| La mondializzazione  o globalisation, 
                  come dicono gli anglosassoni  è un concetto di moda. Imposto 
                  dalle recenti evoluzioni, fa parte dello spirito dell'epoca. 
                  In qualche anno, se non in qualche mese, tutti i problemi sono 
                  diventati globali: sicuramente la finanza e gli scambi economici, 
                  ma anche l'ambiente, la tecnologia, la comunicazione, la pubblicità, 
                  la cultura e perfino la politica. Specialmente negli Stati Uniti, 
                  l'aggettivo globale si è ritrovato accostato a tutti questi 
                  settori. Si parla di inquinamenti globali, di televisione globale, 
                  di globalizzazione dello spazio politico, di società civile 
                  globale, di giurisdizione globale, di tecnoglobalizzazione, 
                  ecc. Certamente, il fenomeno che si nasconde dietro a questi 
                  termini non è così nuovo. Da parecchi decenni, voci profetiche 
                  annunciavano l'avvento di un "villaggio planetario", taluni 
                  specialisti parlavano di occidentalizzazione, uniformazione 
                  o modernizzazione del mondo, e alcuni storici ne svelavano tutti 
                  i sintomi nelle evoluzioni di lunga durata. La mondializzazione, sotto un'apparenza d'imparziale constatazione 
                  di fatto, è anche uno slogan che spinge ad agire nella prospettiva 
                  di una trasformazione augurabile per tutti. La parola d'ordine 
                  è stata lanciata dalle aziende transnazionali e dal governo 
                  americano. Il termine è lungi dall'essere neutro; esso lascia 
                  intendere che si sarebbe di fronte a un processo anonimo e universale, 
                  benefico per l'umanità e non determinato da un'impresa perseguita 
                  da alcuni a loro vantaggio e gravata da enormi rischi e considerevoli 
                  pericoli.
 La mondializzazione significa certamente mondializzazione dei 
                  mercati. Tuttavia, essa affonda le sue radici nel progetto stesso 
                  della modernità teso a edificare una società razionale. Non 
                  vi sono solo forme economiche, e queste non sono, forse, le 
                  più decisive. La mondializzazione tecnologica e quella culturale 
                  sono almeno altrettanto importanti. Tutti gli aspetti sono complementari 
                  e interdipendenti. Niente interconnessioni tra borse valori, 
                  e quindi niente mercato finanziario mondiale, senza satelliti 
                  di telecomunicazione; niente rete mondiale di trasporti senza 
                  un sistema di controlli computerizzati. Il progetto Gii (Global 
                  Information Infrastructure), sorto sotto la spinta degli 
                  Stati Uniti e che consiste nello sviluppo di "autostrade informatiche" 
                  (una "rete delle reti"), mira esplicitamente alla creazione 
                  di un mercato mondiale più generalizzato e immediato. Niente 
                  mondializzazione economica, infine, senza mondializzazione tecnologica 
                  e senza una "cultura" mondializzata (i computer, per esempio, 
                  funzionano in un inglese internazionale...). Tutti questi fenomeni 
                  concorrono alla messa in orbita di un'organizzazione tecnoeconomica 
                  di marca occidentale.
  
  Verso una mercificazione integrale 
 "Spetta a noi costruire una comunità mondiale in cui i cittadini 
                  di Paesi vicini si guardino non come potenziali nemici, ma come 
                  potenziali partner, tutti membri di una grande famiglia umana, 
                  uniti da una catena dalle maglie sempre più fitte [...]. Essa 
                  renderà possibile la creazione di un mercato mondiale dell'informazione, 
                  in cui i consumatori potranno acquistare o vendere [...]. Lo 
                  sviluppo mondiale può aumentare di parecchie centinaia di miliardi 
                  di dollari se noi imbocchiamo la strada della Gii" (1). Il crollo dei sistemi economici pianificati e la deregulation 
                  nei Paesi capitalisti hanno condotto a una mondializzazione 
                  senza precedenti dei mercati. Tuttavia, la mondializzazione 
                  dell'economia si realizza pienamente solo con la corrispondente 
                  economicizzazione del mondo, cioè con la trasformazione 
                  di tutti gli aspetti della vita in questioni economiche, se 
                  non in merci. Sotto questa forma più significativa, in quanto 
                  economica, la mondializzazione è di fatto anche tecnologica 
                  e culturale, e copre la totalità del pianeta.
 La planetarizzazione del mercato costituisce una novità 
                  solo per l'ampliamento del suo campo d'azione, ragion per cui 
                  gli anglosassoni hanno creato il neologismo globalisation. 
