalista 
                  buono, si uccide per non soccombere ai suoi nemici, esprimendo, 
                  al tempo stesso, irriducibile malvagità e dignitoso coraggio. 
                  E i minatori, buoni buoni, tornano alla miniera rimessa in funzione, 
                  godendo di migliori condizioni di vita. Schiavi come sempre 
                  ma un po' meno poveri.
 Nel libro, di gradevole lettura, non compaiono, ovviamente, 
                  solo queste tematiche sociali, ma anche tutti gli elementi canonici 
                  del feuilleton ottocentesco: le passioni forti, la traviata 
                  e la figlia della colpa, la squallida megera, gli assassinii, 
                  il fuoco divoratore, il vecchio genitore povero ma onesto, l'amore 
                  fra l'operaio e la padroncina, il buon dottore, la folla invasata, 
                  la bimba rapita in fasce... Tutto serve a rendere attraente 
                  il racconto, e a indurre a parteggiare, mai come stavolta, per 
                  i buoni padroni e gli onesti operai, uniti nella lotta contro 
                  i cattivi internazionalisti. L'aspetto più interessante di questo 
                  romanzo, tuttavia, è che non si tratta affatto del prevedibile 
                  testo reazionario scritto dal pennivendolo di turno, ma della 
                  "lungimirante" opera di un riformatore sociale avveduto e intelligente, 
                  il quale, nonostante cadute obbligate quale la descrizione dell'Internazionale 
                  come una setta tenebrosa e assetata di sangue, prospetta una 
                  soluzione riformistica e compromissoria del conflitto sociale, 
                  in grado di garantire il permanere dei privilegi a fronte di 
                  un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, e 
                  di tarpare le ali alle insopprimibili rivendicazioni proletarie.
 Questo conflitto fra capitale e lavoro, fra proposte riformistiche 
                  e istanze rivoluzionarie, si coglie, soprattutto, nella caratterizzazione 
                  dei due antagonisti. Da una parte il buon operaio Enrico Vergani, 
                  antesignano del gradualismo e della via parlamentare, solidale 
                  coi compagni di lavoro e con l'Internazionale ma non tanto da 
                  accettarne i metodi "sanguinari", dall'altra il cattivo, malvagio 
                  e cinico Guglielmo Darwing, alias Rodolfo Musson alias 
                  Arturo Chariots, l'irriducibile emissario dell'oscura setta, 
                  intransigente nel suo cieco furore antipadronale e rivoluzionario. 
                  Ossia, il nostro "ritratto in piedi" di questo mese. Perché, 
                  e non credo di sbagliarmi, sotto le sue sembianze, si possono 
                  intravvedere quelle, ben più famose e nobili, di Michele Bakunin. 
                  Il suo attivismo, la sua capacità di convincere, il suo disprezzo 
                  per ogni interesse personale, la sua coerente intransigenza, 
                  il suo anteporre il trionfo della rivoluzione alle regole morali, 
                  sembrano infatti descrivere, con la vividezza del contemporaneo 
                  (la prima stesura del romanzo è del 1873) se non i tratti biografici, 
                  sicuramente quelli caratteriali e politici del grande russo.
 Bakunin è troppo famoso, perché mi soffermi a tracciarne una 
                  biografia, per cui qui mi limito a riportare una sua bella istantanea 
                  tratta da G.D.H. Cole, (Il Pensiero socialista. Marxismo 
                  e anarchismo, vol. II, Bari, Laterza, 1967), nella quale 
                  l'autore riesce a ritrarne, con vivaci colori, l'estroverso 
                  comportamento. Scegliendo poi fra una pubblicistica imponente, 
                  affianco, a queste, le pagine di Renato Zangheri, (Storia 
                  del Socialismo italiano. Dalla Rivoluzione francese a Andrea 
                  Costa, Torino, Einaudi, 1993), nelle quali il grande storico 
                  marxista presenta l'altro vero protagonista de i Minatori, 
                  vale a dire lo Sciopero. Seguono quelle di Pier Carlo Masini, 
                  (Storia degli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, 
                  Milano, Rizzoli, 1969), nelle quali il caposcuola degli studi 
                  sull'anarchismo illustra le aspirazioni alla rivoluzione sociale 
                  dei primi internazionalisti italiani. Del libro di Tanfani, 
                  del quale non posso raccomandare la lettura perché essendo introvabile, 
                  dovrei imprestarlo (e non lo farei volentieri) avrei voluto 
                  riportare interi capitoli. Nella evidente impossibilità, ho 
                  scelto alcuni brani particolarmente "importanti" nell'economia 
                  del racconto, sperando di poter così trasmettere, a chi mi legge, 
                  almeno una parte del piacere che mi ha dato la sua lettura.
 
   Massimo Ortalli 
 Il buono 
                  e il cattivo di Emilio Tanfani
 
 (...). A queste parole Guglielmo divenne pensieroso e corrugò 
                  la fronte. Poi, dopo alcuni istanti di silenzio, che gli avevano 
                  forse servito a riconcentrare 1e proprie idee, con accento sommesso 
                  ma concitato, disse: "La lega dei mestieri e l'Associazione Internazionale degli 
                  operai sono due benefiche istituzioni che nei tempi moderni 
                  propugnano in favore degli operai la rivendicazione dei diritti 
                  del salariato.
 Per mezzo di esse abbiamo già potuto stabilire la solidarietà 
                  rivoluzionaria fra quattro milioni circa di individui. Ebbene, 
                  voi che siete gl'instancabili agenti della moderna rigenerazione, 
                  a coloro che non capiscono o non vogliono capire che soltanto 
                  un' altra terribile rivoluzione sociale può porre un argine 
                  alla prepotenza dei capitalisti alle miserie degli operai, direte 
                  che il tempo delle dissertazioni è finito e che quello dell'azione 
                  sta per cominciare.
 Direte che ogni loro più caro sogno, ogni più gradita loro speranza 
                  addiverrà un fatto compiuto, se sapranno mostrarsi uomini all'ora 
                  della terribile rivendicazione dei loro sacrosanti diritti.
 Direte che fra breve avverrà tra la Francia e la Germania una 
                  delle più sanguinose e più accanite guerre. E allora sarà giunto 
                  il momento propizio a noi, qualunque sia la parte vincitrice!
 Noi non apparteniamo ad alcun partito, a nessun paese, noi siamo 
                  l'Internazionale, abbiamo quattro milioni di soldati... e guai 
                  al vinto!
 Ecco, amici miei, l'avvenire; ecco la meta, ecco la ricompensa 
                  promessa ai nostri sforzi!"
 (...). Finalmente Enrico, dopo aver vissuto in Inghilterra ed 
                  in America, d'onde ebbero origine le nuove idee socialiste che 
                  attualmente minacciano la pace del mondo, e d' onde si diramò 
                  in Europa l'Associazione Internazionale degli operai, ebbe modo, 
                  di acquistare esperienza, di convincersi che non è tutto oro 
                  quel che riluce e che le rivoluzioni sociali non si possono 
                  effettuare coi mezzi illeciti e violenti, ma colla progressiva 
                  educazione delle masse alle nuove teorie dell'economia sociale; 
                  moderò I'impeto giovanile delle proprie convinzioni e s'indusse 
                  a pregare lo zio di porre una pietra sulle passate discordie, 
                  assicurandolo, che non avrebbe mai preso parte all'opera dissolutrice 
                  già iniziata; specialmente in Francia, dai segreti agenti dell'Internazionale.
 (...). Né si tacque all'arrivo di Enrico, sicchè questi potè 
                  udire le ultime parole del suo discorso e convincersi che non 
                  s'era ingannato nel credere che il Darwing da lui conosciuto 
                  a New York come uno dei più fanatici capi dell'Internazionale, 
                  e il Soprintendente della miniera del signor Dubois, fossero 
                  una stessa ed unica persona.
 "Pare impossibile che dopo tre rivoluzioni politiche  
                  diceva Guglielmo  tanto radicali come quelle del 1789, 
                  del 1831 e del 1848, la classe operaia si trovi ancora miserabile 
                  e oppressa come prima! È dunque necessario combattere 
                  con armi nuove e nuove idee!