                  Si procede così verso una mercificazione integrale. Ciò nonostante, 
                  l'idea e una certa realtà del mercato mondiale fanno parte integrante 
                  del capitalismo.
 Fin dalle origini, il funzionamento del mercato è stato transnazionale, 
                  ovvero mondiale. La Lega anseatica, le piazze finanziarie di 
                  Genova, Lyon e Besançon, le attività commerciali di Venezia 
                  e dell'Europa del Nord, per non parlare delle grandi fiere (Troyes), 
                  sono internazionali, se non proprio mondiali, fin dai secoli 
                  xii-xiii.
 Il recente trionfo del mercato, descritto appunto come una "nuova 
                  mondializzazione", comprende in effetti tre fenomeni collegati, 
                  che sono, in ordine di importanza, la transnazionalizzazione 
                  delle società, la diminuzione dei controlli statali a Ovest 
                  e l'insuccesso della pianificazione a Est. Bisogna spendere 
                  qualche parola per capire la posta in gioco.
 Anche le compagnie transnazionali, come il mercato, esistono 
                  dalla fine del Medio Evo. Jacques Coeur, i Fugger, la Banca 
                  dei Medici, la Compagnia delle Indie, per citare solo gli esempi 
                  più famosi, sono state delle imprese commerciali insediate su 
                  più continenti, con un traffico che aveva il mondo come orizzonte. 
                  Attualmente, la novità consiste nel fatto che si mondializza 
                  sistematicamente non solo il capitale commerciale e bancario, 
                  ma anche il capitale industriale. La Renault fa fabbricare i 
                  suoi motori in Spagna. I computer Iibm sono fabbricati in Indonesia, 
                  assemblati a Saint-Omer, venduti negli Stati Uniti, ecc.
 La divisione del lavoro si è internazionalizzata. Le imprese 
                  sono diventate totalmente transnazionali. L'insieme interconnesso 
                  della mondializzazione del commercio, della finanza e dell'industria 
                  conduce all'emergere di sedi offshore, senza legami storici 
                  o culturali con i luoghi nei quali si sono insediate. I massicci 
                  trasferimenti di attività, le reti di subappalto, le joint-ventures, 
                  fino alla smaterializzazione della produzione e all'aumento 
                  dei servizi, accelerano questo fenomeno. Una delle poste in 
                  gioco del trattato di Maastricht è non solo spingere oltre questa 
                  transnazionalizzazione in seno all'Unione europea, ma anche 
                  di permettere alle imprese giapponesi, americane, ecc., di colonizzare 
                  lo spazio del mercato comune e di aumentare la fluidità degli 
                  scambi economici, cioè di obbedire alle leggi dell'economia. 
                  Il principale obiettivo dell'Uruguay Round, l'ultimo negoziato 
                  del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), è 
                  stato quello di estendere questa liberalizzazione degli scambi 
                  all'agricoltura e ai servizi. Un sistema economico universale 
                  completamente sradicato, che non ha più legami privilegiati 
                  con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già 
                  più o meno realizzato.
  
  Ad ogni costo 
 Questa sfera economico-finanziaria, extra-territoriale, "monitorata" 
                  permanentemente dalle borse, dai computer, dalle banche dati, 
                  ventiquattro ore su ventiquattro, più o meno regolamentata (e 
                  deregolamentata) dal Fmi (Fondo monetario internazionale), dal 
                  Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e dalla Camera di 
                  commercio internazionale, ma anche dal G7, o addirittura dal 
                  Forum di Davos (riunione informale dei responsabili economici 
                  e politici del pianeta), e che opera attraverso queste istituzioni 
                  sugli Stati e sulle società, è senza dubbio ciò che meglio corrisponde 
                  al mercato astratto degli economisti, il cui centro è ovunque 
                  e la circonferenza da nessuna parte. La diminuzione dei controlli nazional-statali è a un tempo causa 
                  e conseguenza di questa transnazionalizzazione. Il compromesso 
                  tra Stato e Mercato, che si è saldato nella maniera più solida 
                  attraverso il fenomeno delle economie nazionali come insiemi 
                  interdipendenti dei settori industriali e commerciali, ha conosciuto 
                  la stagione migliore durante i trent'anni di sviluppo economico 
                  (1945-1975) e durante lo Stato sociale.