 V'ingannano coloro che vi parlano di repubblica: essi sono affezionati 
                  alle viete formule del passato, e invece noi dobbiamo proclamare 
                  quelle dell'avvenire! Sono tre i flagelli dell'attuale società: 
                  il prete, il soldato, il possidente; e per sottrarci alla dannosa 
                  influenza di queste tre caste, fa d'uopo combattere senza pietà 
                  finchè non sieno per sempre annientate.
 Siate pronti ad ogni mio cenno; cercate costantemente di porre 
                  a profitto dell'Internazionale l'influenza che avete sui vostri 
                  compagni di sventura, per accrescere così le file dei combattenti... 
                  e la vittoria sarà nostra".
 Un fragoroso applauso accolse queste ultime parole di Guglielmo, 
                  sul di cui volto passò un lampo di indefinibile soddisfazione. 
                  E siccome i capisquadra si disponevano a separarsi per tornare 
                  chi a casa e chi al lavoro, ei li fermò col gesto e additando 
                  loro Enrico, che muto e pensieroso aspettava di conoscere per 
                  qual ragione avesse dovuto recarsi in quel luogo, disse: "Amici, 
                  vi presento il cittadino Enrico Vergani da molti di voi già 
                  conosciuto e stimato. Egli proviene da New York ove ha ricevuto 
                  il primo battesimo dell'Associazione Internazionale. Nella sua 
                  qualità di Sottodirettore dell'Opificio meccanico, egli avrà 
                  modo di far nuovi proseliti fra gli operai che non si trovano 
                  alla mia dipendenza e che finora rimasero sordi alle vostre 
                  istigazioni. Rispettatelo come superiore, amatelo come compagno 
                  di cospirazione! Al pari di noi egli vuole il trionfo della 
                  nostra causa, al pari di noi farà di tutto per conseguirlo".
 (...). "Ignoro se poc'anzi avete promesso ai rivoltosi di prendere 
                  in considerazione i loro reclami, colla ferma idea di concedere 
                  davvero almeno una parte di ciò che vi è stato chiesto. Comunque 
                  sia, mentre ammiro l'avvedutezza da voi dimostrata in sì difficile 
                  situazione, avvedutezza che vi ha risparmiato certamente qualche 
                  scena di sangue, mi trovo in obbligo di avvisarvi che la vostra 
                  salvezza presente e avvenire dipende appunto dall'evitar qualunque 
                  altra causa di lamento.
 Per giungere a questo, occorre dunque che agli occhi dei vostri 
                  operai possiate sembrare un principale modello, informato ai 
                  princìpi della moderna questione sociale, e per conseguenza 
                  penetrato dalla giustezza dei reclami che vi sono stati fatti".
 "Tu dunque intenderesti che io concedessi tutto ciò che mi è 
                  stato chiesto?" domandò il signor Dubois, alquanto agitato dall' 
                  idea di dover sottostare ad un atto di brutale prepotenza per 
                  parte di coloro che gli dovevano l'esistenza.
 "Questa, a mio parere, sarebbe l'unica via per iscongiurare 
                  qualunque altro doloroso avvenimento, per assicurarvi al presente 
                  e in futuro la più perfetta tranquillità, per garantire alla 
                  signorina Anaide il possesso avvenire della vostra proprietà. 
                  Al punto cui siamo oggigiorno con la questione sociale, e stante 
                  l'eccitamento in cui si trovano le masse operaie, è necessario, 
                  indispensabile ovviare qualunque causa di malcontento, non solo, 
                  ma evitare anche ogni sospetto di preconcetta malafede.
 Così diverrete l'idolo dei vostri operai, così sarete da loro 
                  mille volte benedetto, così disarmerete i malintenzionati, così 
                  annienterete l'azione dell'Internazionale! Invece, eludendo 
                  le speranze che dianzi avete avvalorate colle vostre stesse 
                  parole, o ricorrendo all'intervento della truppa per punire 
                  i colpevoli e ristabilire l'ordine colla forza e col terrore, 
                  sareste esecrato, e non garantirei a lungo né la vostra vita, 
                  né le vostre sostanze".
 (...). Ma Guglielmo intendeva le cose in ben altro modo; ei 
                  non istigava le masse alla lotta per amore ad un principio di 
                  giustizia, di diritto e di umanità; ma bensì per un diabolico 
                  trasporto a tutto ciò che genera discordia e distruzione. Ei 
                  non aveva per fine, nella sua incessante azione sovversiva, 
                  gl'interessi della classe operaia, ma voleva valersene come 
                  mezzo per giungere ad appagare una smodata cupidigia di ricchezza 
                  e una irresistibile bramosia di potere.
 Perciò, con quel fare misterioso e quell'accento profetico che 
                  tanto gli giovava sempre ad acquistarsi gli animi dei suoi uditori, 
                  disse: "che un fatto parziale a profitto di poche diecine d'operai 
                  non poteva ritenersi come un trionfo per tutta l'Associazione 
                  Internazionale; che il sig. Dubois aveva probabilmente ceduto 
                  più per timore di qualche serio disordine, che per desiderio 
                  di avvantaggiare le sorti dei suoi dipendenti; che prima o poi 
                  avrebbe certamente cercato di rendere illusorie le fatte concessioni; 
                  che, per conseguenza, nell'interesse della solidarietà indispensabile 
                  fra tutti i membri della gran famiglia operaia, era d'uopo stare 
                  all'erta e diffidare, per non avere poi da rimpiangere di aver 
                  troppo presto deposto le armi e troppo presto rinunciato alla 
                  sanguinosa lotta che in ogni parte del mondo si stava preparando 
                  fra la mano d'opera e il capitale."
 A queste parole gli occhi di Tigrotto lanciarono uno sguardo 
                  feroce e selvaggio.
 Anch'esso anelava sangue, stragi, carneficine, e gioiva nel 
                  sentir confermato dal Darwing il proprio convincimento, cioè: 
                  che le concessioni del Dubois non dovessero avere per conseguenza 
                  una pace duratura, ma una semplice tregua. L'improvvisa sparizione 
                  di Michele Perrier l'aveva già spinto a ritenere per fermo che 
                  il sig. Dubois intendesse giocare una commedia che prima o poi 
                  doveva tramutarsi in ispaventevole dramma.
 
 Tratto da: Emilio Tanfani, I Minatori ovvero Internazionale 
                  e Comune, Asiago, 1879.
     Forza vulcanicadi G.D.H. Cole
 
 Fisicamente, Bakunin era un gigante, dotato d'una forza erculea. 
                  Gli anni trascorsi in carcere dopo il '49 gli costarono la perdita 
                  di tutti i denti e contribuirono molto a minare la sua fibra; 
                  ma rimase sempre capace di un'attività immensa, anche se spasmodica. 
                  Dovunque andasse era una forza vulcanica ed esercitava spesso 
                  un fascino veramente notevole su coloro ai quali si associava: 
                  dirgli di no era quasi impossibile, anche quando non era agevole 
                  accogliere le sue richieste. Per altri aspetti, invece, non 
                  era uomo con cui fosse semplice intendersi. Sempre a corto di 
                  denaro  anzi, non possedendo mai un soldo che non venisse 
                  dai suoi amici era uno scroccone impenitente e insaziabile, 
                  non tanto perché facesse per sé spese pazzesche, quanto perché 
                  non aveva il senso dell'economia, era molto generoso col denaro 
                  che si faceva prestare e si trovava di solito in difficoltà 
                  familiari che mettevano a dura prova la sua borsa. Appena qualcuno 
                  gli dava un po' di soldi, subito li spendeva o li dava via e 
                  si metteva alla ricerca di altri amici dai quali farsi fare 
                  altri prestiti, di rado o mai sdebitandosi, ma senza mai cessare 
                  di trovare nuovi fornitori. Visse molto in casa d'altri, per 
                  lo più con gran disagio di chi l'ospitava, giacché non sapeva 
                  che cosa fossero né gli orari né l'ordine: riduceva ogni appartamento 
                  da lui abitato ad un caos, e tendeva a stare a letto tutto il 
                  giorno e in piedi tutta la notte, scrivendo indefessamente e 
                  consumando enormi quantità di caffè e tabacco. La sua corrispondenza 
                  era di una mole prodigiosa, e continuamente metteva mano a opere 
                  che, iniziate come opuscoli, acquistavano via via le dimensioni 
                  di grossi libri ed erano poi di solito abbandonate per qualcos'altro, 
                  molto prima che fossero finite. Quasi tutte le opere di Bakunin 
                  sono incompiute; e in verità non c'era ragione che venissero 
                  finite, dato che più egli scriveva più affrontava nuovi argomenti, 
                  sicché alla fine si stancava e cominciava a scrivere qualche 
                  altra cosa, per lo più con le stesse idee essenziali, ma sistemate 
                  in modo alquanto diverso. Lo stesso accadeva con le serie di 
                  articoli che egli accettava di scrivere per vari giornali: di 
                  solito restavano interrotti a metà, o perché si stancava o perché 
                  la sua attenzione veniva attratta da altre cose. È indubbio 
                  che Bakunin fu fedele ai suoi princìpi anarchici anche nel suo 
                  modo di vivere: quel paio di tentativi che fece negli ultimi 
                  anni per adattarsi a una vita più regolare fallirono in partenza. 