 La dinamica del mercato che sopprime le barriere delle economie 
                  locali e regionali non si è bloccata per sempre alle frontiere 
                  del territorio nazionale. La mondializzazione è l'espansione 
                  geografica ineluttabile di un'economia sistematicamente scorporata 
                  dal sociale a partire dal XVIII secolo. Questa evoluzione è 
                  stata accelerata e voluta dai "padroni del mondo" (quei 2000 
                  global leaders che si ritrovano a Davos) che predicano 
                  instancabilmente la deregulation e l'eliminazione di 
                  intermediazioni e barriere.
 Il crollo delle economie socialiste ha ulteriormente accelerato 
                  e rinforzato questo processo. La pianificazione ha avuto, in 
                  definitiva, il ruolo storico di uniformare lo spazio economico 
                  a Est e di distruggere ogni specificità culturale in grado di 
                  ostacolare il libero gioco delle "forze di mercato". C'erano 
                  degli scambi, ma non c'era la possibilità di sviluppare un progetto 
                  che mettesse in relazione le risorse naturali di un immenso 
                  territorio e milioni di uomini, in tutti i settori, per tutti 
                  i prodotti. Non era possibile comperare, fabbricare, vendere 
                  liberamente, né seminare la rovina o la prosperità in funzione 
                  di un margine di profitto talvolta irrisorio. Il socialismo 
                  reale significava penuria, mediocrità e squallore. Per contrasto, 
                  l'economia di mercato sembrava sinonimo di abbondanza e di efficienza. 
                  Di qui ha avuto origine l'attrazione verso quel modello e la 
                  volontà d'inserirsi a ogni costo nel mercato mondiale.
 Tuttavia, questa mondializzazione senza precedenti dei mercati 
                  non realizza ancora il mercato integrale. Viene così designato 
                  quel grande meccanismo autoregolatore che provvede alla totalità 
                  della vita sociale, dalla nascita alla morte degli individui 
                  atomizzati. Secondo gli economisti ultraliberisti: "Tutto ciò 
                  che è oggetto di un desiderio umano è candidato allo scambio. 
                  In altre parole, la teoria economica in quanto tale non fissa 
                  alcun limite all'impero del mercato" (2). La mercificazione 
                  deve dunque penetrare in tutti i recessi dell'esistenza. Il 
                  trionfo della libertà, il libero accordo degli individui che 
                  obbediscono al proprio calcolo di ottimizzazione, che fa di 
                  ognuno un imprenditore e un commerciante, sta per diventare 
                  la norma, l'unica norma di un anarco-capitalismo (termine 
                  scelto da certi ideologi per designare questo sogno di un'economia 
                  senza Stato) totale e ideale.
 
  
  Pericolose instabilità 
 La globalizzazione designa anche questo inedito procedere 
                  verso la mercificazione totale del mondo. I beni e i 
                  servizi, il lavoro, la terra e, domani, il corpo, gli organi, 
                  il sangue, lo sperma, l'affitto dell'utero entrano nel circuito 
                  commerciale. Fin d'ora, con i servizi, la banca, la medicina, 
                  il turismo, i media, l'insegnamento e la giustizia, diventano 
                  transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani, 
                  presenti dappertutto nel mondo, nel corso delle grandi manovre 
                  per il controllo del mercato delle autostrade informatiche, 
                  è impartita la direttiva di prestare manforte ai giganti del 
                  multimediale esigendo che i "prodotti" culturali siano trattati 
                  come merci "uguali alle altre" e le riserve culturali come un 
                  banale e nocivo protezionismo. L'attuale mercato mondiale, diversamente dalle antiche "piazze 
                  del mercato", quei luoghi reali delle città e dei paesi dove 
                  si scambiavano le merci tradizionali, realizza un'interdipendenza 
                  dei diversi mercati. Mette in comunicazione più o meno stretta 
                  i mercati dei beni, dei servizi produttivi e dei capitali.
 Tuttavia, invece di generare un armonioso equilibrio per la 
                  massima felicità del maggior numero di persone, come postulano 
                  i liberisti, questo mercato totale non può evitare, né in teoria 
                  né in pratica, delle pericolose instabilità. I mercati finanziari, 
                  in particolare, dominano sempre più i mercati di beni e servizi. 
                  Ora, essi obbediscono prima di tutto alle profezie autorealizzatrici 
                  e si sviluppano in sacche speculative che possono raggiungere 
                  dimensioni mostruose. L'ammontare delle speculazioni finanziarie 
                  non è proporzionale a quello delle attività produttive. La deregulation, 
                  lo sviluppo dei mercati a termine e l'esplosione dei prodotti 
                  derivati hanno fatto sì che gli scambi giornalieri abbiamo oltrepassato 
                  i 1.500 miliardi di dollari, ossia il doppio delle riserve monetarie 
                  (più del prodotto interno lordo della Francia!). I movimenti 
                  finanziari raggiungevano circa 150.000 miliardi di dollari nel 
                  1993, cioè da 50 a 100 volte più dei movimenti commerciali annuali. 