                  Il grande principio del vivere è la libertà, egli proclamò sempre; 
                  e certamente nessuno mai visse più libero con così poco denaro 
                  proprio. Tuttavia quest'uomo tanto importuno era evidentemente una persona 
                  amabile, e ispirava un affetto profondo, se i suoi amici sopportavano 
                  per lui una mostruosa quantità di fastidi. Aveva quel tipo di 
                  temperamento aristocratico che rende chi lo possiede totalmente 
                  inconscio delle barriere di classe e pronto ad accontentarsi 
                  di una cipolla come a gradire il lusso, quando il lusso gli 
                  càpiti dinanzi. Era geniale in grado eminente, quasi incapace 
                  di offendersi e irresponsabile all'estremo. Era inoltre un amico 
                  lealissimo, pronto a fare qualunque cosa per i suoi compagni 
                  tranne che restituire il denaro che gli avevan prestato, e molto 
                  generoso nell'apprezzare i suoi avversari se riteneva che fossero 
                  fondamentalmente "dalla parte " della rivoluzione, la quale 
                  era la sua passione.
 
 Tratto da: G.D.H. Cole, Il pensiero socialista. Marxismo 
                  e anarchismo, vol.2, Bari, 1967.
     Un delitto 
                  moraledi Renato Zangheri
 L'anno 1872 segnò nel paese una presa di coscienza 
                  degli scioperi. Uscìi in quell'anno il IV volume del 
                  Dizionario della lingua italiana del Tommaseo in cui 
                  la parola "sciopero" veniva definita nel suo significato attuale, 
                  sconosciuto ai vocabolari tradizionali: "Voce pur troppo viva, 
                  di lavoranti che smettono le opere consuete, per forzare chi 
                  paga la mercede a aumentarla" (1). Due fascicoli furono pubblicati 
                  sugli scioperi negli Annali del ministero di agricoltura, 
                  industria e commercio per il 1872, il secondo dei quali 
                  conteneva notizie sui conflitti del lavoro a Torino e a Milano, 
                  Parma, Venezia, Verona, Cremona. Poco perspicui erano i commenti 
                  dei prefetti ivi contenuti: gli scioperi erano stati determinati 
                  da cause politiche, dal desiderio di imitare quello che si era 
                  fatto altrove o da altre cause "innaturali". L'Internazionale 
                  veniva indicata come principale promotrice. L'anno prima Cesare 
                  Cantù nel suo Portafoglio dell'operaio, romanzo edificante 
                  commissionato dall'industriale Alessandro Rossi, aveva indicato 
                  lo sciopero come "un delitto morale", responsabile di "una perdita 
                  sociale ". Era ormai in corso non solo una percezione ma una 
                  reazione delle classi dominanti. Agli arresti degli "eccitatori" 
                  si accompagnava se cosi possiamo chiamarla una offensiva di 
                  persuasione (2). Venne pubblicato dai fratelli Treves nella collana "La scienza 
                  del popolo" un volumetto di Leone Paladini, Gli scioperi 
                  e la questione sociale in Italia. Parole ai poveri ed ai ricchi 
                  (3), in cui erano profusi tutti i possibili argomenti per distogliere 
                  gli operai dalle "inutili agitazioni" e dai "sordi rancori ", 
                  dalle "azioni sconsigliate e colpevoli ". Gli scioperi non servivano 
                  a fronteggiare il caro degli affitti, perché se avessero provocato 
                  un aumento delle paghe, altri lavoratori sarebbero affluiti 
                  nelle città e gli alloggi sarebbero diventati più costosi. Cosi 
                  ogni accrescimento dei salari porrebbe in difficoltà i fabbricanti 
                  di fronte alla concorrenza straniera, farebbe lievitare i prezzi, 
                  si tradurrebbe in disoccupazione, renderebbe la vita più difficile. 
                  In realtà, i lavoratori non riconoscerebbero necessari gli scioperi, 
                  se dei sobillatori non li eccitassero. È vero che essi patiscono 
                  " dure sofferenze"; ma ciò che conturba le loro menti non è 
                  tanto il caro vita quanto "altre aspirazioni, altre tendenze, 
                  altre suggestioni ", nella " seducente ma pur menzognera speranza 
                  di un' immaginaria trasformazione sociale".
 (...).
 Il Paladini sapeva qualcosa dei recenti contrasti in seno all'Internazionale. 
                  I suoi membri, affermava, sono poco stimabili: "dai medesimi 
                  rendiconti dei loro congressi risulta che sono essi i primi 
                  a disprezzarsi, a coprirsi d'insulti, a nutrire la massima diffidenza 
                  verso coloro che si danno per loro capi, ed accusarli brutalmente 
                  di seduzione, di ambizione e di intrigo", com'è avvenuto all'Aia. 
                  Essi non hanno programmi, il loro vero piano "è la dissoluzione 
                  sociale ed il caos, lusingandosi che possa poi da sé costituirsi 
                  una società meglio organizzata". Non é comunque da parte di 
                  questi comunisti che si debba temere il peggio, e non c'è motivo 
                  di grave allarme né necessità di "applicare quelle misure violente 
                  di repressione, che alcuni troppo pessimisti e paurosi vanno 
                  invocando con troppa sollecitudine". È vero che il malumore 
                  che cova fra le classi povere "è purtroppo appoggiato anche 
                  sul fatto che i proletari hanno imparato a ragionare sui propri 
                  diritti, sulle loro condizioni, sull'eguaglianza umana, e sono 
                  irresistibilmente allettati dalla speranza di poter modificare 
                  il loro stato di povertà, di privazioni e di sacrifici". Ma 
                  solo i pochi seguono "le perniciose teorie dell'Internazionale". 
                  La stessa Comune fu il risultato di circostanze eccezionali, 
                  un concorso di nobili sentimenti e di subdole imprese, che non 
                  si potranno mai riprodurre né a Parigi né in altre città. Il 
                  vero rimedio sarà l'istruzione impartita dai dotti agli ignoranti, 
                  una morale "più filosofica ed evangelica", un impegno educativo 
                  delle "classi agiate ed elevate".
 
 1. G.C. Jocteau, L'armonia perturbata. Classi dirigenti e 
                  percezioni degli scioperi nell'Italia liberale, Roma - Bari 
                  1988, p.3.
 2. Ibid., pp.10-16, 19-20. E sul "Portafoglio" di Cantù si veda 
                  il commento di C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, 
                  in Storia d'Italia Einaudi, I. I caratteri originali, 
                  pp. 660-70.
 3. L'edizione da me consultata è la terza, del 1874.
 
 Tratto da: Renato Zangheri , Storia del socialismo italiano. 
                  Dalla rivoluzione francese a Andrea Costa, Torino, 1993.
 
   La Rivoluzione 
                  Sociale di Pier Carlo Masini
 "VIVA LA RIVOLUZIONE SOCIALE ", con questo grido 
                  erano finiti i lavori della Conferenza di Rimini. E il Cafiero, 
                  presidente di quella conferenza, aveva poco dopo concluso il 
                  suo articolo sul congresso dell'Aia con parole altrettanto impegnative 
                  e solenni: "A provare le nostre forze attendiamo la Rivoluzione: 
                  che essa giudichi autoritari ed anarchici" (1). 