                  Le economie, e particolarmente quelle del Terzo mondo, sono 
                  alla mercé delle fluttuazioni di quei mercati finanziari. L'esplosione 
                  di queste sacche speculative è oltretutto capace di scuotere 
                  l'intero sistema mondiale, come si è visto nel tracollo del 
                  1987 o nella crisi americana. Un ragazzo di 25 anni che digita 
                  sul suo portatile può far fallire la più antica e rispettabile 
                  banca della City, la Barings. E si trattava comunque di crisi 
                  minori e circoscritte!
  
  Ma l'avvenire è aperto 
 Dietro a questi nuovi fenomeni operano delle logiche, dei processi 
                  e delle tendenze molto vecchie. Modernità, Occidente, Società 
                  del benessere, ma anche Sviluppo, Progresso, Razionalità, Tecnica, 
                  altrettante parole cardine che si rinviano l'una all'altra e 
                  che possono sostituirsi per designare lo stesso complesso di 
                  forze. La razionalità economica è alla base della ricerca tecnoscientifica. 
                  Il progresso è la condizione, ma anche il risultato, dell'economicizzazione 
                  del mondo e dell'accumulazione illimitata di capitali, di merci 
                  e di beni materiali e immateriali. La tecnica è condizione della 
                  crescita e dello sviluppo, ma anche, fino a un certo punto, 
                  il loro risultato e il loro motore. La mondializzazione è certo 
                  un'altra maniera per designare l'occidentalizzazione e l'uniformazione 
                  planetaria. Le si potrebbero aggiungere tutte le parole cardine 
                  citate prima come aggettivi qualificativi, moltiplicandone così 
                  le connotazioni pur indicando sempre la stessa cosa. La mondializzazione 
                  è comunque moderna, occidentale, tesa allo sviluppo, progressista, 
                  razionale e tecnoscientifica. Il processo che spesso viene chiamato occidentalizzazione del 
                  pianeta e che è di fatto la tecnologizzazione, l'estensione 
                  del tecnocosmo, non sarebbe dunque un incidente, un errore politico 
                  riparabile, ma l'espressione di una necessità determinata dall'essenza 
                  stessa della tecnica e dei principi dell'evoluzione tecnologica 
                  (3).
 Resta il fatto che per comprendere il significato, l'impatto 
                  e i limiti del fenomeno occorre valutare la portata del processo 
                  di uniformazione planetaria, interrogarsi sulla natura dell'Occidente 
                  che resta l'attore chiave di questa evoluzione, individuare 
                  le complesse dinamiche in atto, analizzarne gli insuccessi e 
                  interrogarsi su quello che potrebbe accadere in futuro.
 Non è inevitabile che la storia finisca in una catastrofe. Poiché 
                  l'avvenire è ancora aperto, le trasformazioni in corso possono 
                  essere orientate dall'azione di ciascuno e di tutti. Ma è necessario 
                  prima di tutto respingere la pretesa degli esperti di monopolizzare 
                  le decisioni che ci riguardano e che, proprio per questo, competono 
                  a tutti. Il testo che segue si sforza di offrire una descrizione 
                  sommaria, semplice e chiara per quanto possibile di tutti gli 
                  aspetti della questione, per permettere a ciascuno di farsi 
                  una propria opinione e di agire di conseguenza. Essa realizzerà 
                  pienamente il suo obiettivo se contribuirà anche solo minimamente 
                  a stimolare, informare e sensibilizzare il lettore sulle poste 
                  in gioco nel processo di trasformazione planetaria che stiamo 
                  vivendo.
  Serge Latouche
 Note 1. Discorso del vicepresidente americano Al Gore all'International 
                  Telecommunication Union, Buenos Aires, 21 marzo 1994. Brani 
                  estratti da Multimédia et communication à usage humain, 
                  "Dossier pour un débat", n. 56, Fondation pour le progrès de 
                  l'homme, 1996, pp. 78-87.
 2. Baby Market, "Le Monde", 7 luglio 1988.
 3. G. Hottois, Le signe et la technique. La philosophie à 
                  l'épreuve de la technique, Aubier, Paris, 1984, p. 200.
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