                  Ma che cosa intendevano gli internazionalisti italiani 
                  per rivoluzione sociale? Essi anzitutto, mettendo piuttosto 
                  l'accento sull'aggettivo che sul sostantivo, intendevano il 
                  contrario della rivoluzione politica, di cui il Risorgimento 
                  con il suo epilogo unitario-monarchico, rappresentava l'esempio 
                  negativo e deludente. In secondo luogo, per la stessa impostazione 
                  anarchica del problema, non potevano concepire la rivoluzione 
                  nei termini delle esperienze quarantottesche: come conquista 
                  del potere politico a mezzo di colpi di mano sui centri di questo 
                  potere. Infatti gli internazionalisti non volevano in 
                  alcun modo  né violento, né pacifico, né legale, né illegale 
                   la conquista del potere politico, ma si proponevano piuttosto 
                  di distruggerlo. Le due questioni erano legate perché la conquista 
                  del potere politico ricadeva ancora negli schemi della rivoluzione 
                  politica che appunto gli internazionalisti rifiutavano 
                  in nome della rivoluzione sociale.
 D'altra parte la rivoluzione politica richiedeva anche per il 
                  suo successo una organizzazione fortemente centralizzata, un 
                  efficiente apparato militare, una rigida disciplina ideologica 
                  e tattica che gli internazionalisti, per ragioni di principio, 
                  rifiutavano.
 Detto ciò che gli internazionalisti non volevano, resta più 
                  facile capire che cosa in effetti volessero.
 Di positivo volevano, come dicono i loro programmi, "l'emancipazione 
                  del proletario" e "l'organamento del lavoro": due obiettivi 
                  che a loro giudizio stavano completamente fuori della politica 
                  corrente, in una nuova dimensione storica. Per "emancipazione 
                  del proletario" essi intendevano la liberazione dei lavoratori 
                  dalla condizione del salariato e dalla soggezione al capitale; 
                  per "organamento del lavoro" una organizzazione economica collettivistica 
                  a base federativa fra i comuni e le associazioni produttive: 
                  questa era la parte socialista del loro programma.
 Quanto alla rivoluzione sociale  o come si diceva talvolta 
                  più fantasiosamente liquidazione sociale (2)  essa 
                  si presentava agli occhi degli internazionalisti come una prospettiva 
                  catastrofica e palingenetica, una specie di sisma politico più 
                  o meno imminente. Si trattava di un mito di potente effetto 
                  nell'agitazione e nella propaganda, mancante peraltro di quella 
                  concretezza e praticabilità che invece si ritrovava nei piani 
                  rivoluzionari di tipo tradizionale, giacobino o blanquista, 
                  mazziniano o garibaldino.
 Un nuovo millenarismo animava questa idea di rivoluzione sociale 
                  non più concentrata in un punto dato e prevista per un momento 
                  convenuto, ma concepita come un moto diffuso e ininterrotto, 
                  una guerra senza quartiere, senza rigidi fronti di combattimento, 
                  senza possibilità di armistizi e di soluzioni provvisorie: cospirazioni, 
                  dimostrazioni barricate guerriglia per bande, sortite, moti 
                  di piazza, proteste, agitazioni, scioperi, attentati, rivolte 
                  in campagne e in città, atti individuali e movimentI collettivi, 
                  fino alla totale distruzione del nemico: tutto questo era la 
                  rivoluzione sociale.
 
 
 1. L'articolo, intitolato Il Congresso dell'Aia e apparso 
                  suI giornale "La Rivoluzione Sociale" del settembre 1872, non 
                  è firmato ma lo si può attribuire con certezza a Cafiero, unico 
                  italiano presente all'Aia che riferisce, da testimone, alcuni 
                  particolari sui lavori del congresso.
 
 2. Per una critica della parola d'ordine "anarchia e liquidazione 
                  sociale" spesso usata dagli internazionalisti italiani e spagnoli, 
                  si vedano le interessanti e significative osservazioni di James 
                  Guillaume in una lettera a Victor Cyrille del 22 settembre 1873 
                  pubblicata da Marc Vuilleumier, La correspondance d'un internationaliste: 
                  Victor Cyrille (1871-1874), in "Movimento operaio e socialista" 
                  del luglio-dicembre 1966.
 
 Tratto da: Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani 
                  da Bakunin a Malatesta, Milano. 1969.
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